Radioactive è il film incentrato sulla vita di Marie Skłodowska Curie (interpretata da Rosamund Pike) e il suo studio — condiviso con il marito, Pierre Curie (Sam Riley) — sulla radioattività. Basata sull’omonima graphic novel di Laurin Redniss, questa pellicola è uscita nel 2019 negli Stati Uniti e nel 2020 in Italia, raccontando l’incredibile storia della scienziata, laureata in Scienze Fisiche e prima vincitrice in assoluto di ben due Premi Nobel.
La regista, Marjane Satrapi, già autrice di Persepolis, ripercorre i quarant’anni dell’esistenza di Marie, ricorrendo all’espediente cinematografico del flashback. Il racconto, infatti, si apre con un’anziana, in punto di morte, su una barella in ospedale, che rimembra la sua vita, a partire dall’espulsione dai laboratori dell’ateneo, da parte del professore e fisico francese Lippmann e dell’intera commissione universitaria della Sorbona. Sin da subito, la geniale polacca, naturalizzata francese, viene presentata come una donna orgogliosa e sicura di sé, intollerante verso le intromissioni esterne nel suo lavoro.

Spieghiamo meglio: è il 1891 e Maria Skłodowska — non ancora Marie Curie — è appena arrivata a Parigi dalla Polonia e sta portando avanti le sue ricerche sulle proprietà magnetiche dei vari metalli; tuttavia, la sua genialità e il suo essere donna non sono benviste dagli accademici e dai docenti. Questo le costa dunque l’allontanamento dall’università. A quel tempo, infatti, a nessuna donna è permesso essere una mente brillante ma soprattutto non le è concesso essere emancipata.
Sempre in questo frangente si apre un’altra analessi in cui vediamo la mamma di Maria, malata di tubercolosi, in fin di vita (scena esemplificativa per comprendere la motivazione per la quale la giovane teme gli ospedali) dire alla figlia che il mondo si sta per aprire a un’altra dimensione: «quella di Maria Skłodowska».
Nel tentativo di reinventarsi, la scienziata si imbatte, assolutamente per puro caso, in Pierre Curie, suo futuro marito, il quale, riconoscendo in lei notevole intelligenza e talento, le propone una collaborazione. Dopo lo scetticismo iniziale, Maria accetta e tra i due nasce una grande intesa che non si limita al solo ambito professionale. Infatti, contemporaneamente alle ricerche da loro condotte, Pierre (del quale acquisisce il cognome) e Marie (alla francese) decidono di sposarsi per poi dare vita a due bambine: Irène, la primogenita, ed Ève, la secondogenita.
A ogni modo, negli anni, gli studi dei due ricercatori procedono a gonfie vele: insieme si concentrano sull’isolamento e sulla concentrazione del radio e del polonio — i due nuovi elementi — che Maria ipotizza essere presenti nella pechblenda (dal tedesco pech e blende, pece e blenda), un minerale radioattivo composto da diossido di uranio.

Tali supposizioni sono dovute al fatto che all’interno di questo composto la radioattività sia molto più alta del previsto, rispetto all’uranio puro. Il loro lavoro inizia a essere riconosciuto, tanto che le loro scoperte vengono utilizzate anche nel campo della medicina con la radioterapia, per via degli effetti biologici delle radiazioni, e con le radiografie, chiamate dalla scienziata “raggi X mobili”. I coniugi vengono entrambi insigniti del Premio Nobel per la fisica nel 1903, sebbene, in un primo momento, il comitato voglia conferirlo solo al marito, il quale, con una lettera di reclamo, fa inserire pure il nome della moglie. Nonostante la grande complicità nella coppia, la brillante ricercatrice si rende conto di non essere più la stessa e si sente costretta a un ruolo che non le calza affatto: la casalinga. Tuttavia, d’altra parte, grazie al grande legame che ha con il compagno capisce di essere in grado di fidarsi e di amare qualcuno al di fuori di sua madre.

Purtroppo, a causa di un incidente stradale, Pierre viene a mancare. Questo tragico evento segna la vita di Marie che, da donna indipendente, inizia a mostrare quel lato vulnerabile e umano che da sempre nasconde a seguito della morte della mamma. La sofferenza che prova per il decesso di Pierre fa sì che inizi a provare dei sentimenti per l’amico Paul Langevin — ex alunno e collega del defunto sposo — con il quale intratterrà, per un breve lasso di tempo, una relazione clandestina. Relazione che la consorte di quest’ultimo scopre e dichiara alla stampa, dando luogo a una gogna mediatica che travolgerà Marie. Lo scandalo causa in seguito la fine del rapporto, il termine della sua carriera come docente universitaria (ereditata a seguito della scomparsa di Pierre) e il rischio dell’esclusione dalla cerimonia dell’assegnazione del secondo Nobel; cosa che suscita l’indignazione e l’insorgere da parte del movimento femminista di Stoccolma.
Marie Curie, dunque, si reca personalmente nella capitale della Svezia, assieme alla figlia maggiore, per ritirare il riconoscimento, riscuotendo uno straordinario successo.
Dopo pochi anni scoppia la guerra in Europa e la studiosa, su richiesta e con l’aiuto di Irène (Anya Taylor Joy), conduce la sua ultima battaglia: in cambio dell’oro ottenuto dai suoi due premi Nobel, chiede che le ambulanze vengano dotate di strumenti per effettuare le radiografie per evitare possibili amputazioni degli arti di soldati feriti. Propone, anche, di utilizzare ampolle di randon — un gas radiattivo inodore e incolore — per arrestare le emorragie e salvare la vita di questi uomini. Dopo l’esperienza al fronte, Marie trova finalmente il coraggio di entrare nell’ospedale, incontrando, sempre mediante la tecnica di flashback e flashforward, quelle che saranno potenziali vittime della sua scoperta, a causa delle mancate precauzioni per le radiazioni, ancora ignote. Tra questi ammalati c’è anche Pierre.

Si ritorna alla scena iniziale: la donna, in fin di vita, è ricoverata in ospedale a causa delle contaminazioni dal radio. Il lungometraggio si conclude con Marie che immagina di incontrare lo sposo e di parlare con lui, per poi allontanarsi insieme verso un’altra dimensione, augurandosi che il mondo faccia il giusto uso della loro scoperta rivoluzionaria.

Termina in questo modo il film che vede protagonista una figura femminile, pioniera della scienza e non solo. Marie Curie, infatti, possiamo, altrettanto, definirla pioniera dell’emancipazione femminile, in quanto ha aperto la strada alle donne nelle carriere scientifiche sfidando e sovvertendo i pregiudizi di genere dell’epoca, ottenendo molteplici glorie come essere la prima a vincere un premio Nobel e l’unica ad averne vinti due in discipline diverse.
Nonostante diversi spettatori abbiano definito il film “frammentario”, l’interpretazione di Rosamund Pike è assolutamente magistrale. Inoltre, la regista, dotata di grande personalità, è stata in grado di tratteggiare con precisione la personalità della protagonista: una mente brillante, decisa e sicura del proprio lavoro, una vera scienziata e una persona molto libera.
Anche l’utilizzo del flashback, per raccontare le varie fasi di vita di Marie Curie, esplorando le implicazioni morali e sociali delle sue scoperte sulla radioattività, è ben reso. Malgrado alcune critiche, quindi, possiamo sicuramente riconoscere a Marjane Satrapi la capacità di aver dato un’idea della vita, dei sacrifici e dei meriti della scienziata.
Concludiamo con la citazione di una frase molto suggestiva, che riassume la personalità di Marie Curie, pronunciata proprio dalla ricercatrice: «Nella vita niente deve essere temuto, ma solo capito. È tempo di capire di più, in modo da temere di meno».
***
Articolo di Ludovica Pinna

Classe 1994. Laureata in Lettere Moderne e in Informazione, editoria, giornalismo presso L’Università Roma Tre. Nutre e coltiva un forte interesse verso varie tematiche sociali, soprattutto quelle relative agli studi di genere. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura e l’arte in ogni sua forma. Ama anche viaggiare, in quanto fonte di crescita e apertura mentale.
