Attiviste per l’ambiente. Suor Majella McCarron, Anita Roddick e la Federation of Ogoni Women’s Association 

A trent’anni dall’uccisione di Ken Saro Wiwa, scrittore e poeta nigeriano, attivista per i diritti del popolo Ogoni, «una delle comunità vittime del “razzismo ambientale” delle compagnie petrolifere presenti nel Delta del Niger» (Martina Ferlisi, altreconomia.it, 6 novembre 2025), molto della sua storia e della sua battaglia resta ancora da scrivere e tanti sono gli aspetti specifici da approfondire. 

«Freedom can be quite expensive or cheap  
depending on how you look at it. 
To those who have freedom, it’s cheap; 
those of us who lack it, pay a lot to get just a bit». 
«La libertà può costare più o meno cara 
a seconda delle prospettive dalla quale la si guarda. 
Per coloro che sono liberi, è scontata; 
chi, come noi, ne è privo paga tanto per assicurarsene appena un po’»  
(Ken Saro Wiwa a suor Majella McCarron, 1° ottobre 1994). 

Impiccato il 10 novembre 1995, nel carcere di Port Harcourt, assieme ad altri otto imputati, accusato dell’omicidio di quattro uomini di spicco proprio della comunità Ogoni e condannato senza la possibilità di ricorrere in appello, Saro Wiwa aveva denunciato lo sfruttamento delle terre del Delta del Niger da parte delle multinazionali del petrolio le quali, con l’appoggio del governo e dell’esercito nigeriano, profanavano il suolo nazionale attraverso pratiche di estrazione del greggio poco rispettose dell’ambiente ed escludendo completamente le popolazioni locali dai profitti. Arrestato più volte e insignito, nell’aprile del 1995, mentre si trovava in detenzione, del Goldman Environmental Prize — riconoscimento annuale destinato a sei attivisti distintisi per la difesa dell’ambiente — Saro Wiwa era convinto del fatto che la non violenza fosse una questione etica e che, pertanto, la lotta ecologica e sociale dovesse astenersi da ogni forma di aggressività e sopruso; tra i fondatori del Movement for the Survival of the Ogoni People (Mosop), perseguiva la filosofia sociale dell’Erectism (autodeterminazione, democrazia, giustizia sociale, competitività e progresso sani); aveva internazionalizzato la lotta degli Ogoni portando la questione all’attenzione di organi e istituzioni che operavano a livello mondiale (Commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Comunità Europea, Greenpeace, Amnesty International, Segretariato del Commonwealth, Unrepresented Nations and Peoples Organisation), allo scopo di impedire che la loro vicenda fosse un giorno taciuta, soprattutto dopo la sua morte, e per accordare qualche speranza di vittoria a una minoranza che si misurava con poteri forti dentro e fuori la Nigeria. 

Protesta del MOSOP nell’Ogoniland. Archivio Ken Saro-Wiwa dell’Università di Maynooth

Riportare all’attenzione una storia come questa non è affatto semplice e, con tutta evidenza, a tratti imbarazzante, specialmente se si amplia l’orizzonte di indagine dal passato al presente e dalla comunità Ogoni a tutte le altre minoranze del Delta del Niger; ne verrebbe fuori un pesante atto d’accusa in cui, accanto ai nomi di Shell e Chevron, comparirebbe l’Eni, per esempio, che, per decenni, ha scaricato i suoi rifiuti non trattati nel canale di Brass, Stato di Bayelsa, sempre nel Delta del Niger. Tuttavia, un’investigazione ad ampio spettro permetterebbe di rivelare anche aspetti più confortanti come quello relativo al convinto coinvolgimento e sostegno delle donne alla lotta per i diritti degli Ogoni e contro l’inquinamento ambientale. Biografie completamente inedite, aspetti sconosciuti di vite sotto gli occhi dei riflettori per altre ragioni e declinazione al femminile della lotta del Mosop, vengono fuori, infatti, analizzando gli scritti di Saro Wiwa che riuscì a conciliare costantemente la sua esistenza di attivista con quella di intellettuale. In particolare, sono i suoi ultimi scritti, pubblicati per la prima volta nel 2013 con il titolo Silence would be treason. Last writings of Ken Saro–Wiwa, a essere interessanti e utili a riguardo. Il volume contiene, fra le altre cose, un corpus di ventotto lettere (due recanti la stessa data, 29 ottobre 1994, e una non datata), scritte fra il 20 ottobre 1993 e il 14 settembre 1995, tutte indirizzate, dall’attivista nigeriano, alla stessa interlocutrice: suor Majella McCarron.  

Silence would be treason. Last writings of Ken Saro
–Wiwa

Destinataria anche di una poesia, pubblicata all’interno dello stesso libro, dal titolo For Sr. Majella McCarron, Majella era nata nel 1939, a Derrylin, nella storica contea irlandese di Fermanagh. Prima di cinque figli di un esattore e negoziante, cresciuta in un momento storico in cui ferveva l’attività missionaria, ad appena dodici anni, aveva risposto a un annuncio di suore e si era trasferita, dapprima, nella contea di Down, dove trascorse il suo periodo di juniorato, presso l’ordine delle suore missionarie Our Lady of Apostles, e, più tardi, al convento di Ardfoyle. Conseguita la laurea in Scienze, presso la University College di Cork, visse per molti anni in Nigeria dove lavorò come docente negli istituti di istruzione superiore e poi all’Università di Lagos. Incaricata nel 1990, dall’ordine missionario al quale apparteneva, di indagare, per conto dell’Africa-Europe Faith and Justice Network (Aefjn), sulle comunità indigene nigeriane vittime delle attività economiche estere, aveva incontrato Ken Saro Wiwa, proprio nell’anno in cui questi aveva intensificato la sua lotta in difesa dei diritti degli Ogoni. A marzo di quell’anno, infatti, sarebbe stato dato alle stampe uno dei suoi libri più significativi, On a Darkling Plain, in cui denunciava i due problemi principali che, a suo avviso, affliggevano il Paese africano: la questione etnica e quella della gestione del petrolio; alla fine di agosto dello stesso anno, veniva approvata, poi, per acclamazione la Carta dei diritti degli Ogoni, in cui si denunciavano, oltre agli episodi di colonialismo interno, le responsabilità del governo nigeriano per i mancati controlli sulle pratiche di estrazione del greggio da parte delle multinazionali estere e la completa esclusione dai profitti delle popolazioni locali. Ancora, nell’ottobre di quell’anno, Saro Wiwa si sarebbe recato negli Stati Uniti dove alcuni ambientalisti di Denver avrebbero contribuito a fargli maturare una consapevolezza sempre maggiore della necessità di organizzare il popolo Ogoni nella lotta per la difesa dell’ambiente; a dicembre, invece, Saro Wiwa avrebbe tenuto, durante l’annuale pranzo al Kagote Club, uno dei suoi discorsi più significativi in cui ribadiva la responsabilità del colonialismo britannico circa gli squilibri economici e sociali che affliggevano la Nigeria. Suor Majella McCarron divenne una delle più strette e fidate collaboratrici di Saro Wiwa contribuendo, soprattutto, all’organizzazione della formazione della leadership all’interno del Mosop, basata sul metodo psicosociale dell’educatore brasiliano per adulti, Paulo Freire. Autore di L’educazione come pratica di libertà (1967) e La pedagogia degli oppressi (1968), Freire teorizzava un modello educativo rivolto alle persone adulte, basato sul dialogo, il cui scopo era l’emancipazione degli individui e la trasformazione della società. Non sorprende, dunque, che l’espressione, ricorrente nell’epistolario, «teach [the Ogoni] to operate/to work from underground» («insegnare agli Ogoni forme di attivismo dal basso») compaia, già a partire dalla terza lettera che Saro Wiwa scriveva alla sua interlocutrice, invitata fin da subito a mettere i suoi pensieri su carta perché la storia degli Ogoni doveva essere raccontata: lo scopo ultimo dell’azione militante di Saro Wiwa e di McCarron non era tanto quello di portare avanti la causa degli Ogoni quanto quella di insegnare loro a sottrarsi autonomamente a una condizione di emarginazione operando «from underground» ossia attraverso azioni lontane dalla lotta resistenziale tout court e, invece, in sintonia con i principi pedagogici di umiltà, empatia, amore, speranza e dialogo propugnati dal modello educativo Freire.  

Berretto e bandiera MOSOP. Archivio Ken Saro-Wiwa dell’Università di Maynooth

Majella McCarron, alla quale Saro Wiwa si rivolge nell’incipit di quasi tutte le missive con l’espressione «Dear Sr. Majella», diventava anche la compagna di lotta con la quale Saro Wiwa condivideva preoccupazioni e stati d’animo soprattutto durante i giorni di detenzione dell’attivista nigeriano. Saro Wiwa le confidava la sua grande fede in Dio, la sua convinzione che, quella per la quale stavano battendo, era una causa giusta e, in molte circostanze, la sua pace interiore («Sono di buon umore», lettera senza data e 19 ottobre 1994; «Sono in pace con me stesso», lettera 29 ottobre 1994). Anche nei momenti di maggiore sconforto e frustrazione, quando era in attesa di giudizio e temeva per la sua esistenza, la sua attenzione era rivolta alla causa degli Ogoni e forte era il suo rammarico per non aver insegnato loro abbastanza nella lotta all’emancipazione. Persuaso di aver beneficiato di una vita sufficientemente appagante, esternava a McCarron il suo convincimento per cui non si aspettava nulla dal sistema giudiziario nigeriano mentre solo la “coscienza dell’Occidente” avrebbe potuto salvare davvero gli Ogoni. E suor Majella incarnava proprio quella coscienza ancora “sana” dell’Occidente a cui faceva appello lo scrittore nigeriano il quale riponeva in donne e uomini come lei la speranza di un esito positivo della sua lotta. Pur non disponendo delle risposte della missionaria irlandese all’attivista nigeriano, dai testi a disposizione si evince chiaramente che Majella, proprio nell’agosto del 1994, quando decideva di ritornare in Irlanda, presso il cui Parlamento la questione degli Ogoni sarebbe stata discussa (lettera del 24 ottobre 1994), aveva inviato a Saro Wiwa anche una somma di denaro a sostegno della causa (lettera del 15 agosto 1994). 
L’epistolario con la suora di Derrylin, alla quale ribadiva con fermezza la sua innocenza rispetto all’omicidio dei quattro Ogoni prominenti e avanzava la certezza di un complotto ordito contro di lui, è conservato oggi presso la Maynooth University Library, in Irlanda, e permette di rintracciare anche altre interlocutrici di Saro Wiwa, per niente anonime al grande pubblico. A tal riguardo, nella lettera che indirizza a Majella, il 19 giugno 1995, tra le altre cose, Saro Wiwa ringraziava personalità internazionali che avevano sposato la causa degli Ogoni impedendo in tal modo qualsiasi possibile tentativo di insabbiamento della questione; fra i nomi citati, spunta quello di Anita Roddick. 

All’anagrafe Anita Lucia Perilli, Anita Roddick, nata in un rifugio antiaereo a Littlehampton, nel Sussex, il 23 ottobre 1942, era figlia di Gilda Di Vito, originaria di Atina, cittadina in provincia di Frosinone, e del ristoratore Donato Perella, entrambi italiani ebrei emigrati in Inghilterra. Il suo padre biologico era il cugino di Donato, Henry Perilli, proprietario di un bar di gelati e bibite. Considerata più tardi «un faro per l’ambientalismo planetario» secondo le parole di Tony Jupiter, direttore di Friends of the Earth, dopo essersi dedicata per un periodo all’insegnamento dell’Inglese e della Storia al Newton Park College of Education di Bath e alla scuola Maude Allen, nel 1976, decise di aprire, nella località balneare di Brighton, il suo primo The Body Shop, un negozio per “il corpo”, con insegna, arredo e confezione dei prodotti dai colori sgargianti. Avendo viaggiato, oltre che in Europa, nelle terre del Pacifico Meridionale e dell’Africa, aveva scoperto culture di altri mondi e aveva maturato idee alternative della cura del corpo e della salute. Il Body Shop di Roddick, che presto diventò un brand, contrariamente a tutti i grandi saloni di bellezza dell’epoca, offriva in vendita prodotti fatti con ingredienti naturali provenienti da tutto il mondo, venduti in confezioni semplici e ricaricabili (vasetti da riempire al momento e da riutilizzare), che ambivano a essere «fonte di gioia, conforto e autostima» per le donne (Anita Roddick inwww.unadonnalgiorno.it, 23 ottobre 2024) piuttosto che ingannevoli antidoti contro l’invecchiamento o miracolose misture per rapidi dimagramenti. Oltre alla possibilità di creare fragranze al momento, alle clienti veniva offerta, attraverso dei volantini presenti nel negozio, l’opportunità di informarsi sugli ingredienti dei cosmetici, tutti naturali, e la certezza di non fare uso di prodotti testati su animali. Fu quest’ultima la più rivoluzionaria delle scelte dell’imprenditrice di origini italiane che, ben presto, si distinse anche per essere una tra le prime donne dell’industria a promuovere il commercio equo e solidale con i Paesi del mondo in via di sviluppo. In prima linea per questioni ambientali e sociali, coinvolta attivamente nelle battaglie di Greenpeace e di The Big Issue, filantropa e autrice del libro Take It Personally, in cui denunciava lo sfruttamento dei lavoratori e dei bambini nei paesi sottosviluppati, insignita del titolo di Dama dalla Corona britannica, Anita Roddick è celebrata in quotidiani, riviste di settore e siti internet ma poco e, nella maggior parte dei casi, nulla si dice del suo impegno per la causa degli Ogoni. Eppure, citata ancora nell’ultima lettera del carteggio con suor Majella (lettera del 14 settembre 1995), il suo impegno in favore degli Ogoni veniva accolto da Saro Wiwa come «una grande benedizione» ed era tale da suscitare l’irritazione dell’Alto Commissariato della Nigeria a Londra. E solo qualche mese prima di questa lettera, il 20 giugno dello stesso anno, Saro Wiwa le dedicava una poesia dal titolo For Anita Roddick, per l’appunto, le cui parole valgono molto di più di qualsiasi prestigioso riconoscimento: «Se avessi una voce / canterei la tua canzone / se avessi la parola / tesserei le tue lodi /… ma qui, imbavagliato e in catene /… e in attesa della morte / posso solo chiedermi / come tu sia riuscita a infondere vita / all’idea per cui noi diamo / senso all’essere / solo quando condividiamo e ci prendiamo cura degli altri» (For Anita Roddick, 20 giugno 1995). 
Nella lettera scritta il giorno prima di questa poesia, quella già citata del 19 giugno 1995, in cui compare per la prima volta nell’epistolario il nome di Roddick, si legge anche il rammarico di Saro Wiwa circa il coinvolgimento ancora poco significativo degli uomini Ogoni nella lotta, mentre traspare tutto l’entusiasmo per il contributo generoso alla causa da parte delle donne Ogoni che hanno accettato la sfida; in quei giorni, donne Ogoni provenienti da quaranta villaggi diversi si erano riunite in appuntamenti settimanali sotto la supervisione della madre di Saro Wiwa, la quale, per sfuggire alle attenzioni dell’esercito nigeriano, aveva operato, con le altre donne, sotto la bandiera delle National Council of Women’s Societies (Ncws), organizzazione nigeriana, fondata nel 1958, che riuniva tutte le associazioni femminili dello Stato e che si batteva per la parità di genere, per la giustizia sociale e uno sviluppo nazionale inclusivo. Ma gli elogi alla capacità di lotta e resistenza da parte delle donne Ogoni sono rintracciabili già in alcune missive precedenti e restituiscono l’importanza che queste ebbero nella battaglia per i diritti della minoranza etnica nigeriana, vittime delle multinazionali del petrolio e di governo ed esercito nazionali, conniventi con le imprese estere per mere ragioni di potere.
In una delle lettere più lunghe, datata 29 ottobre 1994, dove Saro Wiwa esponeva alla suora irlandese tutta la rete di contatti e il materiale predisposto per conferenza a Stoccolma il 9 dicembre successivo, si fa riferimento, proprio nelle prime battute della missiva, alla Federation of Ogoni Women’s Association (Fowa) il cui attivismo era documentato in un film che sarebbe stato auspicabile fosse stato aggiunto a tutto il materiale documentario da portare nella capitale svedese; e della stessa organizzazione si torna a parlare il 15 gennaio 1995, quando si celebrava il «ruolo davvero impressionante» che le donne Ogoni avevano avuto in alcune manifestazioni di protesta: quindici di esse erano finite, per questo, nel campo militare di Kpor. «La resilienza delle donne Ogoni è degna di ammirazione» scriveva Saro Wiwa che non mancava di elogiare sua madre, la quale continuava settimanalmente a ospitare in casa riunioni di donne Ogoni provenienti da quattordici villaggi limitrofi.  
E infine, sei giorni più tardi, mentre ringraziava l’amico e scrittore Wole Soyinka che aveva contribuito in maniera considerevole all’internazionalizzazione della causa degli Ogoni, mentre esternava la convinzione per cui era necessario “organizzare” questi ultimi affinché fossero i protagonisti della resistenza e ci si adoperasse per mantenere alto il loro morale, quasi come un applauso a scena aperta a teatro, commentando il coraggio degli attivisti di fronte alle azioni  dell’International Security Force, un corpo militare illegale, dai poteri, dunque, senza confini precisi, Saro Wiwa scriveva: «As usual, the women have been wonderful» («Come al solito, le donne sono state fantastiche»). 

As usual

[traduzioni nel testo a cura dell’autrice]. 

Per saperne di più: 

In copertina: Anita Roddick. 

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Articolo di Sara Carbone

Laureata in Storia, è docente di Discipline letterarie. Traduttrice e mediatrice linguistica, è Consigliera dell’Associazione di Storia Contemporanea di Senigallia e componente del Centro studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo di Napoli. Collabora a diverse riviste, quali Il materiale contemporaneo; è autrice di saggi sul fenomeno migratorio.

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