Oltre a essere un’innovazione tecnologica forse paragonabile alla scoperta del fuoco e all’arrivo dell’internet, l’intelligenza artificiale è anche e soprattutto il nuovo campo di battaglia per la supremazia economica, politica e militare a livello globale. Non è azzardato paragonare quello che stiamo vedendo oggi nella corsa a chi riesce a creare l’Ia più raffinata a quella allo spazio nel secolo scorso: in questo clima da Seconda guerra fredda Stati Uniti, Cina ed Europa si sfidano non solo sul terreno della ricerca, ma anche quello della regolamentazione, dell’etica e, soprattutto, quello dei dati.
Gli Stati Uniti sono al momento ancora il cuore pulsante dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Secondo lo Standard AI Index Report aggiornato al 2025 nel 2023 le aziende americane hanno investito più di 100 miliardi di dollari nell’Ia, 12 volte in più del suo Paese rivale, la Cina — che sta comunque velocemente cercando di chiudere questo gap — e superando di gran lunga gli investimenti dei privati a livello globale. Aziende come OpenAi (ChatGpt), Google (Gemini), Microsoft (Copilot), Anthropic (CloudeAi), Meta (Llama) e Amazon (Titan) sono a capo di questa corsa che mescola potere economico e politico, grandi capitali alla volontà geopolitica di rimanere primi in un settore che potrebbe decidere le sorti del mondo. Come spesso accade nell’economia statunitense, però, non ci è voluto molto prima che l’innovazione e la libertà di sperimentazione si scontrassero con la tendenza a concentrare il potere in poche mani: sono già in molti e molte a parlare di “Ai oligopoly”, dove pochi colossi controllano non soltanto i modelli più avanzati ma anche le infrastrutture di calcolo e i dati necessari per il loro addestramento. Visto il ruolo che le Ia stanno velocemente ricoprendo nel nostro quotidiano e la sua importanza strategica, se le decisioni cruciali sul suo futuro non sono scelte dai governi ma nelle board aziendali, che ruolo rimane alle istituzioni pubbliche?
Il 30 ottobre 2023, come uno degli ultimi atti della sua presidenza, Joe Biden ha firmato l’Executive Ordel on the Safe, Secure, and Trustoworthy Development and the Use of Artificial Intelligence, un ordine esecutivo con cui vengono imposti trasparenza e controlli sui modelli di frontiera, in particolare quelli capaci di generare contenuti sintetici o di essere usati in ambiti militari. L’amministrazione Trump non sembra però porsi questo dilemma se esso può andare a contrastare il principio dell’America First: il 23 luglio 2025 la Casa Bianca ha infatti pubblicato Winning the Race – America’s AI Action Plan, un documento con cui si dichiara esplicitamente che l’Ia dovrà diventare «perno centrale dell’economia, della sicurezza nazionale, dell’efficientamento e del progresso tecnologico» andando a scapito della regolamentazione di aziende e servizi.
Dall’altro lato dell’oceano Pacifico, la Cina sembra prediligere il modello opposto, con una governance centralizzata e una pianificazione statale capillare. Anche in questo caso l’Ia è una priorità assoluta: l’obiettivo dichiarato è diventare leader mondiale del settore entro il 2030. Il governo finanzia direttamente startup a prescindere dal loro potenziale, università per poter “produrre” i cervelli necessari per vincere la corsa, e giganti come Baidu, Tencent, Huawei e Alibaba, i quali stanno ognuno sviluppando i propri Llm. Similmente agli Stati Uniti di Trump, la questione non è soltanto economica ma anche culturale e geopolitica: l’Ia viene vista come lo strumento che potrà garantire sovranità nazionale in materia di sicurezza, controllo interno e competitività a livello globale. Questo a scapito della privacy della cittadinanza, con una regolamentazione che impone una pesante censura preventiva su modelli generativi che posso diffondere contenuti non conformi alle linee imposte da Pechino.
Secondo il Mit Techonology Review il rischio più concreto di questa corsa all’Ia è che si creino due grossi ecosistemi paralleli, uno statunitense/occidentale e uno cinese, completamente incompatibili per standard, valori e interoperabilità. Una vera e propria “cortina algoritmica” che dividerebbe la rete globale e non porterebbe alcun beneficio all’umanità, al contrario di quanto auspicato.
In tutto questo, quale è la posizione dell’Europa? In un momento in cui l’alleato americano punta alla deregolamentazione per potersi portare avanti nella corsa, l’Unione europea si distingue proprio in questo campo grazie all’Ai Act, la prima legge al mondo che stabilisce un quadro giuridico completo per l’uso dell’intelligenza artificiale. Classificando i sistemi in base a un livello di rischio — minimo, limitato, alto o inaccettabile — la nuova legge impone obblighi severi per quelli utilizzati in campi ad alto rischio, come quello sanitario, giudiziario o lavorativo. L’ambizioso progetto giuridico, tuttavia, viene a discapito di un forte ritardo competitivo in tutti i Paesi dell’Ue, che si muovono ognuno per contro proprio e senza un piano di azione comune. In Italia nel 2024 il valore del mercato dell’Ia ha raggiunto i 1,2 miliardi di euro, una forte crescita rispetto all’anno precedente ma irrisoria se comparata ad altri colossi globali. È forse possibile, al contrario di Cina e Stati Uniti, mantenere un approccio etico senza perdere terreno nella corsa all’innovazione? Una domanda la cui risposta non è certa, specie se considerato che la vera sfida non risiede nella costruzione delle Ia, ma nel chi le controlla: negli Stati Uniti sono le grandi aziende private, in Cina il governo centrale; nell’Ue si è preferito salvaguardare i diritti al costo di un rallentamento nella corsa, che è comunque decentralizzata. Tre modelli diversi che corrispondono a tre visioni opposte del rapporto tra umanità e macchina e che secondo il Center for European Policy Studies (Ceps) sta già portando a una “Ai Cold War”, una competizione spietata in tutti i campi, dall’economia ai valori etici che guidano la politica e la cultura.
Che ruolo può avere la cooperazione internazionale tradizionale in questo scenario? Lo può avere un ruolo, o sarà inesorabilmente relegata a diventare una pratica obsoleta? Nel frattempo, le grandi potenze si muovono: dal 2023 si tengono annualmente gli Ai Safety Summit, conferenze internazionali che coinvolgono Stati Uniti, Cina, Ue e altri Paesi, nonché privati come Elon Musk, per discutere di sicurezza e regolamentazione dell’Ia. I risultati delle promesse fatte in questi incontri, tuttavia, tardano ad arrivare, mentre le tensioni salgono.
L’impressione che si ha è che l’umanità sia sempre meno al centro del discorso attorno alla tecnologia, proprio nel momento in cui la sfida imperativa sta diventando quella di non farsi governare da essa.
Per avere un’ulteriore prospettiva su quanto affrontato in questo articolo, ho posto all’esperta di geopolitica di Toponomastica femminile Sara Marsico alcune domande:
Prima impressione a caldo sui temi affrontati nell’articolo?
In questo articolo i temi più importanti relativi all’Ia sono affrontati con grande equilibrio e inseriti nel contesto della “rivoluzione mondiale” in atto verso un sistema non più a guida statunitense e occidentale, ma decisamente orientato in senso multipolare. In premessa devo dichiarare che non mi definisco esperta, ma apprendente di geopolitica. Recensisco la rivista Limes da molto tempo per Vitamine vaganti e frequento il corso Le chiavi del mondo della “non Accademia” Scuola di Limes cercando di interpretare la transizione egemonica che stiamo vivendo e di divulgarne alcuni aspetti con parole semplici.
Negli Stati Uniti la corsa all’innovazione la guidano i privati, in Cina lo Stato, in entrambi i casi sembra che sia la cittadinanza a rimetterci. Quale modello potrebbe risultare vincitore entro il 2030, anno in cui la Cina spera di superare gli Stati Uniti? E come si pone il modello più etico ma lento dell’Unione Europea?
La questione è complessa. Il modello europeo è molto lento anche se più rispettoso dei diritti delle persone, ma l’Unione europea in merito allo sviluppo dell’intelligenza artificiale non può competere con gli Usa e con la Cina, che restano i due veri competitor in questo campo. Alessandro Aresu, nel suo ultimo libro La Cina ha vinto, riporta una serie di dati su cui riflettere in merito a questa competizione, sottolineando che negli Usa i principali cervelli e i più brillanti talenti nel campo dell’Ia oggi sono asiatici e indiani. Non si sa se considerare questo fattore un punto di forza o di debolezza. Come geopolitica insegna, l’Ue (preferisco chiamarla così, perché il concetto di Europa è molto più esteso dell’organizzazione a cui apparteniamo) e l’Occidente dovrebbero non solo temere ma decifrare il pensiero strategico cinese — come suggerisce Aresu — le sue origini storiche, le sue logiche industriali, i suoi strumenti di influenza globale, le sue contraddizioni. La Cina non è soltanto l’“impero del controllo”. È un potere politico curioso del suo avversario e consapevole della propria forza. La Cina sta partecipando all’innovazione su scala globale. Per anni le compagnie cinesi si erano abituate a fare leva sulla tecnologia sviluppata altrove e a monetizzare tramite le applicazioni. Oggi lo scopo delle compagnie cinesi non è trarre profitti veloci ma avanzare nelle frontiere tecnologiche per porsi alla guida di un ecosistema di crescita». In America c’è un dibattito all’interno dell’Amministrazione Trump su come porsi nei confronti della Cina. Il Ceo e fondatore di Nvidia, (che ha raggiunto i 5 mila miliardi di capitalizzazione) Jensen Huang vorrebbe aprire ai rapporti con l’avversario per stimolare una sana competizione mentre il gruppo, detto dei Falchi, che ruota intorno a Peter Thiel di Palantir invece vorrebbe chiudersi e mettere vincoli e sanzioni alla Cina e alle sue imprese, senza capire che in questo modo, un po’ come è accaduto con Deep Seek, il competitor n.1 sarebbe spinto a innovare e a diventare sempre più autonomo nel campo dell’Ia. Non so se nel 2030 la Cina riuscirà a superare gli Usa, ma esistono buoni motivi per pensare di si, primo fra tutti il fatto che le imprese tecnologiche sottostanno allo Stato che le indirizza verso interessi collettivi. L’Ue, che ha cercato di normativizzare in senso etico la corsa all’Ia e che non è mai diventata un soggetto geopolitico, resterà sullo sfondo, anche perché rimane di fatto un organismo intergovernativo e non sovranazionale.
Da “cortina di ferro” a “cortina algoritmica” il passo è stato breve. Quanto è realistico che l’Ia diventi lo strumento principale dietro una nuova Guerra fredda?
Direi che quanto è avvenuto fin dall’inizio in Ucraina e anche a Gaza è stato un vero e proprio laboratorio delle applicazioni dell’Ia nei conflitti (peraltro già sperimentata altrove ma in questi due conflitti resa visibile ai popoli) e il mondo sembra confermare il rischio di una nuova Guerra fredda, questa volta tra Occidente e “Maggioranza globale”. L’Occidente crede ancora di poter dettare legge in questa sfida, senza accorgersi che i rapporti di forza sono cambiati. Le poche voci che spingono al dialogo e alla cooperazione restano purtroppo inascoltate.
Molte preoccupazioni sull’Ia riguardano il suo uso in campo militare, come si è già visto in Ucraina e in Palestina. L’Ia sarà un deterrente alla guerra come lo fu l’atomica, o sarà invece un incentivo?
Temo che diventi un incentivo. In questa fase storica i decisori sono lontani anni luce dai cittadini e dalle cittadine che dovrebbero rappresentare e i mercanti, cioè le attuali imprese di Ia, i nuovi predatori, come li definisce Giuliano da Empoli in un suo libro, spinti solo dal perseguimento del profitto, condizionano e in certi casi manovrano i poteri politici. Basti pensare alla forsennata politica di riarmo dell’Occidente in vista di guerre future, tutta basata sugli strumenti della guerra ibrida in cui l’Ia ha un ruolo determinante. Occorre tenere d’occhio le quotazioni di borsa delle principali aziende di Ia perché a breve potrebbe scoppiare una bolla finanziaria simile a quella delle dot.com, le aziende internet, del 2000.
Oggi il potere sull’Ia sembra distribuito tra governi, grandi aziende tecnologiche e organismi sovranazionali. Chi avrà davvero l’ultima parola sullo sviluppo e sull’uso dell’intelligenza artificiale nei prossimi dieci anni?
Non sono in grado di fare previsioni. Un dato però è certo: quasi tutti gli attori di questa rivoluzione tecnologica sono immigrati e rappresentano un bacino di talenti attratti soprattutto da Usa e Canada, mentre l’Europa ha smesso di essere il centro del mondo non solo su questo fronte ma anche su quello della costruzione e realizzazione dei componenti delle infrastrutture di calcolo, che si trova soprattutto in Asia orientale. In questa fase di transizione egemonica gli organismi sovranazionali in cui avevamo riposto tante speranze alla fine della Seconda guerra mondiale hanno una voce flebile e hanno perso autorevolezza, al pari del diritto internazionale. In dieci anni l’accelerazione in atto porterà grandi cambiamenti. Non credo che gli organismi sovranazionali possano recuperare un ruolo di guida, almeno nel medio periodo; questa spetterà ai governi delle grandi potenze. Se sapranno cooperare senza farsi troppo condizionare dalle imprese tecnologiche, che oggi hanno assunto un ruolo geopolitico determinante ed eccessivo in quel che resta delle cosiddette democrazie liberali, ci potranno essere delle speranze. Un mix di pubblico e privato nel campo dell’uso e dello sviluppo dell’Ai si impone, da attuare nello spirito del pensiero dell’economista Mariana Mazzucato espresso nel suo libro Lo Stato innovatore. Diversamente ci sarà la guerra di tutti contro tutti e il pericolo di una deriva delle democrazie liberali verso forme di autoritarismo e populismo, che purtroppo già si vedono, non solo nella potenza egemone.
***
Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
