Durante la Seconda guerra mondiale, molte furono le eroine e gli eroi della “Grande guerra patriottica” celebrati dall’Unione Sovietica come simboli della sopravvivenza e della liberazione nazionale. Tra questi vi fu anche una donna, Zoja Kosmodem’janskaja, che con la sua morte, tragica e pubblica, diventò emblema della determinazione giovanile, che permane oltre la guerra stessa. Ma quanto della sua storia è stato plasmato dalla narrazione ufficiale a fini patriottici? Come un’esistenza spezzata è diventata una delle narrazioni più potenti e fortemente ideologizzate della memoria sovietica del Novecento?

Zoja nacque il 13 settembre 1923 a Osino-Gai, un villaggio nella regione di Tambov, in una famiglia dalle radici molto religiose, la cui storia si intrecciò con le violenze del potere bolscevico: il nonno era un sacerdote ortodosso che fu giustiziato nel 1918. Nel 1929 la famiglia lasciò Tambov per trasferirsi in Siberia per circa un anno. Secondo il libro Racconto di Zoja e Šura scritto dalla madre Ljubov, le ragioni di tale spostamento si ricollegavano all’opposizione del padre Anatolij rispetto alla collettivizzazione agricola e alla paura di possibili ritorsioni. Successivamente, fu proprio grazie all’intervento della sorella di Ljubov, funzionaria del Narkompros — ministero responsabile dell’istruzione durante i primi decenni dell’Unione Sovietica — che la famiglia poté ritornare a Mosca. Nel 1933 il padre morì dopo un intervento chirurgico all’intestino e poco dopo il fratello, Aleksandr, fu ucciso in Prussia Orientale durante l’assalto a Vierbrüderkrug.
Durante gli anni scolastici, Zoja si distinse per il suo rendimento, soprattutto nelle materie umanistiche: per questa sua passione aveva, infatti, intenzione di iscriversi all’Istituto di letteratura. Tuttavia, i rapporti con compagni e compagne di scuola non furono sempre facili e nel 1939 cominciarono a manifestarsi in lei alcuni disturbi nervosi. L’anno successivo contrasse una meningite che la costrinse a un periodo di riabilitazione presso l’istituto neurologico di Sokol’niki. Come molte giovani, Zoja era stata plasmata attraverso l’ideologia sovietica e aveva ricevuto una formazione che enfatizzava il sacrificio per la patria socialista. Fin da ragazzina manifestò un forte impegno politico non solo a causa della propaganda statale, ma anche della sua esperienza personale e familiare.
Fu così che il 31 ottobre 1941 si unì a circa duemila giovani volontari e volontarie del Komsomol — organizzazione giovanile ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica — che si ritrovarono presso il punto di raccolta al cinema Kolizeum di Mosca. Venne selezionata per un’unità di sabotatori e inquadrata nel Reparto partigiano 9903, sotto il comando del Fronte Occidentale. In questa situazione di emergenza, molte donne, anche giovani e spesso inesperte, furono arruolate come sabotatrici volontarie. L’unico requisito indispensabile era avere un forte entusiasmo ideologico. Dopo un rapido addestramento, il 4 novembre Zoja fu inviata con un distaccamento nel Volokolamskij rajon, dove prese parte a una missione di minamento stradale. Il 17 novembre venne emanato l’Ordine n. 428 dal Comando supremo, firmato da Stalin, che stabiliva la distruzione sistematica di villaggi abitati nelle retrovie nemiche nel raggio di decine di chilometri. A tale scopo furono assegnati nuovi obiettivi operativi ai gruppi di sabotatori Provorov e Krajnov, di cui faceva parte lei stessa. Questi ricevettero l’ordine di distruggere dieci villaggi nel giro di pochi giorni con scarsissime dotazioni: bottiglie incendiarie, una pistola, razioni per cinque giorni e una bottiglia di vodka. Durante la missione, i due gruppi furono attaccati dal fuoco nemico, subendo molte perdite.
La notte del 27 novembre, Zoja e altri due volontari riuscirono a entrare a Petriščevo e a incendiare tre abitazioni usate dalle truppe tedesche. Dopo l’azione, però, i tre si separarono e la giovane rimase sola; riuscì comunque a dare fuoco a tre case, dove i soldati nazisti stavano trascorrendo la notte, e distrusse alcuni mezzi di trasporto degli invasori. Passato qualche giorno, nel tentativo di incendiare una rimessa, fu arrestata su segnalazione del proprietario. Interrogata, si presentò con un falso nome: Tanja (diventato il suo nome di battaglia) e non fornì alcuna informazione ai tedeschi. Per il suo silenzio subì torture di ogni genere: percossa con cinture di cuoio, denudata e costretta a camminare per ore scalza nella neve. La mattina seguente fu impiccata pubblicamente, esibendo al collo un cartello con la scritta “incendiaria”. Una testimone dirà in seguito che, sul patibolo, Zoja rivolse parole di incitamento alla popolazione locale, invitandola alla resistenza e affermando che la sua morte non sarebbe stata vana: «È una gioia morire per il proprio popolo», ma anche: «Mi impiccate adesso, ma non sono sola. Ci sono duecento milioni di noi. Non potete impiccarci tutti. Mi vendicheranno». Queste frasi diventarono centrali nella successiva costruzione della figura mitizzata di Zoja. Il suo corpo senza vita rimase esposto per oltre un mese, durante il quale subì molte mutilazioni postume e ulteriori profanazioni da parte dei soldati tedeschi. Muore così Zoja Kosmodem’janskaja, a soli 18 anni.

A fine gennaio 1942, con il ritrovamento del suo corpo senza vita da parte dei soldati del 332° reggimento che avevano riconquistato il villaggio, il quotidiano Pravda, organo ufficiale del Partito Comunista, pubblicò un articolo senza firma intitolato Tanja. La storia raccontava la cattura, la tortura e l’impiccagione di una giovane partigiana sovietica, che si sarebbe rifiutata di rivelare il proprio nome ai nazisti, offrendone uno fittizio. Il testo descriveva con enfasi il suo coraggio incrollabile, le sue ultime parole e il disprezzo verso i carnefici tedeschi. Insieme al racconto, cominciò a circolare anche una fotografia che ritraeva il cadavere di Zoja martirizzato, con il seno sinistro reciso. Lo scatto era freddo e diretto e divenne immediatamente il sigillo iconografico del mito: una immagine che condensava dolore, martirio, purezza ideologica, legittimazione morale della vendetta sovietica e lotta al nazismo. Quando fu rivelata la vera identità della ragazza, il suo volto apparve ovunque, su manifesti, libri scolastici, articoli, francobolli, statue. La sua storia divenne talmente emblematica che Zoja fu la prima donna a ricevere il titolo postumo di Eroe dell’Unione Sovietica durante la guerra. Ebbe anche l’Ordine di Lenin.

La partigiana appena diciottenne che aveva sacrificato la sua vita per gli ideali nazionali e per difendere la patria diventò l’archetipo della gioventù eroica sovietica. La propaganda eliminò qualsiasi elemento che non rispettava la rappresentazione pura di Zoja: la malattia nervosa, l’improvvisazione operativa, la solitudine e lo scarso equipaggiamento sul campo. Venne volutamente oscurato il fatto che il reclutamento di volontari/e giovanissimi/e da parte del Komsomol, con un addestramento sommario e armamenti minimi, facesse parte di una precisa strategia militare e psicologica: nella remota eventualità di una caduta, Mosca doveva dimostrare che il popolo sovietico era disposto a tutto, anche a morire. Per coloro che erano cresciuti nell’ideologia del martirio patriottico, perire in nome della collettività era la massima aspirazione, ma dietro questa devozione si nascondeva un calcolo politico. Il sacrificio di pochi/e era funzionale a mobilitare milioni. Il valore propagandistico della morte in tale contesto valeva più della vita. Ma il mito nascondeva tutti questi aspetti e chiedeva, invece, coerenza e pulizia morale. Nella capitale e in molte città furono erette statue e memoriali in onore di Zoja Kosmodem’janskaja, trasformata in una santa laica della lotta antinazista. Nel villaggio di Petriščevo, dove fu catturata e impiccata, sorge oggi il Museo Zoja, che intende mantenere vivo il suo ricordo attraverso un linguaggio architettonico contemporaneo. Inoltre, a soli tre anni dalla sua morte, nel 1944, fu realizzato il film Zoja (regia di Lev Arnshtam), che contribuì a rafforzare l’iconografia della martire coraggiosa e incrollabile di fronte al nemico.
La figura di Zoja è l’esempio di come, nonostante la potenza evocativa delle narrazioni ufficiali, sussista un ampio meccanismo di rappresentazione, che spesso ignora o coscientemente nasconde la complessità delle esperienze individuali, in nome di un ideale collettivo.
In copertina: fotografia scattata da uno dei boia il giorno dell’esecuzione di Zoja Kosmodem’janskaja.
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Articolo di Alice Lippolis

Sono laureata in Lettere Moderne presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi dal titolo Nomi di mestiere: Sessismo Linguistico tra Sincronia e Diacronia. Attualmente sto frequentando il corso di laurea magistrale di Editoria e Scrittura presso la medesima università. Amo viaggiare, tanto quanto amo leggere sotto l’ombrellone in spiaggia (ma anche un po’ dove capita).
