Decolonizzare la città, un’opera collettiva

Vogliamo aprire un portale che mostri altri mondi, altre storie, che apra un processo di costruzione di memoria collettiva a partire dalla risignificazione dei simboli necessari a giustificare o mascherare un passato razzista, sessista, assassino. Questa è una chiamata alle arti e alle scienze per dare il via a una campagna di détournement artistico per decolonizzare la città.
Le città europee, e Milano non fa eccezione, sono archivi a cielo aperto. Le loro pietre, le statue, le targhe, i nomi delle vie non sono semplici elementi decorativi: sono dispositivi di memoria, strumenti attraverso cui il potere si perpetua e si rende invisibile. Ogni monumento, scrive Achille Mbembe, è una «macchina del tempo coloniale»: celebra la conquista, fissa la gerarchia, trasforma la violenza in eredità estetica. Statue e monumenti cristallizzano lo status quo, rendendo visibili i valori di chi ha potuto scegliere quali valori celebrare.
A Milano, le figure che abitano lo spazio urbano sono perlopiù uomini bianchi, proprietari, condottieri, industriali, eroi. Una genealogia della forza e della conquista. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un vuoto di rappresentanza; nella peggiore, di un insulto a chi non corrisponde a quella immagine — la grande maggioranza della città reale. La forma, qui, è sostanza: ciò che viene scolpito non è solo un volto, ma un ordine simbolico, una gerarchia culturale.

Come si può comprendere ciò che accade oggi nel Mediterraneo — le frontiere, i respingimenti, le morti invisibili — senza riconoscere la continuità con il colonialismo italiano in Africa? La schiavitù, lo sfruttamento, la violenza istituzionale non sono eccezioni: sono paragrafi dello stesso capitolo.
I libri di testo si fermano quasi sempre alla Seconda guerra mondiale. La “Storia” insegnata nelle scuole è in realtà una storia parziale, europea, bianca, maschile. Una narrazione che si presenta come universale, e che per secoli è stata imposta anche nelle colonie, dove i popoli colonizzati venivano educati a riconoscersi nei dominatori. Il lascito di quella pedagogia è ancora tra noi, nelle mappe, nei programmi, nei musei, nelle università. Decolonizzare la città significa anche decostruire quel sapere, ripensare le forme stesse della conoscenza.
Ogni volta che si riapre la discussione pubblica sulla statua di Indro Montanelli, ecco riemergere un riflesso condizionato. Gli scudi si alzano a difesa del “padre del giornalismo italiano”, ignorando o minimizzando il fatto che fu anche un fascista, un colonizzatore, uno stupratore. Il dibattito si riduce a una contrapposizione sterile tra chi vuole “difendere la storia” e chi la vorrebbe “cancellare”, come se la storia fosse un dato immutabile e non, piuttosto, un campo di forze in continua riscrittura.

Banski – Street Art Against Colonialism

Ma il punto non è rimuovere. È capire che la memoria non è mai innocente, e che ogni monumento rappresenta un atto di scelta. La statua di Montanelli, come quella di molti altri “grandi uomini”, è il sintomo di un più ampio rifiuto di interrogare il passato coloniale italiano. Il giornalismo che lo difende — quello stesso giornalismo che oggi riduce le morti nel Mediterraneo a poche righe di cronaca — continua a muoversi nel solco di quella stessa educazione alla rimozione.
Eppure, in questa stessa città, esistono pratiche che aprono varchi nel tessuto della memoria ufficiale. Le decolonizz-Azioni — lezioni in piazza, performance, poster, graffiti, collage, installazioni — sono tentativi di restituire voce a chi è stato cancellato. Il détournement artistico non è vandalismo, ma gesto di risignificazione: un modo per trasformare il monumento in contro-monumento, per far emergere storie sommerse, per reinnestare la vita nel marmo.
Jacques Rancière ha scritto che la politica dell’arte consiste nel «ridistribuire il sensibile», cioè nel ridefinire ciò che può essere visto e detto. Decolonizzare la città è precisamente questo: cambiare la grammatica della visibilità. Non si tratta solo di aggiungere statue nuove o targhe commemorative, ma di ripensare il linguaggio stesso della monumentalità, di spostare l’attenzione dai soggetti della conquista ai soggetti della resistenza, dalle figure isolate ai corpi collettivi.

Una città decolonizzata è una città viva. Bella, in senso estetico e politico, non perché armoniosa o ordinata, ma perché capace di accogliere il conflitto e la pluralità. Una città che parla, che si trasforma, che non teme la complessità delle proprie identità. La creatività, allora, non è imitazione di un’unica natura o celebrazione di un’unica verità, ma apertura di possibilità nuove.
Come ricordava Edouard Glissant, il diritto all’opacità — il diritto a non essere pienamente comprensibili secondo le categorie del centro — è una forma di libertà. Decolonizzare la città significa accettare questa opacità, farne una condizione di convivenza. Non più una città che pretende di rappresentare una sola storia, ma una molteplicità di narrazioni che si intrecciano, si contraddicono, si risignificano.
Ogni opera pubblica è anche un corpo politico. Le statue, i murales, le installazioni non sono solo oggetti estetici, ma agenti di senso: partecipano alla costruzione di un immaginario collettivo. Per questo, come affermava bell hooks, l’arte può essere uno spazio di libertà e di guarigione, ma solo se è capace di mettere in discussione i propri privilegi, di dislocare il proprio punto di vista.

Decolonize Street Art

Le decolonizz-Azioni artistiche non cercano di sostituire un canone con un altro, ma di rompere l’idea stessa di canone. Sono esercizi di ascolto e di restituzione, tentativi di far emergere le storie invisibili dei corpi migranti, delle donne, delle persone queer, delle lavoratrici e dei lavoratori che fanno vivere la città. Nelle loro tracce effimere — un poster, un intervento sonoro, un nome riscritto — si manifesta una diversa idea di monumento: non più pietra e permanenza, ma voce e movimento.
«Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità». Le parole di Thomas Sankara risuonano oggi come un programma politico e poetico. La decolonizzazione non è un evento concluso, ma un processo continuo, un esercizio di disobbedienza quotidiana. Non riguarda solo i simboli, ma le strutture mentali, i linguaggi, le forme di sapere e di relazione.
Decolonizzare la città significa dunque decolonizzare noi stesse/i, le nostre percezioni, il nostro sguardo. Significa imparare a vedere ciò che è stato reso invisibile, a riconoscere la violenza che si nasconde nella normalità. Decolonizzare la città non è un progetto di élite, né un gesto isolato. È un’opera collettiva, una pratica di cittadinanza radicale. È lo sguardo di chi attraversa le strade interrogandone i nomi, di chi legge una targa e ne scopre il silenzio, di chi immagina altri monumenti possibili. È il desiderio di costruire una metropoli a immagine e somiglianza dei tanti corpi e delle tante storie che la compongono: meticce, transfemministe, intersezionali, in movimento.

Aprire un portale, come scrivevamo all’inizio, significa dischiudere la possibilità di un mondo diverso. Un mondo in cui la memoria non sia più un’eredità di potere, ma un terreno comune da coltivare insieme. La città, allora, non sarà più solo lo spazio della storia che abbiamo ereditato, ma il luogo della storia che vogliamo scrivere.

In copertina: statua di Indro Montanelli (Milano) — foto ravvicinata della statua con i segni delle azioni artistiche (documentazione urbana, non sensazionalistica).

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Articolo di Paola Di Lauro

Laureanda in Lingue e culture moderne, sono appassionata di letteratura e narrativa femminista. Intreccio prospettive femministe con radici culturali diverse, tra cui quella italo-cinese, per decostruire narrazioni dominanti e costruire nuovi immaginari. Scrivo per dare spazio a esperienze plurali, per riscoprire autrici dimenticate e per affermare il potere della parola nel ridefinire il mondo.

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