Le macchine ruberanno il lavoro o ci libereranno dalle catene della ripetitività? Questa domanda, quanto mai attuale vista l’ascesa dell’intelligenza artificiale, è in realtà più vecchia di quanto sembri: nel 1779 un giovane operaio inglese di nome Ned Ludd distrusse un telaio meccanico, visto da lui come causa del lavoro precario e della disoccupazione che affliggeva la sua terra. Da lui prende nome il “luddismo”, un movimento di protesta contro i macchinari industriali che “rubano” il lavoro degli operai e delle operaie, mantenendo gli stipendi bassi e uno stato di continua minaccia di licenziamento qualora si tenti di ribellarsi contro i soprusi del padrone. I principi del luddismo tornano a galla ogni volta che una rivoluzione tecnologica minaccia di obsolescenza alcuni settori lavorativi: si veda quando a inizio Novecento l’elettricità fece scomparire il mestiere del lampionaio, o quando l’avvento delle automobili ridusse significativamente la domanda di stallieri per la cura dei cavalli. In questo senso l’intelligenza artificiale pone delle sfide non da poco: basta fare un veloce giro sui social media per vedere quanto entusiasmo la nuova tecnologia crei, e di come si parli dei lavori che verranno resi da essa superati ― o quantomeno semplificati al punto da richiedere meno personale ― senza nascondere un certo compiacimento di fronte al dramma di milioni potenziali disoccupati/e che non avranno modo di rientrare nel mercato. Ecco allora che si sviluppa una controcorrente che molto somiglia al luddismo, condividendo con esso le preoccupazioni per un futuro incerto, e che non vede positivamente le nuove opportunità che l’Ia è in grado di offrire.
Cerchiamo, dati alla mano, di fare un po’ di chiarezza in questo dibattito quanto mai attuale. Le professioni più esposte all’automazione sono quelle basate su attività ripetitive e standardizzabili. Secondo il Future of Jobs Report 2023 del World Economic Forum entro il 2027 il 23% dei lavori subirà un forte cambiamento, con 69 milioni di nuovi posti di lavoro creati e 83 milioni di essi che verranno superati ed eliminati. Un processo che è già in atto: nella produzione industriale algoritmi e robot sostituiscono catene di montaggio e sistemi logistici, riducendo i tempi e abbattendo i costi; nel settore dei servizi chatbot e assistenti virtuali gestiscono ormai le richieste della clientela 24 ore su 24, rendendo obsoleti molti call center tradizionali. Ma non solo il mondo del secondo settore è stato interessato: anche ambiti più creativi, un tempo ritenuti al sicuro, stanno cambiando pelle. Il giornalismo si confronta con software capaci di scrivere articoli brevi in tempo reale; sistemi di traduzione automatica sempre più sofisticati mettono a rischio il ruolo di traduttori e traduttrici; designer e pubblicitari/e devono fare i conti con immagini e slogan generati dall’Ia. Non si tratta di scomparsa immediata di queste professioni, ma di una trasformazione che richiede un adattamento più rapido di quanto molte persone siano in grado di affrontare. Secondo il McKinsey Global Institute 94 milioni di lavoratori e lavoratrici necessiteranno di essere formati/e in vista della crescente automatizzazione, elemento che non esenterà comunque dal poter potenzialmente perdere la propria occupazione.
Accanto ai ruoli che scompaiono, altri nascono. Uno dei più discussi e controversi è quello del prompt engineer, specialista nella formulazione di comandi ottimizzati per ottenere il massimo da sistemi come ChatGPT e ClaudeAI. Cresce anche la richiesta di esperti ed esperte in etica e regolamentazione dell’Ia, capaci di valutare rischi e responsabilità legali, assieme a figure tecniche come le/i data scientist, persone in grado di analizzare grandi quantità di dati ed estrarne conoscenza multidisciplinare, e sviluppatori/sviluppatrici. Appare ormai chiaro che la differenza la fanno le competenze ibride: non bastano più nozioni tecniche o culturali isolate, bisogna saper unire capacità analitiche alla creatività. I benefici economici, a prescindere dal potenzialmente drammatico lato umano, sono evidenti: il PwC Global AI Jobs Barometer 2025 rileva che chi lavora con competenze legate all’Ia guadagna fino al 56% in più rispetto alla media, mentre le industrie più esposte all’Ia mostrano una crescita della produttività fino a 4 volte superiore rispetto ad altri settori. Non è più sufficiente saper svolgere un compito: bisogna saperlo interpretare e guidare. Le cosiddette hard skills digitali — dal machine learning alla data analysis — diventano cruciali, ma altrettanto lo sono le soft skills come creatività, pensiero critico, empatia e capacità di collaborazione. Il Future of Jobs Report 2025 segnala che quasi il 59% della forza lavoro mondiale dovrà sviluppare nuove competenze, e che il 39% delle abilità oggi richieste diventerà obsoleto entro il 2030. La trasformazione non colpisce tutti e tutte allo stesso modo: se alcune aziende investono in formazione e reskilling, molte altre scelgono la strada opposta. Un’indagine recente rivela che fino al 41% dei datori di lavoro nel mondo intende ridurre il personale grazie all’automazione e all’Ia, anche se perlomeno fino ad adesso questo non sembra essersi tradotto in un risultato concreto. Sul fronte politico si moltiplicano i dibattiti su strumenti come il reddito di base universale, pensato per mitigare l’impatto sociale delle transizioni tecnologiche. Nel frattempo, l’alfabetizzazione digitale diventa un’urgenza: preparare le nuove generazioni a comprendere limiti e implicazioni dell’uso dell’Ia è fondamentale, specie di fronte a Ia sempre più sofisticate che potrebbero influenzare il modo con cui l’individuo considera la realtà.
I segnali concreti di tutto questo si vedono già. Uno studio pubblicato dal Washington Post — che ha di recente lanciato una propria Ia con l’obiettivo di accompagnare l’utente nel processo di scrittura di articoli — mostra che, dal lancio di ChatGPT nel 2022, l’occupazione di giovani tra i 22 e i 25 anni nei settori più esposti all’Ia è calata del 13%, mentre lavoratrici e lavoratori più anziani in settori meno esposti hanno registrato una crescita.
La rivoluzione tecnologica non è più un futuro lontano e ipotetico: è il presente. Le aziende che hanno saputo integrare sistemi di intelligenza artificiale riportano aumenti di produttività e ricavi per dipendente fino a 3 volte maggiori rispetto alla concorrenza meno digitalizzata, risultati che stanno convincendo anche chi è più scettico ad affidarsi a questo mezzo. Allo stesso tempo, tuttavia, resta vivo il timore che il lavoro umano venga svalutato, per non parlare delle persone, che saranno nel numero di milioni, che perderanno il lavoro e non riusciranno a trovarne uno nuovo.
Si torni quindi alla domanda iniziale: le macchine ruberanno il lavoro o ci libereranno dalle catene della ripetitività? La risposta più verosimile è nel mezzo: l’Ia non cancellerà il lavoro, ma lo trasformerà in modi che fino a ora abbiamo potuto solo immaginare. Ci sarà chi vincerà e chi vedrà vincere, e la differenza la farà la capacità — individuale e collettiva — di adattarsi alla nuova realtà. La domanda, allora, non è più se l’Ia ci ruberà il lavoro: siamo davvero pronti e pronte a lavorare con essa per un futuro migliore per l’umanità, o sarà solo una scusa per creare il lavoratore e la lavoratrice perfetti, che faranno solo i loro compiti e che non protesteranno mai di fronte a ingiustizie e soprusi?
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
