«Fotografare è mettere la testa, l’occhio e il cuore sullo stesso piano».
(H. Cartier-Bresson)
Ogni anno, tra la fine di settembre e la fine di ottobre, si svolge a Lodi un’importante rassegna di fotografia etica itinerante, poi organizzata anche in altre città, sotto la direzione di Alberto Prina. Si è appena aperta la XVI edizione che vede giungere visitatori non solo da Lodi, ma anche da tutta l’Italia e da tutta l’Europa. Inoltre, farà seguito, dal mese di novembre, anche un corso di fotografia che avrà come obiettivi l’acquisizione della tecnica operativa di base e la formazione all’analisi delle immagini. Qui tutte le informazioni sull’evento, da cui inoltre sono state tratte le fotografie di seguito.
Io ho visitato con mia figlia parte della mostra nel primo weekend di apertura. Le varie esposizioni sono dislocate in diversi luoghi della città, sia vicino al centro che in punti più periferici. Avendo a disposizione solo le ore pomeridiane, siamo entrate negli edifici del centro; primo dei quali è stato palazzo Barni di stile barocco, dove le sale affrescate ospitano sei esposizioni. Nella prima sala siamo subito state accolte dalle foto sulla drammatica situazione di Gaza, con immagini della devastazione attuale, che ben conosciamo grazie alle testimonianze dei fotogiornalisti palestinesi. Qui è collocata l’immagine simbolo di quest’anno, scelta perché rappresenta con forza e chiarezza un dolore che non può più essere ignorato. È un’immagine dura, di Loay Ayyoub, fotografo freelance palestinese di Gaza, che documenta vite spezzate, distruzione e comunità lacerate. Questo è il primo anno che viene mostrato il dolore in modo così diretto, ma, come dice il direttore della mostra, «era immagine necessaria».
In una seconda sala si passa a contesti meno noti: un pannello al centro fornisce la descrizione del luogo e la biografia del fotografo o fotografa e ogni scatto esposto è corredato solo da una didascalia. Questa scelta ci consente di concentrare lo sguardo unicamente sull’immagine affinché sia questa a parlare. Qui il fotografo colombiano Federico Ríos documenta la grande migrazione, paragonata al purgatorio, attraverso il Darién Gap, nel Messico. Le sue fotografie sulle fatiche e sofferenze dei migranti sono state esposte a livello internazionale.

Siamo quindi entrate nella sala dove vi è la toccante mostra Women’s Bodies As Battlefields, progetto che affronta la condizione delle donne eritree e tigrine, scappate attraverso Eritrea, Etiopia e Sudan. Inizialmente focalizzato sulle donne eritree che fuggivano da uno dei peggiori regimi dittatoriali del mondo, il progetto si è poi esteso includendo anche le donne coinvolte nella guerra nella regione del Tigray. Durante il conflitto, le Forze di difesa eritrea utilizzavano la violenza sessuale come arma di guerra prendendo di mira le donne eritree per punirle e quelle tigrine per sterminarle. A prescindere dalla nazionalità a cui appartenevano, i loro corpi diventavano campi di battaglia.

L’autrice delle foto che ha ricevuto tanti riconoscimenti internazionali è Cinzia Canneri, laureata in Psicologia, che pur mostrando le ferite di queste donne ne ha saputo rispettare la dignità. Nel recarci al palazzo successivo, incrociamo, lungo corso Roma, un’esposizione di immagini proiettate in un cortile interno. Le immagini accompagnate da didascalie e da un sottofondo musicale, mostrano singole foto non collegate tra di loro. Tra queste mi ha particolarmente colpita una foto di Jan Banning, che ritrae una donna anziana dal viso pieno di rughe, con un copricapo di lana.

Aveva la stessa età di mia madre, classe 1925: dalla descrizione si scopre che durante la seconda guerra mondiale era stata sfruttata come operaia e schiava sessuale dai giapponesi. Ho provato immensa pietà e desiderio di abbracciarla, oltre a un totale disprezzo per i suoi sfruttatori.
Spostandoci in via XX Settembre abbiamo raggiunto palazzo Modignani, anch’esso in stile barocco, che ospita a piano terra una sezione della mostra, Le vite degli altri. Qui si trova l’opera fotografica di David J. Shaw, Caeadda: un viaggio tra la comunità degli agricoltori delle terre alte nella valle di Dyfi, in Galles. Racconta le tradizioni, l’identità e il valore della famiglia in contrapposizione alla modernità che minaccia il loro stile di vita. Si narra la vicenda della famiglia Pughe, la cui figlia coltiva il sogno di fondare una propria azienda agricola in futuro.

Per gli agricoltori e le agricoltrici e il loro bestiame, la vita in campagna si tramanda di generazione in generazione e l’agricoltura rappresenta una parte fondamentale della loro identità. È stato molto d’impatto l’uso del bianco e nero in tutte le sue foto, risultando più suggestive.
La sezione che ci ha commosso maggiormente è stata quella dal titolo Viaggio fotografico nel mondo della paternità. La fotogiornalista brasiliana Adriana Zehbrauskas ha intrapreso un viaggio con l’Unicef, visitando cinque paesi diversi — Guinea-Bissau, Messico, Thailandia, Turkmenistan e Regno Unito — per documentare i primi momenti di vita dei neonati/e nelle sale parto, insieme ai loro padri. L’obiettivo di questo progetto è ispirare proprio i padri di tutto il mondo a partecipare attivamente alla vita dei propri figli e figlie, creando un ambiente stimolante e affettuoso che favorisca lo sviluppo ottimale del cervello dei piccoli/e. I progressi delle neuroscienze hanno rivelato che i primi mille giorni di vita di un bambino e di una bambina sono fondamentali per il corretto sviluppo cerebrale. Le ricerche dimostrano che i padri, che creano un legame con i propri figli e figlie sin dai primissimi momenti, sono più propensi a partecipare attivamente al loro sviluppo successivo. Questo coinvolgimento contribuisce, a lungo termine, a un migliore benessere psicologico, a una maggiore autostima e a una più alta soddisfazione nella vita.
Abbiamo tempo per un’ultima mostra, nella chiesa del Carmine in via Gorini, costruita nel Cinquecento e rimaneggiata con vari stili nei secoli successivi, ora aperta in occasione della mostra. La struttura ospita l’opera fotografica di Giles Clarke, che ha trascorso due mesi documentando il conflitto sul campo in Sudan, un Paese sotto assedio. Le foto testimoniano la guerra civile, esplosa per le strade di Khartoum, nell’aprile 2023, a causa della quale la città è stata completamente devastata, con decine di migliaia di morti e un centro città quasi del tutto svuotato della sua popolazione.

Rimane solo qualche giovane medica a prestare soccorso, soprattutto alle donne e ai loro bambini. Tuttora la guerra continua a infuriare nelle regioni occidentali del Paese, senza alcun segnale di rallentamento.
Questo progetto è inedito, per la prima volta esposto a Lodi proprio al Festival della Fotografia Etica. Poco si parla di questo conflitto e queste immagini offrono uno sguardo ravvicinato su una popolazione e un Paese segnati profondamente dalle conseguenze di questa brutale e incessante tragedia.
Molti altri sono i luoghi in cui la mostra si realizza, dando senza dubbio un prezioso contributo culturale, ma soprattutto… etico, di cui si ha veramente bisogno per la costruzione di una più consapevole cittadinanza attiva.
In copertina: immagine simbolo del Festival 2025, scatto di Loay Ayyoub.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.
