Un bel po’ di tempo prima che arrivi il tempo di carnevale, iniziano i preparativi per scegliere la maschera e per farla realizzare. Negli anni Cinquanta-Sessanta non si va ai grandi magazzini, nel negozio “dei cinesi” o in qualche rivendita di abiti nuovi o da affittare, no davvero; si consultano attentamente i figurini e poi interviene la sarta che deve approvare il modello e consigliare i tessuti più adatti: panno, cotone, seta, raso.
Ho già raccontato che in casa mia arrivava dalla periferia in bicicletta la Mara che realizzava gli abiti più semplici e di uso quotidiano, effettuava le varie prove e poi consegnava il risultato finale. Ho un ricordo molto preciso di un vestito in particolare, di cui conservo pure qualche foto, quello della ciociara. Consisteva in una gonna rossa con sopra un grembiulino bianco ornato di pizzo sangallo, in vita una larga fascia nera, poi una camicetta e in testa una sorta di fazzoletto schiacciato, tipico proprio della regione. Ai piedi mi vennero messe delle calzature appositamente confezionate, di panno nero, con le stringhe alle caviglie, le famose “ciocie”.
Quell’anno le mie più care amiche erano vestite anche loro in modo artigianale, pure piuttosto curioso: una doveva assomigliare a una rosa, tuttavia la gonna aveva i petali un po’ appassiti, di colore rosa pallido, l’altra al fiore di mimosa, con la gonna ampia, a palloncino, naturalmente di colore giallo. Alcune compagne di classe impersonavano un indiano (al maschile, con i pantaloni e le penne sulla testa), un cinese (anche questa maschio, con il codino, truccatissima all’orientale), una fata, una contadinella, come usava all’epoca. Si andava, così mascherate (così conciate?), al bellissimo veglione a Montecatini dove si ritrovavano in concorso i costumi dell’intera Toscana. Non c’era gara. Una volta vinse un bambino vestito da inuit che guidava una muta di cani da slitta (veri).
Un anno non volli andare da nessuna parte perché era di moda la maschera di Dracula e io sono sempre stata molto paurosa; quei denti orrendi mi hanno disturbato a lungo il sonno e temevo di ritrovarmi davanti qualche bimbetto dispettoso pronto a sorridermi per prendermi in giro.
Ma il regalo più bello e inaspettato lo fece il mio babbo che amava sorprenderci e per sua figlia avrebbe fatto qualunque cosa. Un pomeriggio stavamo facendo una festicciola in casa, con i pasticcini, le stelle filanti, i coriandoli (pochi), le trombette, le lingue di Menelicche. A un certo punto vediamo comparire, senza alcun rumore, uno strano essere ricoperto da capo a piedi di giallo, una carta trasparente luccicante che dava l’idea di un marziano o un astronauta. Tutti a urlare, bimbi, bimbe, mamme. Poi abbiamo capito e allora è stata festa grande. Il babbo, che credevamo al lavoro, si era preparato per tempo ed era entrato dalla finestra del bagno; aveva utilizzato la carta che usavano in fabbrica per avvolgere la pasta. Con i vari formati aveva fatto gli ornamenti, collane, bracciali, rifiniture, passando con un filo pennette, anellini, stelline, il tutto tinto di giallo. Da allora cominciai a dire: «Il mio babbo è un fatóne». Non pensavo a un mago, ma proprio a una figura davvero speciale, che nella mia mente di bambina mi ricordava i prodigi tutti al femminile delle fate.
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, pubblicista, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate a Pistoia e alla Valdinievole. Ha curato il volume Le Nobel per la letteratura (2025).
