Venerdì 24 ottobre, presso l’Aula Volpi del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, ha avuto luogo il secondo giorno di lavori di Tutta mia la città, il primo convegno internazionale di Toponomastica inclusiva. Suddiviso in cinque moduli tematici, il congresso ha visto la partecipazione di importanti figure femminili, tra politiche, sociologhe, architette, urbaniste, artiste e docenti italiane ed europee.
Dopo i consueti saluti di apertura, a cura delle mediatrici Francesca Borruso, docente del dipartimento, e Rosanna De Longis, socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche — seguiti dai contributi di Fridanna Maricchiolo, professoressa dell’Ateneo di accoglienza, e di Rosalba Mengoni, collaboratrice tecnica dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterraneo del Cnr — ha preso avvio la sessione mattutina del convegno (9:00-13:15), riservata, in ordine progressivo, ai nuclei tematici Stereotipi e linguaggi visivi e Comunicare il genere. Al primo dei due è dedicato l’intervento omonimo della sociologa della comunicazione e della cultura Graziella Priulla, con l’aggiunta nel titolo Definizione della situazione. Apparentemente criptica, questa intitolazione si deve alla necessità di situare le esperienze umane in modo da riuscire a significarle e decifrarle così da farle giungere alla coscienza. Come tutte le persone, le cose e gli eventi, le strade hanno dei nomi sui quali siamo chiamate a interrogarci, domandandoci cosa c’è di invisibile rispetto alle nostre vie. È così che riusciamo a intenderle quale espressione di quella stessa violenza simbolica che si esercita attraverso la mancata sessualizzazione della grammatica a seconda del genere e della cancellazione del sapere femminile nei manuali e nei percorsi scolastici. Così come le vicende di natura grammaticale e accademica, il discorso sulla toponomastica, con cui si genera un parallelo, ci mostra la fallacia naturalistica che sottende questa logica di potere, ovvero la manipolazione che esso opera per consolidarsi e durare nel tempo, creando delle gerarchie date per naturali, così come gli stereotipi, causa e prodotto di tale meccanismo.
Con la sua relazione fondativa, la studiosa ricostruisce, attraverso le categorie sociologiche, l’articolazione del potere e delle discriminazioni di genere, evidenziando il potere pervasivo dei silenzi.

Con Legno, pietra, acciaio, nitrato d’argento. Film, Television & Media: la spettatrice e la città Domizia De Rosa, presidente della Women in Film, Television & Media — associazione che si occupa di equità di genere e inclusione nel settore audiovisivo — ci addentriamo poi nel mondo del cinema, attraverso un viaggio allusivo in prospettiva di genere volto a rendere visibili le assenze e le obliterazioni delle donne e del loro lavoro dalla storia e dagli spazi che hanno occupato in questo ambiente. I luoghi che visitiamo sono gli spazi e le pareti abitate dallo sguardo della spettatrice occidentale, vissuti spesso con l’atavica e giustificata ansia di uno spazio buio fuori dal proprio controllo. Dal presente, con un salto nel passato ci ritroviamo nel 1928, in procinto di andare a vedere Our Dancing Daughters. I pericoli non mancano, ma siamo ragazze moderne e inossidabili come l’acciaio dei nuovi palazzi e delle rotaie e dei treni che ci hanno portato via dalle nostre sonnacchiose province. I flashback si susseguono uno dopo l’altro: siamo negli anni Cinquanta dell’Ottocento, nei bei tempi andati della Repubblica mentre osserviamo le cerimonie pubbliche; siamo le osservatrici domestiche e addomesticate, le castellane con i loro giardini, saltibanchi, mimi, rappresentazioni sacre, processioni e feste; le mistiche che scrivono canzoni, le committenti e destinatarie di opere d’arte; siamo a Roma e nel 1896, presso lo studio fotografico di Harry Le Lieure, assistiamo alla prima proiezione di una delle opere dei fratelli Lumière in Italia. Abbiamo incontrato il cinema, lo schermo si è illuminato, abbiamo visto altri mondi e il nostro sguardo di spettatrici li ha penetrati e attraversati. Ci fermiamo nel 1913, prima che il nitrato d’argento sparisca dalle pellicole e la televisione venga a frapporsi fra queste amanti, trasformando di nuovo lo schermo che era magico in un elettrodomestico. Lo schermo adesso lo abbiamo in tasca ma se torniamo indietro nel tempo, quando abbiamo visto per la prima volta le insegne luminose di un cinema, nella notte incontriamo di nuovo lei, la nostra spettatrice, la donna moderna come non è stata mai nessuna prima, quella che, quando le luci si spegneranno, potrà piangere, ridere, sentirsi sola in compagnia.

Seguono le relazioni di Alessandra Mancuso e di Tomaso Montanari, intitolate rispettivamente La giornalista e la città e Spazio pubblico e dominio maschile: la pedagogia della tenda. Il primo intervento, riprendendo un bandolo del tema dell’invisibilità, riguarda, nello specifico, quella delle giornaliste, la cui ubiquità è in realtà un’illusione ottica. Sette mesi dopo il 12 febbraio del 2011 — la data in cui è stato lanciato via web l’appello per la manifestazione “Se non ora, quando?” — le giornaliste nazionali si sono unite nell’associazione GiULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome), dando sfogo al disagio condiviso nel mondo del lavoro a causa delle relazioni di potere sbilanciate che subivano all’interno delle redazioni e il conseguente incomodo produttivo. Dal giorno della sua nascita, il collettivo si è impegnato nell’arduo compito di cambiare il linguaggio col fine di trasformare la cultura patriarcale attraverso l’arma della comunicazione. In questi quindici anni, come conferma la stessa giornalista, qualcosa è cambiato; dei passi in avanti si sono fatti: il linguaggio di genere ed espressioni come vittimizzazione secondaria sono entrate a far parte della lingua redazionale. Ciononostante, le giornaliste continuano a essere sovrarappresentate dove non c’è un potere da gestire e un prodotto da dirigere ed escluse dai ruoli dirigenziali. Non di meno, faticano a emergere come soggetti produttrici e protagoniste di notizie, con inevitabili ricadute sul prodotto di cui fruiscono cittadini e cittadine.
Montanari, storico dell’arte e, attualmente, rettore dell’Università per stranieri di Siena, non potendo partecipare personalmente all’evento, ha preparato per noi una videoregistrazione. Per prima cosa, ci tiene a chiarire il significato del titolo scelto per la propria relazione: si tratta di un’allusione alle pagine in cui Pier Paolo Pasolini, nel 1976, abbozza quel trattatello pedagogico dedicato a Gennarello che non porterà mai a conclusione. Il riferimento a cui attinge è volto a spiegare il senso necessariamente autoritario che l’odonomastica, ovvero i nomi delle strade, dà dell’ordine a cui la persona in crescita è chiamata a conformarsi. Per questo è particolarmente importante che quei segni ma anche i monumenti, le epigrafi, le lapidi, le scritte sui muri siano in grado di comunicare un messaggio che sia in armonia, per esempio, con i valori e il progetto antiautoritario della nostra Costituzione. Tuttavia, l’informazione che essi veicolano è quella di una società fondata sul dominio maschile e la razza bianca. Allora è necessario che le città, osmoticamente, ci aiutino a diventare una società più giusta, cioè più inclusiva e più accogliente.


Le storiche dell’arte Livia Capasso e Rosanna Carrieri, che gli succedono, ci intrattengono con una relazione sul gap di genere nella statuaria pubblica dal titolo Rappresentazioni femminili nello spazio pubblico. In merito, con riguardo esclusivo al Pincio e al Gianicolo di Roma, si sottolinea che su 311 busti dedicati alle nostre glorie nazionali, nel campo della cultura e della politica, solo quattro raffigurano figure femminili. A destare scalpore non è solo l’esiguità quantitativa, ma pure la specificità qualitativa, ovvero il modo in cui i corpi femminili sono rappresentati nello spazio pubblico italiano. Anche laddove vengano rappresentate figure o tematiche femminili, lo scenario artistico che ne risulta è informato dallo stesso stereotipo che sottomette la donna allo sguardo e al potere maschile: Comunque nude, devote, avvenenti anche nella fatica, mentre sono intente a lavorare. Un focus particolare è dedicato alle rappresentazioni relative alla violenza contro le donne. In merito, vengono citati il Monumento alla Mamma Ciociara, la Violata (Ancona), il Monumento alla Mondina. Quello che hanno in comune queste statue è la violenza che esprimono, che rappresentano e con cui si presentano, ponendosi l’obiettivo di riflettere sulla tematica e di farlo con la presunzione di un’universalità che invece, di fatto, si rivela a misura di un uomo bianco e occidentale.


La ripresa dei lavori della mattina, dopo lo spazio dedicato alle domande del pubblico, inizia con l’intervento La comunicazione mediatica fuorviante della giornalista pubblicista Ester Rizzo. Con lei si apre il secondo modulo della giornata: Comunicare il genere. La sua relazione riguarda la narrazione tossica che le agenzie di informazione e comunicazione forniscono rispetto alle notizie riguardanti femminicidi, stupri e altre forme di violenza contro le donne, troppo spesso nei termini di una co-responsabilità e/o colpevolezza della vittima. Ciò presupposto, in conclusione, Rizzo propone di istituire l’obbligatorietà di corsi di formazione sull’uso del linguaggio rivolti a chiunque pratichi il giornalismo.

Successivamente, prende la parola Lucia Miodini, docente di Storia della fotografia e membro del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana di Public History. Whiteness, genere e sessualizzazione dei corpi tratta le intersezioni possibili tra gender e public history negli spazi pubblici, in quelli urbani e negli spazi mediatici, con un percorso genealogico in prospettiva di genere, transdisciplinare e intersezionale, attraverso le politiche dello sguardo.
Sguardi sulle città: nomi, corpi, immagini femminili, la relazione di Vinzia Fiorino, docente di Storia contemporanea e di Studi intersezionali all’Università di Pisa e presidente della Società Italiana delle Storiche, è articolata su tre punti principali: che cosa ci dicono le immagini? Come dobbiamo trattarle, leggerle, cosa esprimono, a cosa servono e quali significati rispetto alla parola scritta? E, soprattutto, cosa vogliono le immagini da noi?.
Partendo da questi interrogativi, si tenta di capire le trasformazioni dell’immaginario veicolato dalle nuove raffigurazioni, muovendosi nella direzione di una reinvenzione di senso e del sé.


Sono le 12:20 circa ed ecco che, con una variazione rispetto al programma, assistiamo all’intervento più atteso della giornata: Sala delle donne e memoria. A parlare è Laura Boldrini, deputata, Presidente del comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo, nonché terza donna — dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti — a ricoprire il ruolo di Presidente della Camera dei deputati. La sua relazione è un excursus nel suo vissuto esperienziale che prende avvio a partire dal 2013, quando si ritrova catapultata ai vertici delle istituzioni come terza carica dello Stato. L’ingresso a Montecitorio è spiazzante: nei corridoi, nelle sale, non c’è traccia, tra i tanti busti di uomini autorevoli, delle 21 madri costituenti, di quelle donne che il 25 giugno del 1946 varcarono quel portone e rappresentarono milioni di cittadine; nessun riecheggio di un linguaggio declinato al femminile: il sottosegretario, il ministro… Da qui la richiesta di inserire negli atti parlamentari anche il femminile — accolta con ostracismo e seguita da una campagna di delegittimizzazione nei suoi confronti — e la decisione di costruire, sull’esempio del Parlamento svedese, una sala delle donne in Montecitorio.
Citando il monologo scritto da Stefano Bartezza e portato in scena dall’attrice Paola Cortellesi, la deputata si sofferma sul significato delle parole e sulla necessità di “spogliarle” dall’uso distorto che se ne fa, proseguendo sull’importanza di mantenere viva la memoria di figure femminili di altissimo livello attraverso i monumenti e le intitolazioni di strade. In questo modo, si potrà mettere in rilievo il ruolo tutt’altro che gregario delle donne, riscrivendo la storia, un’altra storia, attraverso i loro occhi.


La sessione della mattina si conclude con le relazioni di Sara Balzerano, insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e giornalista pubblicista, di Valentina Domenici e Milena Gammaitoni, entrambe professoresse presso l’Ateneo ospitante. Il primo intervento La comunicazione murale. Donne in lotta tratta di comunicazione morale e di Street Art, ovvero di quella forma artistica dai confini nebulosi, in continua mutazione ed evoluzione, con un piede dentro il sistema e l’altro nettamente fuori. L’uso creativo dei muri è una costante, mutatis mutandis, della storia dell’essere umano fin dalle origini. Anche in questo mondo, emerge da subito la fortissima preminenza di nomi maschili e non perché in numero davvero maggiore ma perché l’attenzione è evidentemente sbilanciata a loro favore. Ne consegue che la narrazione unica, artefice di recinti e stereotipi, ha colpito anche quell’arte che, visto il palcoscenico cittadino, si configura quale giuntura tra l’artista, il luogo di esposizione e fruitori e fruitrici dell’opera stessa e, dunque, come patrimonio collettivo con finalità educative e propagandistiche. Ma, poiché l’arte urbana veicola messaggi espliciti e impliciti, essa può diventare uno strumento utile nella lotta contro gli stereotipi, normalizzando la presenza femminile. Lo dimostra, e ne è un esempio, il murale fatto a Milano (in via Tranquillo Cremona 27) da Pablo Pinkit che rappresenta otto donne straordinarie: Ada Negri, Rosa Genoni, Alessandrina Ravizza, Ersilia Bronzini Majno, Laura Sorela Mantegazza, Anna Kuliscioff, Maria Montessori e Sibilla Aleramo.

Comunicazione multimediale. Periferie, generi, inclusioni di Valentina Domenici si sostanzia quale riflessione sugli intrecci esistenti tra spazi mediali e spazi urbani e i processi di esclusione delle identità femminili operati dalla comunicazione mediale negli spazi che le competono.
Gli ambienti mediali, come quelli fisici e urbani, sono attraversati dagli squilibri di dominio propri di un potere estremamente strutturale che, di fatto, li rende agenti in grado di produrre identità, ovvero di escluderne alcune e di includerne altre — nella maggior parte dei casi quelle femminili e quelle di chi non si riconosce in un’identità di genere binaria — e, quindi, di annientamento simbolico. Grazie al Visual Fest, la rassegna di opere cinematografiche audiovisive di cui è Presidente, Domenici ha potuto, tuttavia, osservare un cambiamento positivo sia in termini quantitativi — con una partecipazione femminile sempre maggiore — che sul piano qualitativo: registe, videomaker, fotografe e scrittrici nelle loro opere propongono, infatti, uno sguardo nuovo sulla realtà e sui fenomeni, non necessariamente dicotomico, che incoraggia a interrogarci sul nostro atto di guardare, inteso non più come azione passiva ma come gesto estremamente politico, in grado di ristabilire o di mettere in discussione gli squilibri di potere presenti nella società.
Con la professoressa Milena Gammaitoni riflettiamo su cosa significa non ottenere visibilità in quanto donne e sulla marginalizzazione che subiamo nel momento in cui raggiungiamo determinati spazi pubblici, con la frequente ricategorizzazione all’interno di una disciplina, di un ambito o di un settore.


Le relazioni dei moduli mattutini sono terminate; la testa e lo spirito sono colmi di nozioni, concetti ed esperienze reali che necessitano di essere metabolizzate. Forse, con lo stomaco pieno e l’anima un po’ più leggera riusciremo a farlo. Andiamo a pranzo…
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
