«Quindicimila dispersi, diecimila prigionieri, quattromila morti, decine di migliaia di esuli sono le cifre reali di questo terrore. Dopo aver riempito le carceri ordinarie, avete creato nelle principali circoscrizioni militari del Paese luoghi che si possono definire campi di concentramento dove non può entrare nessun giudice, avvocato, giornalista, osservatore internazionale. Il segreto militare sulle procedure, invocato come necessario per le indagini, trasforma la maggior parte delle detenzioni in sequestri che consentono la tortura senza limiti e la fucilazione senza processo». Queste sono le parole con cui l’argentino Rodolfo Walsh, scrittore e giornalista investigativo, denunciò il Proceso de reorganización nacional, nonché l’oppressione e il terrorismo di Stato di cui fu vittima l’Argentina. In entrambi i casi, però, si tratta di pratiche che iniziarono ben prima del Golpe militare del 24 marzo 1976, promosso dal generale Jorge Rafael Videla. Infatti, con la morte, avvenuta due anni prima, del presidente Juán Domingo Perón e l’incarico a sua moglie María Estela Martínez — condizionata dal ministro José López Rega che era a capo della Tripla A (Alleanza anticomunista argentina) — si giunse molto più rapidamente all’intervento delle Forze armate e all’affermazione della dittatura. L’allora Giunta militare, composta dal generale sopramenzionato, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il brigadiere Orlando Ramón Agosti, destituì il Peronismo, abolì lo Stato di diritto e si autoaffermò come massima autorità.
La repressione argentina durò sette anni (1976-1983) e fu la più dura di tutte quelle americane, un’azione violenta radicata «nella quotidianità della società», per citare la politologa, sopravvissuta alle persecuzioni, Pilar Calvero.
I campi di concentramento e sterminio, insieme al sistema della desaparición, divennero le modalità di repressione e controllo ideate e gestite dal regime militare. Torture, sparizioni forzate e rapimenti erano alla base di questa politica del terrore.
Stando ai dati, ci furono più di 6.000 prigioniere/i politici, 15 sequestri al giorno, una bomba ogni 3 ore e un omicidio politico ogni 5. Furono, inoltre, organizzati 814 campi di detenzione clandestini e altri luoghi di reclusione illegale, all’interno dei quali passarono tra le 15.000 e le 20.000 persone (delle quali il 90% venne assassinato) e nacquero oltre 500 infanti. I/le neonati/e, che erano l’unico motivo per il quale le madri erano mantenute in vita fino a quel momento, venivano sottratti/e — subito dopo la nascita — ai loro genitori per essere venduti/e o affidati/e a famiglie di militari oppure vicine al regime. Tale fenomeno, chiamato robo de niños (in italiano “furto dei bambini”), fu sistematicamente messo in atto alla Esma e nei vari centri di detenzione. L’intenzione dei carnefici era, infatti, quella di fare in modo che figlie e figli, una volta divenuti adulti, non sapessero mai la loro identità, né tantomeno quella dei loro parenti. A tal riguardo, riportiamo la testimonianza di Sara Solarz de Osatinsky, sequestrata dal 14 maggio del 1977 fino al 19 dicembre 1978: «Che cosa succedeva davvero alla madre e al figlio? Da quando la ragazza incinta arrivava, il suo destino era segnato. Quello di entrambi. Per la madre il trasferimento, per il figlio il dubbio».
È solo grazie alle Abuelas de Plaza de Mayo se una parte di bambine e bambini, una volta cresciuti, sono giunti a conoscenza delle loro origini. Ma chi sono queste donne? Le Abuelas, o semplicemente “Nonne”, sono le madri dei desaparecidos e quindi le nonne di nipoti rubati. Alicia “Licha” Zubasnabar de la Cuadra, Raquel Radío de Marizcurrena, Haydée Vallino de Lemos, Delia Giovanola, Clara Jurado, María Isabel “Chicha” Chorobik de Mariani, Mirta Acuña de Baravalle, Vilma Saserego de Gutiérrez, Eva Márquez de Castillo Barrios, Leontina Puebla de Pérez, María Eugenia Casinelli de García Irureta Goyena e Beatriz Aicardi de Neuhaus furono le fondatrici. Chiamate in un primo momento “Nonne Argentine con Nipoti scomparsi”, successivamente adottarono il nome, dato loro dai mass media, con cui oggi le conosciamo.

Esse si incontrarono, per la prima volta, il 30 aprile 1977 in Plaza de Mayo e, da quel momento, non hanno mai smesso di portare avanti la loro resistenza pacifica affinché venga fatta giustizia e ottenuta la verità. Interessante spunto di riflessione è sicuramente la pavimentazione della stessa piazza, la quale raffigura un cerchio di volti con dei fazzoletti bianchi sulla testa: una metafora della protesta a cui queste eroine diedero inizio tenendosi sotto braccio, con sul capo i vecchi pannolini in tela dei propri figli e figlie. Sempre loro, assieme alla comunità scientifica, hanno dato origine alla prima Banca nazionale di dati genetici, ovvero il Grandparent index, con l’obiettivo di identificare le/i nipoti. In mancanza del Dna delle figure genitoriali, le Nonne e i contributi della scienza arrivarono all’indice de abuelidad (nonnità) che garantiva il 99,99% di accuratezza. Questo metodo venne usato per la prima volta nel 1984 e, a seguito dell’impatto che ebbe sul sistema giudiziario, fu adottato — a tutti gli effetti — come prova. Le Abuelas hanno, inoltre, collaborato con studiose/i in archeologia e antropologia per localizzare e analizzare i resti fossili delle persone scomparse; da qui, la formazione dell’Equipe Argentina di Antropologia Forense, un’organizzazione che contribuisce all’identificazione mediante riesumazione e analisi dei resti scheletrici dei desaparecidos. L’impegno delle Nonne, però, non termina qui: esse rafforzarono legami anche con giornaliste/i, insegnanti, avvocate/i, atlete/i e artiste/i che operarono per renderle note grazie alle loro conoscenze. Cercarono di fare comprendere alla società, attraverso campagne di comunicazione di massa, quanto fosse grave il reato di sottrazione di minori e la differenza che sussisteva tra quest’ultimo e una reale adozione. Tra i vari atti rivoluzionari, oltre a presentare denunce per la condanna degli individui responsabili di tali atrocità, queste donne hanno promosso la elaborazione di un nuovo diritto, quello all’identità, ossia il processo vitale che dipende dal corso della nostra esistenza: acquisizione di caratteristiche biologiche, di un nome, di una lingua, di una cultura e di gruppi di appartenenza.
Le Abuelas, infine, come hanno più volte sottolineato, «continueranno a trasmettere la memoria collettiva per costruire l’eredità della lotta e garantire che questa terribile violazione dei diritti umani non si ripeta mai più». Aggiungono, inoltre, che l’indagine «continua e coinvolge già la generazione dei nostri pronipoti che […] vivono senza conoscere le proprie origini familiari. Ma è anche debito nei confronti della nostra democrazia, perché finché non verrà ritrovato l’ultimo nipote sottratto durante la dittatura, lo Stato continuerà a commettere questo crimine e l’identità di un’intera generazione sarà messa in dubbio». Esattamente a luglio di quest’anno è stato ritrovato il “nipote numero 140”: il suo nome non è stato reso noto, ma siamo a conoscenza della sua età — 48 anni — e che risiede a Buenos Aires. È figlio di una coppia di marxisti, Graciela Alicia Romero e Raùl Eugenio Metz, rapiti nel 1976. Secondo quanto riferito da testimonianze, aveva una sorella maggiore, Adriana, che fu accolta dai vicini e poi dai nonni.

Tra le attiviste ne spicca una, Estela Barnes de Carlotto (22/10/1930, Buenos Aires), ex insegnante delle scuole elementari, moglie dell’italiano Guido Carlotto emigrato in Argentina e mamma di due femmine, Laura e Claudia Susanna, e due maschi, Guido Miguel e Remo. Mai interessatasi alla politica, iniziò a preoccuparsene a seguito del Golpe e del rapimento del marito e di una parte della sua prole. Precisamente, Guido venne sequestrato il 1° agosto 1977 e rilasciato con riscatto la notte del 25 dello stesso mese. Nel frattempo, sua figlia Claudia partorì la prima nipote di Estela, Letizia, dopodichè con suo marito Jorge si rifugiò in Paraguay e poi in Spagna. Guido Miguel, d’altra parte, aveva deciso di autoesiliarsi in Brasile, ma dopo il ricatto economico delle patotas (le squadre non ufficiali di paramilitari) fu costretto a raggiungere la sorella in Europa. Il fratello minore, Remo, venne più volte minacciato dai militari, fino a quando l’esercito lo prese e lo caricò su un Hercules (gli aerei utilizzati per i voli della morte) diretto in Patagonia. Gli dissero che era giunta l’ora, per lui, di servire la patria, ma, grazie all’intervento di Estela, gli riservarono un “trattamento di favore” e lo rilasciarono, consigliandogli di sposarsi per ottenere il congedo immediato.
Laura, infine, venne rapita il 16 novembre 1977; al tempo era al sesto mese di gravidanza. Riteneva che la nascita fosse prevista a luglio e affermava che, se nato maschio, il bambino si sarebbe chiamato Guido. Il 25 agosto un poliziotto notificò ai coniugi Carlotto che Laura era stata uccisa. «A Laurita mancava metà della faccia, spazzata via da un colpo di fucile a pallettoni. Un’altra scarica le aveva devastato il ventre, certo per nascondere le tracce della recente maternità» riferì sua madre, la quale, quattro anni dopo la sua scomparsa, si recò in Brasile con una delegazione di Nonne per far conoscere al Papa la storia dei desaparecidos e del robo de niños.

Nel 1979 Claudia, assieme al marito e alle due figlie, ritornò in Argentina per continuare la resistenza. Caduta la giunta militare, rientrarono anche Guido Miguel e sua moglie. La famiglia Carlotto era finalmente riunita, ma le difficoltà economiche non erano poche, in quanto la dittatura aveva messo in ginocchio il Paese e la sua popolazione.
Dopo 36 anni di ricerche, Estela si è ricongiunta a suo nipote Guido, ritrovato solo nel 2014 e sotto il nome di Ignacio Hurban.


A tal proposito non si può non menzionare il capolavoro firmato dal regista italiano Marco Bechis, già autore di Garage Olimpo (1999); si tratta di Figli-Hijos (2002) riguardante l’inganno dell’adozione e il furto di identità dei bambini e delle bambine dell’Argentina. Rosa, figlia di desaparecidos, si reca a Milano per incontrare Javier, ovvero colui che potrebbe essere suo fratello gemello, separatole alla nascita. Il film verte, dunque, sull’incessante caccia all’autenticità circa le loro origini familiari mediante un viaggio a Barcellona per rintracciare l’ostetrica che li avrebbe fatti nascere; qui i due decidono di fare il test del Dna da cui emerge che non sono fratelli. Il film si conclude con un corteo lungo le strade di Buenos Aires, a cui parteciperanno entrambi, per protestare contro il fatto che un generale della dittatura sia stato rimesso in libertà. Questo ci riporta alla faticosa attività della giustizia argentina e alle sue carenze nel rintracciare e punire i militari colpevoli dell’orribile furto di esseri umani, operazione ripresa con maggior vigore solo dal 2003.
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Articolo di Ludovica Pinna

Classe 1994. Laureata in Lettere Moderne e in Informazione, editoria, giornalismo presso L’Università Roma Tre. Nutre e coltiva un forte interesse verso varie tematiche sociali, soprattutto quelle relative agli studi di genere. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura e l’arte in ogni sua forma. Ama anche viaggiare, in quanto fonte di crescita e apertura mentale.
