Nelle aule riservate al ricevimento, divise tra quella per le persone vegetariane e quella per le onnivore, ci accoglie un banchetto perfettamente imbandito. Qui dove tutto tende all’inclusività, intesa non solo come pratica di accoglienza ma anche come fine verso cui tendere, pure il cibo diventa strumento atto allo scopo: il progetto Gastronomastica ha coinvolto le ragazze romane del gruppo Erasmus+ Giovani — deputate, durante il convegno, all’accoglienza dei/delle partecipanti e di amici e amiche siciliane, lombarde e toscane con cui svolgono questo percorso — nella preparazione e condivisione di pietanze home made, che hanno arricchito ulteriormente l’offerta culinaria, contribuendo a creare piacevoli momenti di dialogo e socialità.
Torniamo in Aula Volpi con le pance piene e ci rimettiamo in ascolto.
Le relazioni previste per la sessione pomeridiana afferiscono ai moduli tematici Città e genere, Roma. A misura di chi? e Luoghi abituali e nuovi sguardi. Il primo intervento è quello di Silvia Neonato, giornalista e, insieme a Rosalba Mengoni e Giuseppina Incorvaia, mediatrice di questa seconda sezione di lavoro.
La città Leggendaria, dal titolo della rivista fondata trent’anni fa dalla stessa Neonato, trae origine dal confronto con l’urbanista e scrittrice Elena Granata, autrice, tra gli altri, del libro Il senso delle donne per la città; in particolare da una frase da lei pronunciata: «Le nostre città sono fatte per essere attraversate ma non toccate». L’urbanista intende così che le metropoli, finora progettate dagli uomini, non sono realizzate in modo da essere a misura delle persone. Da qui la necessità di costruire dei centri urbani che siano fatti di corpi e che favoriscano la relazione.

Dall’eredità di Jane Jacobs all’urbanistica di genere del terzo millennio, dell’architetta e storica dell’architettura Monica Prencipe, guarda all’antropologa e attivista urbana del titolo quale ponte tra il mondo delle giornaliste e quello della pianificazione. In Vita e morte delle grandi città, testo fondativo dell’urbanistica moderna, l’autrice, contrariamente alla definizione in quartieri funzionali stabilita con la Carta di Atene (1933) e alla pianificazione dall’alto che ne deriva, si propone di verificare come le città funzionino nella vita reale e, rovesciando i tradizionali principi urbanistici, assume il primato della misura umana, ovvero dei centri urbani complessi, densi, progettati per le persone, specie per chi si muove a piedi. Con riguardo al contesto italiano, l’eredità di Jacobs si sostanzia, ad esempio, nella riflessione dell’“architetta fuori di sé” proposta dalla saggista Marta Lonzi.

Azzurra Muzzonigro, urbanista e co-curatrice del progetto di genere Sex and The City, ci parla della discrepanza tra rappresentazione e realtà, ovvero della disuguaglianza che in essa si sostanzia. Riconoscendo come legittimo solo ciò che assomiglia al modello dominante — maschio, eterosessuale, abile, bianco, economicamente stabile e libero da carichi di cura — la pianificazione urbana ha relegato i corpi “altri” a presenze tollerate ma non previste, senza tenere conto delle traiettorie multiple che li riguardano: asili lontani dai luoghi di lavoro, mezzi pubblici pensati per pendolari lineari, parchi senza panchine né bagni, marciapiedi stretti che diventano ostacoli per chi spinge un passeggino o accompagna un individuo anziano. Lo spazio pubblico ci ha accolte con diffidenza costringendoci a muoverci con attenzione, sempre pronte a giustificare la nostra presenza. Ripensare la città, correggere la sproporzione, significa allora non soltanto installare rampe o aumentare la sorveglianza, ma riconoscere che per troppo tempo lo spazio è stato modellato da uno sguardo univoco; non sostituire i simboli ma moltiplicarli, far convivere l’autorità e la fragilità, la monumentalità e il gesto quotidiano.

Con il suo intervento dal titolo A misura di tutt*, in pratica, l’urbanista Chiara Belingardi, nelle veci anche dell’architetta Gabriella Esposito — sua collega nel master di secondo livello organizzato dall’Università di Firenze, Città di genere —, ci rivela quelli che, secondo lei, sono i tre principi chiave nel dibattito sulla città femminista: l’idea di osservare il contesto, cioè come vivono le persone, come sono fatti i luoghi e che cos’è la vita quotidiana che non si esaurisce solo nelle mura domestiche; il concetto dell’eco-dipendenza, attinente al fatto che non esiste una separazione fra l’ambiente e l’urbano, e l’idea della differenza, intesa come superamento dell’individuo universale neutro. Dall’esperienza condivisa con le compagne di Lucha y Siesta derivano poi le riflessioni circa la natura non pacifica della Città di tutt*, data la dinamica di messa in discussione del privilegio di chi sta comodo dentro gli spazi urbani, e sulla necessità di città accoglienti, a misura di donna, che riconoscano il nostro diritto di apparizione, ovvero di essere parte del patrimonio conoscitivo su cui vengono costruite le politiche e le città. Non di meno, si rivendica il diritto di appropriazione dei dati disaggregati sulla base dei quali dovrebbero essere strutturate le metropoli.


Con l’intervento di Michela Cicculli, Consigliera capitolina e Presidente della Commissione pari opportunità al Comune della capitale, si apre il secondo modulo del pomeriggio: Roma, a misura di chi?.
Roma, una città fuori misura si concretizza nella presentazione del progetto di analisi, rilievo dei bisogni e costruzione di mappe territoriali che Roma capitale sta realizzando con l’obiettivo di fotografare la situazione presente nei territori della città, andando a evidenziare e a nominare quanto più possibile tutti quei quartieri e municipi che, storicamente, sono rimasti nascosti nella narrazione e nella costruzione e consapevolezza dell’intervento. Grazie al lavoro di mappatura realizzato, consultabile attraverso il portale dedicato, è possibile visionare le mappe di ciascun municipio, con i territori a esso appartenenti, e consultare diversi livelli di approfondimento: caratteristiche sociali e demografiche del territorio, numero di abitanti disaggregati per genere, occupazione ed età. Alla base del progetto vi è la necessità di dare voce alle pluralità e specificità identitarie.
Dopo la Consigliera interviene Maria Grazia Bellisario, architetta specialista in restauro dei monumenti, dirigente, fino al 2017, del Mibact (Mic) e componente del Comitato di direzione della rivista Economia della Cultura e del Comitato scientifico di Ravello Lab – Colloqui internazionali. La sua relazione Donne per Corviale: spazi da conquistare, spazi da difendere — la cui denominazione rimanda all’organizzazione di cui è Presidente — è dedicata al “serpentone” omonimo. Questo edificio, nato per assolvere al proprio interno tutte le funzioni della vita corrente, è stato uno dei principali ambiti di investimento del Pnrr. Per affrontare i problemi del grande complesso, popolato per la maggior parte da donne, è stata proposta la costruzione di un centro antiviolenza, che valga da presidio informativo per tutte le cittadine del quadrante. Il lavoro si sta concentrando anche su presidi ulteriori come, per esempio, il consultorio e la realizzazione di una piazza da dedicare alle donne di Corviale. Si tratta di forme di interazione che, potenzialmente, saranno sempre più efficaci.

Successivamente, prende la parola la Consigliera della Regione Lazio Marta Bonafoni. La sua relazione è una domanda: Roma, “città morbida”?, che, inevitabilmente, induce a interrogarsi sul senso dell’aggettivo e sulla direzione da intraprendere affinché il punto di domanda venga sostituito con quello esclamativo. La città dura, quella costruita dagli uomini, è tale perché ha una sola dimensione: quella di una relazione di potere che prevedeva, e vorrebbe prevedere anche oggi, che le donne avessero lo spazio domestico come unica dimensione di agibilità, inchiodandole al ruolo privato. La città dura, escludente, è quella in cui non sono previsti posti di custodia e di cura per le donne che devono allattare e per la prole; è quella in cui si tenta di ripristinare la possibilità delle pubblicità sessiste e violente sui cartelloni ai lati della strada. Il compito della politica è quello di opporre alla durezza di uno spazio urbano così connotato la morbidezza dei luoghi interdipendenti e intersezionali, in cui si possa convivere. Nello specifico, sono esempi di una Roma “morbida” l’ex manicomio Santa Maria della Pietà, dove è in corso una riconciliazione fra l’umano e l’ecosistema — con gli orti e l’agricoltura — e Viale Amelia, la strada in cui ogni anno, nel giorno del loro anniversario di morte, Rita Atria, figlia di una famiglia mafiosa uccisasi dopo l’attentato a Borsellino, e Martina Scialdone, assassinata davanti a un ristorante dopo aver discusso con il suo ex compagno, si guardano tra gli striscioni e i disegni in loro onore, nella loro ribellione e voglia di libertà. Mutuando il testo della canzone che fa dal titolo al convegno, la città morbida è il contrario di quel deserto cantato; una metropoli in cui nessuna vuole che un uomo pianga ma vorrebbe poter smettere di farlo lei.

L’ultimo panel, dedicato a Luoghi abituali e nuovi sguardi, vede la partecipazione delle associate Livia Capasso e Sara Balzerano, della vicepresidente Danila Baldo e della segretaria di Toponomastica femminile Giuseppina Incorvaia, con un intervento di Beatrice Ceccacci, la studente in rappresentanza delle altre colleghe romane: Sveva Fattori, Nicole Maria Rana, Désirée Rizzo e Alice Lippolis. La prima sessione di interventi è dedicata alla presentazione del progetto Erasmus+giovani omonimo inserito in questo convegno.
Tutta mia la città — il cui obiettivo è la ridefinizione dei luoghi abituali in ottica di genere, così da trasformare la semplice utenza dello spazio pubblico in una consapevole forma di cittadinanza — si articola in tre azioni chiave: la mobilità individuale, la cooperazione tra organizzazione e istituzioni, e il sostegno alla definizione delle politiche e della cooperazione con riguardo alla possibilità di organizzare e finanziare progetti in cui la gioventù diventi protagonista attiva nella promozione di una partecipazione democratica alla società, sia essa locale, nazionale e/o internazionale. Il fine principale si smembra in quattro micro-obiettivi: colmare il divario di genere nell’odonomastica, diventare agenti attive di cambiamento, aiutare le giovani generazioni a riscoprire le figure femminili presenti nella toponomastica e incoraggiarle verso scelte di vita libere da stereotipi limitanti.
Il progetto, che terminerà nel mese di ottobre del 2026, vede il coinvolgimento di una trentina di ragazze, impegnate in azioni concrete legate al linguaggio e agli itinerari di genere e in forme di interazione che permettano loro di fare gruppo, ovvero nazionalità. Il convegno, vista la presenza di tante ospiti internazionali, si qualifica quale ulteriore strumento per creare ponti linguistici e disseminare i principi e le finalità del progetto. Da questo punto di vista, e per prendere coscienza del gap presente nei nostri spazi pubblici in merito alle intitolazioni, sono particolarmente importanti gli itinerari di genere, il primo dei quali si è svolto il 26 di agosto durante la mobilità di Firenze.


Beatrice Ceccacci, a seguire, ha illustrato il progetto di esplorazione toponomastica di genere a cui lei e le sue colleghe hanno lavorato, andando alla ricerca all’interno del tessuto urbano capitolino delle tracce della presenza femminile. Le donne di cui si è deciso di raccontare la storia, scelte tra tutte per il ruolo che hanno avuto nella città di Roma, sono dieci: Cristina di Svezia, Artemisia Gentileschi, Beatrice Cenci, Plautilla Bricci, Olimpia Maidalchini, Giulietta Fana, Giorgiana Masi, Cristina di Belgioioso, Colomba Antonietti e Giuditta Tavani Arquati. L’itinerario costruito inizia a Piazza del Popolo e, attraversando Piazza Navona e Trastevere, termina alla Casa Internazionale delle Donne. L’appuntamento è fissato per il giorno successivo alle nove di mattina.


In conclusione, riassumendo questi due giorni culturalmente e moralmente intensi e produttivi, Flavia Barca, studiosa di economia della cultura e dei media, rilegge politicamente il convegno, focalizzando l’attenzione su due temi in particolare: le gerarchie di potere patriarcale e la fatica di produrre cambiamento. In riferimento al primo, Barca ne sottolinea il ruolo funzionale nel sistema di sviluppo capitalista, individuandone le esplicitazioni nell’emarginazione delle donne dai posti di loro competenza e nello svilimento delle figure femminili. Altri aspetti fondamentali sono quelli della risignificazione del corpo delle donne, dei simboli attraverso cui il potere si manifesta, ovvero la sua costruzione simbolica mediante il linguaggio e il controllo dell’immaginario che questa manifestazione comporta.
Noi stesse siamo abituate a muoverci in un sistema patriarcale. Da qui la difficoltà di produrre cambiamento; una complicazione dovuta spesso alla mancanza di metriche di riferimento alternative. In questo contesto, diventa allora necessario fare rete, lavorare sulla diversità e mettere in campo le politiche dello sguardo, recuperando quella pratica di autocoscienza ancora profondamente attuale e necessaria. Ripartendo da uno sguardo femminista sarà possibile imporre una diversa visione del mondo, fondata sulla costruzione di un potere nuovo, sulla cura come risorsa sociale, sul miglioramento della nostra qualità di vita e su città in cui le donne, finalmente, saranno viste.
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
