La moda, da sempre espressione creativa e culturale, è stata la protagonista assoluta del mese di settembre. Si sono da poco concluse le giornate dedicate alla Fashion Week (settimana della moda), l’evento annuale che, dal 1943, fa sognare appassionate e appassionati di tutto il mondo. La prima edizione si tenne a New York con l’obiettivo di promuovere la moda americana in un periodo in cui la Seconda guerra mondiale rendeva difficoltosa l’importazione dei capi europei. L’iniziativa fu presto adottata anche dalle altre capitali della moda: Parigi organizzò la sua prima settimana alla fine degli anni Quaranta, seguita da Londra. In Italia, l’evento si svolse per la prima volta a Firenze negli anni Cinquanta per poi trasferirsi stabilmente a Milano, divenuta oggi il cuore della moda italiana e una delle capitali globali insieme a New York, Parigi e Londra. Negli anni Duemila la manifestazione si è tenuta anche in altre città del mondo, spesso con un’attenzione particolare a settori specifici. Per esempio, a Miami si tiene la Swim Week (settimana della moda mare), dedicata ai costumi da bagno; a Parigi si svolge la Haute Couture Week (settimana dell’alta moda); a New York esiste una settimana interamente dedicata agli abiti da sposa, mentre a Copenhagen il tema centrale riguarda la sostenibilità ambientale. Altrove, come a Tokyo, viene valorizzata la moda giovanile e lo streetwear (stile urbano), mentre a Berlino si promuovono la moda ecologica e i designer indipendenti.

Il viaggio della moda italiana moderna comincia nel 1951, nella Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze. Qui l’imprenditore Giovanni Battista Giorgini organizzò le prime sfilate di alta moda, invitando acquirenti professionali e giornalisti stranieri a scoprire l’eccellenza del Made in Italy. Firenze fu scelta per la sua tradizione tessile e artigianale, ma anche per il fascino storico delle sue sale, dove lampadari di cristallo e stucchi secolari facevano da cornice a modelle che sfilavano tra le colonne. La Sala Bianca, originariamente destinata a ricevimenti e banchetti reali, divenne improvvisamente palcoscenico globale dell’eleganza italiana. Quel primo evento segnò l’inizio del successo del Made in Italy sulla scena internazionale, tra applausi e fotografie d’epoca che ritraggono le indossatrici accanto a quadri rinascimentali. Con il crescere del pubblico e delle esigenze logistiche, le sfilate si spostarono a Milano nel 1975, città industriale e commerciale che offriva spazi più ampi e infrastrutture moderne. Milano consolidò così il suo ruolo di capitale della moda italiana negli anni Ottanta grazie a stilisti come Giorgio Armani, Gianni Versace, Dolce & Gabbana, Valentino, Moschino, Missoni, Ferrè, Trussardi, Mila Schön, Krizia e Prada.
Le Fashion Week hanno sempre cercato di raccontare molto più di semplici collezioni: ogni città ha sviluppato un proprio linguaggio, legando l’abbigliamento alla cultura, al cinema, alla musica e all’arte contemporanea.
Per esempio, Karl Lagerfeld spesso intitolava le sue collezioni facendo riferimenti ad artiste/i del nostro tempo. A New York, invece, alcuni stilisti hanno inserito nelle sfilate proiezioni di cortometraggi e performance musicali dal vivo. Oggi i social media amplificano questa narrazione, permettendo ai marchi di moda di creare connessioni globali immediate con il pubblico. Piattaforme come Instagram e TikTok sono diventate veri e propri palcoscenici digitali dove le collezioni prendono vita in tempo reale.
Le sfilate hanno sempre seguito e raccontato l’evoluzione della società e della figura della donna. Negli anni Cinquanta e Sessanta le collezioni riflettevano un ideale di eleganza e discrezione, evidente negli abiti di Christian Dior o di Hubert de Givenchy, amato da icone come Audrey Hepburn. Negli anni Settanta e Ottanta, con l’ingresso sempre più significativo delle donne nel mondo del lavoro, giacche strutturate e pantaloni eleganti divennero simboli di autonomia e potere. Giorgio Armani lanciò il celebre power suit, che permetteva alle donne di muoversi con sicurezza negli uffici e sui mezzi di trasporto. Yves Saint Laurent propose il famoso Le Smoking, il completo maschile reinterpretato al femminile, che sfidava le convenzioni e diventava un vero manifesto di emancipazione. Abiti che non erano solo capi da indossare, ma dichiarazioni d’indipendenza. Oggi la moda si muove verso una maggiore inclusività e rappresentazione della realtà: sempre più marchi scelgono modelle curvy, con disabilità o di diverse origini etniche, mostrando una bellezza più autentica e universale. Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci dal 2015 al 2022, è stato tra i primi a introdurre collezioni seasonless (senza stagione) e genderless (senza genere), segnando una svolta verso una moda più inclusiva e libera dai vincoli stagionali e di genere, una direzione che oggi viene seguita da molte/i altre/i designer internazionali.


La moda rappresenta la società e dunque anche il suo aspetto economico. Con l’avvento della globalizzazione le parole Made in Italy hanno assunto un significato più ampio. Nato negli anni Ottanta, questo termine indicava prodotti interamente progettati, fabbricati e confezionati in Italia. L’origine geografica è importante perché ogni luogo ha una propria identità culturale e una sua essenza che si riflettono nelle creazioni nate in quel posto. Oggi il “Made in Italy” non indica più soltanto la provenienza di un prodotto, quando viene realizzato o venduto in contesti internazionali: i valori che questa etichetta rappresenta restano immutati promettendo qualità e stile a un capo che, pur essendo globale, conserva intatti i tratti distintivi della tradizione italiana: qualità dei materiali, creatività, artigianalità e gusto estetico. Sono proprio tali elementi a rendere il Made in Italy un simbolo apprezzato in tutto il mondo.

La moda italiana continua così a essere un gioiello a livello internazionale, pur se molti marchi sono stati acquistati da gruppi stranieri; alcuni hanno però mantenuto la produzione in Italia come Gucci e Bottega Veneta (acquistata dallo stesso gruppo francese Kering), Fendi (acquistata da Lvmh, una società francese), Valentino (acquisita dal gruppo fondo sovrano del Qatar) e Versace (ora in mano al gruppo statunitense Capri Holdings). Altri marchi, invece, sono rimasti interamente italiani, spesso a conduzione familiare, custodendo autonomia creativa e produttiva: Giorgio Armani, Missoni, Salvatore Ferragamo, Prada, Miu Miu, Etro, Moncler, Lorenzo Seghezzi e Cavia. Questi brand rappresentano l’anima del Made in Italy: perfetta fusione tra tradizione artigianale, innovazione e sensibilità culturale che continua a distinguere l’Italia nel mondo. Tuttavia, va specificato che anche i brand che continuano a operare in Italia, sia quelli acquisiti da gruppi stranieri, sia quelli rimasti italiani, spesso delocalizzano la produzione di alcune collezioni o linee specifiche in Paesi esteri, come Cina, Turchia o dell’Europa dell’Est. Questo avviene principalmente per motivi economici. Un esempio concreto è la linea Versace Jeans Couture, una collezione del marchio Versace che viene parzialmente prodotta in Cina, pur mantenendo un’immagine italiana. La moda, quindi, non è mai stata solo abbigliamento ma bellezza, arte, comunicazione e innovazione. Un linguaggio che evolve con la società, raccontandola attraverso tessuti, tagli e visioni.
In copertina: la prima sfilata nella Sala Bianca del Palazzo Pitti a Firenze, 1952.
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Articolo di Fabiola Barbato

Docente di Lettere, laureata in Lettere e in Filologia classica e moderna. Crede nella forza gentile dei sentimenti e nel cuore come bussola etica e creativa. Fervente sostenitrice dell’idea che la parola sia uno spazio di libertà e che la sensibilità sia una forma di resistenza.
