Ci sono numeri che spiegano meglio di qualsiasi discorso cattedratico la situazione della scuola italiana per quanto riguarda le pratiche di inclusione. I dati del 2017-18 evidenziano che su un totale di 33.311 alunni/e con disabilità frequentanti gli Istituti superiori, 25.811 erano iscritti/e ai corsi professionali, 5.167 ai licei artistici e il restante 7.500 si divideva in tutte le altre tipologie, ovvero i rimanenti licei e gli istituti tecnici. Significa che il 77,5% delle alunne e degli alunni con disabilità sceglie un percorso professionale; il 15,5% il liceo artistico e l’ultimo 7% si disperde negli altri numerosi percorsi formativi possibili. Se sommiamo le percentuali dell’accoglienza di professionali e artistici, dunque, arriviamo a uno sconvolgente 92% del totale. Possibile che non ci si interroghi su questi dati? È davvero inclusione questa? Non si rischia, in tal modo, di creare una ghettizzazione su base volontaria di chi avrebbe diritto a una partecipazione sociale ampia e variegata? Quali possono essere i motivi per i quali una famiglia sceglie, per la propria figlia o figlio, un Istituto superiore piuttosto di un altro?
Partiamo dalla questione di fondo che, giustamente, preoccupa gran parte dei genitori di ragazzi e ragazze fragili: cosa farà mio/a figlio/a da grande? Potrà lavorare? Avrà un titolo di studio adeguato alle sue reali capacità? Entriamo, con questa domanda, nella più spinosa questione che differenzia i percorsi formativi superiori da tutti quelli precedenti: la necessità di formalizzare o meno un diploma. Dalla secondaria di secondo grado si può uscire con una certificazione di competenze (se non si riesce a raggiungere il livello minimo degli obiettivi didattici richiesti), oppure con un diploma vero e proprio. Il titolo di terza media, invece, viene acquisito da tutti e tutte indistintamente, che si sia fatto un percorso scolastico standard o si sia usufruito di una proposta anche molto differenziata. Ora, va da sé che se si hanno difficoltà cognitive, il pensiero astratto, analitico, critico e periferico richiesto di norma nei licei costituisce un ostacolo molto serio. Meglio quindi percorsi di studio che prediligano un sapere più applicativo e l’alternanza di didattica teorica e laboratoriale, dove la possibilità di arrivare al diploma si fa più concreta. I professionali, in generale, sono effettivamente pensati così. Il liceo artistico poi, da questo punto di vista, ha una marcia in più su tutte le altre scuole perché la proposta didattica è strapiena di arti applicate e saperi del fare (e del pensare), laboratori, attività creative. Una scuola divertente, varia, oltre che formativa. Possiamo concludere, quindi, che esista una ragione oggettiva per la quale molte famiglie si orientano verso queste due tipologie di istituti per indirizzare i propri figli e figlie agli studi superiori.
Ma… c’è un ma. La disabilità non è soltanto quella intellettiva e l’attitudine al lavoro non si acquisisce solo e automaticamente col diploma scolastico. Abbiamo, anzi, un disperato bisogno di creare alternative a Cdd e Cse, almeno per motivi meramente economici (oggi gli utenti dei centri diurni lombardi sono circa 6.270, per una spesa giornaliera totale di più di 350.000 euro), se proprio non ce la facciamo a capire che, dal punto di vista etico, far sentire qualunque persona adulta sempre e solo assistita e mai davvero protagonista della sua vita e della società (che vuol dire portare a casa uno stipendio, per esempio, ma anche fare un servizio al bene comune, avere una propria autonomia domestica e personale, una vita sociale vera) è una pratica che grida vendetta, perché lede l’integrità dell’individuo e mina nel profondo la sua dignità di cittadina/o. Quello che dovremmo fare è dare a questi giovani adulti e adulte la possibilità concreta di essere attivi/e, produttivi/e, autonomi/e, inclusi/e, realizzati/e e felici, come chiunque nel mondo avrebbe diritto a essere! Ma la verità è che oggi serve un diploma di scuola superiore per entrare nel mondo del lavoro, nonostante la legge 68/99 e le liste per le categorie protette. E chi non riesce a prenderlo, questo benedetto pezzo di carta, ma ha comunque molte autonomie e competenze da mettere in campo? Non possiamo pensare che i centri diurni o i centri socio educativi siano la risposta giusta per tutte e tutti: occorre moltiplicare un welfare pensato ad hoc, sostenere le cooperative di tipo B, le realtà produttive etiche e virtuose. Finché ciò non avviene, la scuola ha un macigno sulla coscienza non indifferente. Non diplomare significa porre una grandissima ipoteca sul futuro di questi/e giovani, ma dall’altra parte non si possono nemmeno commettere dei falsi in atto pubblico, assegnando delle sufficienze dove oggettivamente non ci sono. Ora, secondo l’Istat (2023-24), la disabilità intellettiva riguarda il 40% di alunne/i con diagnosi, una quota che raggiunge il 52% nella scuola secondaria di secondo grado. Significa che la metà dei ragazzi e delle ragazze con certificazioni diagnostiche NON ha nessun problema (o ne ha di circoscritti) dal punto di vista degli apprendimenti. I conti non tornano, quindi, con la distribuzione della popolazione negli Istituti superiori. Perché, se le capacità cognitive non sono compromesse, alunni e alunne con fragilità non scelgono i licei o i tecnici? Ci sono ragazzi/e, per esempio, che necessitano di silenzio, stabilità, schemi fissi e sarebbero molto a loro agio in un ambiente ordinato, tranquillo e dove i docenti non fanno gran fatica a far rispettare le regole, come spesso sono i licei, per esempio. Eppure lì non si iscrivono. Ci sono ragazzi/e che viaggiano a mille con ausili informatici e sarebbero più che valorizzati/e in istituti tecnici con corsi dove le Tic la fanno da padrona. Ce ne sono altri/e con grosse fatiche relazionali, che potrebbero essere assai ben accompagnati in licei umanistici, psicopedagogici, per esempio, dove l’attenzione alla relazione è parte integrante degli apprendimenti proposti al corpo discente. Il turismo e i servizi di ristorazione e accoglienza sono un altro ambito in cui moltissimi/e adolescenti con autismo o con sindrome di Down sono performanti e gli istituti tecnici a indirizzo turistico calzerebbero a pennello. Perché allora c’è la corsa ai professionali e le alternative non vengono neppure prese in considerazione?
A costo di dire qualcosa di molto impopolare, faccio appello alla mia ormai lunga esperienza in quasi tutti i generi di scuola superiore e provo a proporre una chiave di lettura forte, ma a mio avviso sostenibile. Dopo decenni in cui i numeri sono stati, suppergiù, quelli con cui ho aperto questo articolo, mentre gli istituti professionali e artistici hanno sviluppato una profonda cultura della disabilità, inventando e incarnando pratiche inclusive quasi per necessità, gli altri tipi di scuole non sono stati chiamati a fare altrettanto, finendo col rimanere al palo. Ma a chi serve l’inclusione? Chi cresce e migliora sé stesso in ambienti inclusivi, bambini/e e ragazzi/e con disabilità o chiunque, soprattutto chi la fragilità non l’ha mai incontrata prima e non la vive sulla propria pelle? Nei licei e nei tecnici la disabilità si vede col binocolo, finendo per privare alunni/e di quella esperienza diretta di inclusione che serve a formare una cittadinanza solidale e attenta al prossimo. Oggi la forbice è evidentissima: ci sono istituti che accolgono ogni anno percentuali assai alte di gioventù fragile, con una competenza che si è radicata e strutturata nel tempo (e alla quale i genitori, ovviamente, si affidano con fiducia) e chi questo percorso non l’ha quasi mai neppure iniziato, finendo col non costituire una scelta sicura per le famiglie. Ma ciò ha come conseguenza uno sbilanciamento nei numeri che crea non pochi danni all’utenza (vogliamo parlare delle deroghe che si fanno alla normativa che prevederebbe un numero massimo in classe di 20 alunni/e in presenza di un soggetto con disabilità?) e, in generale, alla cultura dell’inclusione che dovremmo promuovere. Bisogna assolutamente intervenire, per garantire davvero il diritto allo studio e alla scelta e per consentire a ogni istituto di sviluppare buone pratiche di inclusione, fondate su esperienze sempre più significative, anche numericamente. Una buona soluzione potrebbe passare da quei servizi di orientamento che i territori mettono a disposizione delle famiglie (assistenti sociali, incontri pubblici e tutor orientatori). Questi per primi dovrebbero entrare in una logica di offerta a tutto tondo, che non escluda nessuna tipologia di istituto o, meglio, che valorizzi le caratteristiche proprie di ciascun indirizzo in linea con il funzionamento e i bisogni dei singoli ragazzi e ragazze. Dio non voglia che, tra qualche anno, quel 92% salga ancora di qualche punto percentuale. Significherebbe davvero la più grande delle sconfitte pedagogiche e la fine di quel primato delle politiche inclusive che il nostro Paese detiene in Europa da sempre.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
