Per la rassegna lodigiana I Venerdì dell’Arte, si è svolto il 7 novembre 2025 l’atteso evento della scrittrice Rossella Marangoni, per la presentazione del suo nuovo libro Yamanba – Donne ribelli del Giappone, in dialogo con Danila Baldo. L’incontro, cui hanno collaborato Toponomastica femminile e il Libraccio, si sarebbe dovuto svolgere il 3 ottobre, ma era stato rimandato a causa degli scioperi svolti in seguito all’attacco alla Sumud Flotilla.

Rossella Marangoni era già stata intervistata da Gian Maria di Silvestro per Vitamine vaganti, all’uscita del suo precedente libro Onibaba – Il mostruoso femminile (intervista che potete trovare qui: https://vitaminevaganti.com/2023/10/28/il-mostruoso-femminile-nellimmaginario-giapponese/). L’autrice è stata per anni libraia in una università di Milano, mentre studiava. Ha poi conseguito la laurea in Lingua e cultura giapponese. È stata tra le prime a far conoscere miti, letteratura e società giapponese fuori dal percorso accademico, presso biblioteche e associazioni culturali, con le quali collabora tutt’oggi. È membro dell’Aistugia (Associazione italiana per gli studi giapponesi) fondata da Fosco Maraini. Per 30 anni si è dedicata alla ricerca e alla divulgazione della cultura giapponese, pubblicando diversi saggi, ognuno con sfumature e argomentazioni diverse l’una dall’altra.

La prima domanda del dialogo indaga l’origine dell’interesse dell’autrice per la realtà giapponese, un mondo così lontano — forse solo apparentemente? — dal nostro.
Cosa ti ha spinta a occuparti per così tanti anni del Giappone? Lo hai mai visitato?
La prima frequentazione del Giappone come luogo fisico è stata nel 1998, quindi in un periodo relativamente recente. Certo era un Giappone non ancora soffocato dal turismo e dalla moda. Ma la mia storia con il Giappone nasce nell’infanzia, come succede per molte passioni. Da bambina ero molto appassionata di lettura. Quando in prima media mi sono ammalata di scarlattina, mia mamma mi regalò un libro bellissimo di fiabe giapponesi, che ho ancora: è molto grande e splendidamente illustrato. Sarà stato per la malattia o perché vedevo per la prima volta delle immagini estremamente suggestive: quelle fiabe mi hanno colpito, tanto che le ho praticamente imparate a memoria. Tuttavia, poi sono andata avanti con i miei studi, e sembrava quasi che avessi dimenticato questo tema, ma in realtà, come spesso succede, qualcosa che ti ha colpito durante l’infanzia diventa un seme che poi sbuca dalla terra e germoglia. Durante una vacanza prima dell’esame di maturità, io e delle compagne di scuola con cui ero in vacanza, ci siamo fermate in un paesino nel Friuli. Una libreria aveva un romanzo di un autore giapponese, che ho comprato sia per curiosità, sia perché ho sempre letto moltissimo. Da lì non ho più smesso di leggere autori e autrici giapponesi. Tuttavia, negli anni Ottanta, le traduzioni dal giapponese erano molto rare, poiché si trattava di un campo totalmente sconosciuto; chi amava la letteratura giapponese doveva “rincorrere” le traduzioni, che erano pochissime e centellinate dagli editori. Le poche opere tradotte non erano gli antichi classici della letteratura, ma quelli del XX secolo di autori come Tanizaki Jun’ichirō, Kawabata Yasunari, Mishima Yukio, Akutagawa Ryūnosuke e pochi altri. Adesso, anche se il Giappone va tantissimo di moda, i grandi maestri rimangono perlopiù ignorati, eppure ne esistono tante di maestre e maestri di nicchia da far conoscere. Invece, la maggior parte dei libri in giapponese, che vengono tradotti attualmente, fa parte di una, per così dire, “letteratura consolatoria”: quella dei caffè dove si realizzano i sogni, il ristorante dove ritrovi il ricordo della nonna, cose simili. Forse è pure un periodo in cui abbiamo “bisogno di consolazione”, come diceva Dagerman. Tuttavia rischiano di costituire altri stereotipi verso il Giappone.
Al contrario, con il libro Yamanba, cerchi di rompere lo stereotipo, soprattutto quello della donna giapponese cui noi europei siamo troppo abituati. I libri che scrivi possono essere d’impatto proprio per questo motivo, perché fanno “saltare” i luoghi comuni e scardinano molti stereotipi. Ci potresti illustrare chi è Yamanba?
Yamanba (山姥, anche Yamauba) è un personaggio importante nelle narrazioni folcloriche giapponesi, è una “demonessa”, anche se potremmo definirla usando il termine “strega”, ma preferisco non usare un termine nostro. Ci sono dei termini che io non uso mai nel mio campo di studi, per esempio i termini “oriente” e “occidente”, perché penso sia una questione di prospettiva. Per quanto riguarda il termine “strega”, non lo amo molto perché, nel nostro immaginario, è una figura che può far parte di un determinato campo religioso, che non è quello asiatico. Preferisco usare la definizione letterale di yamanba, ovvero “donna anziana della montagna”, che è presente non solo nei racconti del folclore, ma anche nelle fiabe giapponesi e nei racconti medievali. Questa “donna anziana della montagna” è un essere antropofago, con delle connotazioni femminili, appunto di una donna vecchia e decrepita, nuda, che viene rappresentata con solo un gonnellino di foglie. Ha i seni penduli, la pelle attaccata allo scheletro ben visibile e le fauci rosse con i canini, tipiche dell’essere un’antropofaga. Ha delle dita lunghissime e adunche, con delle unghie alle mani e ai piedi terribili, per afferrare le prede; i capelli sono dei rovi innevati, scompigliati e ricoperti di brina. È così che viene rappresentata in diverse illustrazioni.

Lei appartiene alla montagna e vive nei suoi recessi, nelle caverne, al limite della civiltà, tra cultura e natura. Quando qualcuno capita nella sua area e lei è affamata, lo ghermisce e lo mangia, in genere preferisce cibarsi di neonati. La yamanba è una figura terribile, ma come tutte le figure mostruose femminili, è stata creata da uomini. È la visione maschile che passa sempre, perché erano questi ultimi, i letterati della corte imperiale soprattutto, che trascrivevano i racconti del folclore. Di questo argomento ho parlato in Onibaba – il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese: in questo libro, mi riferivo esclusivamente alla creazione del mostruoso femminile, nell’immaginario maschile giapponese. In Yamanba, invece, le donne a un certo punto si sono ribellate e hanno detto: «Siamo noi a definirci e siamo noi a usare il termine Yamanba, capovolgendolo».
Quali altre caratteristiche ha yamanba e perché è così intrigante?
È intrigante perché non è “semplicemente” un mostro cattivo e sconsiderato, incapace di ragionare. Infatti, grazie ai suoi poteri sovrannaturali, nel momento in cui vede o “sente” che una donna è in difficoltà, arriva in suo soccorso per alleviare il suo lavoro, per esempio aiutandola con il telaio. Pertanto non è una creatura totalmente malvagia, ha una duplice valenza che a un certo punto della storia del Giappone, è stata usata dalle donne. Yamanba, nel corso dei secoli, è pure una figura che è stata trasformata poeticamente. Per esempio, nel teatro classico nō (能, per intenderci, quello con gli abiti sontuosi e le maschere) in una bellissima opera del drammaturgo Zeami Motokiyo (1363 circa–1443 circa), che si intitola appunto Yamanba, questa “donna” diventa una figura archetipica, arcana, ma profondamente intrisa di sensibilità femminile, legata all’ansia sia della liberazione, sia dell’allontanarsi da un mondo che opprime le donne. La yamanba diventa una figura di liberazione. Molti secoli dopo, negli anni Sessanta del XX secolo, sempre più scrittrici l’hanno utilizzata come una figura rappresentativa del desiderio di libertà, facendone la propria portavoce e vessillo da usare durante le manifestazioni, nei racconti e nei romanzi, per rappresentare il desiderio di trasformarsi, di uscire dallo stereotipo o meglio, di uscire dal modello che nel corso dei secoli ha sempre più gravato sulle donne giapponesi. La loro oppressione si è instaurata solo nei secoli più “vicini” a noi, perché se si guarda bene la storia di questo Paese, anche attraverso la sua mitologia, possiamo constatare che la donna nei primi secoli aveva un ruolo estremamente rilevante, che purtroppo perde man mano. Per esempio, a differenza di altre società arcaiche, nel pantheon shintoista nella società giapponese, la divinità del sole era una donna, perché è il sole che dà la vita, ed era la dea principale e più potente.
Il libro ha davvero molti riferimenti alla mitologia, alla letteratura, alla storia, oltre che alla realtà. Per quanto riguarda la mitologia, alla divinità shintoista del sole sopra citata, è legato un termine che ci ha molto incuriosito, fra quelli presenti nel libro: Chinkonsai.
La Chinkonsai (鎮魂祭), è una danza shamanica che veniva utilizzata nello shintoismo, per esempio in inverno, per dare energia e rivitalizzare lo spirito, anche dell’imperatore, e per auspicare l’arrivo della primavera. Questa danza ricorda quella della dea Ame-no-Uzume, ed è alla base della nascita del teatro giapponese, poiché considerata la prima performance mai eseguita. Nel racconto mitico che si intitola Kojiki (古事記, tradotto in italiano da Paolo Villani), la dea del sole Amaterasu Ōmikami (天照大御神) viene indispettita dalle azioni terribili del fratello Susanoo-no-Mikoto (須佐之男命), dio della tempesta, che vorrebbe avere l’egemonia al posto suo. La dea esasperata si rinchiude in una caverna, facendo precipitare l’universo nel buio totale. È un racconto mitico ovviamente, ha dei parametri diversi dal nostro, ciò che accade è da considerarsi una tragedia. Il consesso degli dei decide allora che bisogna far uscire Amaterasu dalla caverna. Dopo vari tentativi, riesce nell’intento la dea della gioia e della danza, Ame-no-Uzume-no-Mikoto (天宇受売). Personaggio interessante, ma molto spregiudicato, la dea fa appendere fuori dalla caverna un enorme specchio (elemento anacronistico, ma ci ricorda che è un racconto mitico), rovescia delle botti e vi salta sopra, appende dei pendagli e delle foglie attorno alla caverna, si denuda e inizia a danzare battendo anche i piedi, come se suonasse un tamburo. Questa danza era la prima chinkonsai, causa agli dei una fragorosa risata che rimbomba in tutto l’universo, giunge sino alla caverna della dea del sole. Amaterasu li sente e si chiede perché non si stiano disperando per la sua assenza. Incuriosita, sbircia facendo uscire la testa dalla caverna, e vede la sua immagine riflessa nello specchio. Mentre guarda il suo riflesso, un dio nerboruto la tira fuori dalla caverna e nel mondo ritorna la tranquillità, la pace e la luce del sole, quindi la vita. La danza di Ame-no-Uzume è fondamentale per il teatro giapponese e mostra che l’ostentazione del sesso femminile porta a rigenerazione, come succede anche nella mitologia greca. A questo proposito, mi viene in mente pure Igarashi Megumi (五十嵐恵), artista giapponese contemporanea, che ha “osato” fare delle opere rappresentanti il sesso femminile e per questo ha subito diversi processi in Giappone, anche se proprio in questo Paese ci sono delle feste in cui viene ostentato il sesso maschile, ma questo viene considerato normale. Ciò sottolinea l’assurdo doppio standard che abbiamo anche noi, basti pensare alle varie sculture del David in confronto a quelle di Venere.
Nel libro ci sono quindi molti personaggi, temi e termini che si collegano al concetto di yamanba, alla condizione della donna in Giappone e ognuno di questi costituisce un momento della storia, un capitolo. Yamanba è anche la “donna della luna” e compare inoltre il tema del sentiero, con il termine Onnazaka. Cosa si intende con questa parola?
Onnazaka (女坂, letteralmente la “pendenza delle donne”) è innanzitutto il titolo di un bellissimo romanzo di Enchi Fumiko (円地 文子, 1905-1986), una scrittrice che amo moltissimo, in cui racconta una vicenda matrimoniale molto intrigante, che racconto anche nel mio libro. Il termine usato si riferisce a un sentiero di accesso secondario ai santuari shintoisti, tradizionalmente riservato alle donne. Molti templi shintoisti sono situati alle pendici delle montagne o delle colline. Esistono due sentieri per arrivarci: uno più diretto ma più alto, più faticoso in cui a volte ci si deve quasi arrampicare, con delle scale molto ripide, e un altro meno difficile, nascosto in mezzo agli alberi e che permette un’ascesa molto più tranquilla. Nell’opera Onnazaka, il sentiero nascosto diventa metafora della condizione della donna nella famiglia tradizionale, quindi non solo ciò che occulta le donne, ma ciò che a esse è imposto come dovere: stare indietro, lontano, oppure di lato, con un compito ancillare. Ecco perché nei romanzi di Enchi Fumiko le protagoniste assimilano queste cose loro imposte, come anche il silenzio, la loro remissione, e si riempiono di una tale rabbia che poi, quando esplodono, commettono delle vendette incredibili.
Nel libro è presente anche il Monogatari, che ci ha incuriosito molto.
Il monogatari (物語) è “il racconto lungo”, è importante: il capolavoro della letteratura giapponese infatti è il Genji monogatari (源氏物語 letteralmente “il racconto di Genji”) ed è stato scritto da una donna, in un certo senso la nostra “Dante Alighieri”, ovvero dama Murasaki Shikibu (紫式部, 973 circa–1014 circa? 1025?). Questo è considerato il primo romanzo psicologico della storia e della letteratura mondiale, di cui sono protagonisti circa 450 personaggi, è composto da 54 capitoli ed è lungo più di mille pagine scritte attorno all’anno 1000. Mentre di Dante Alighieri sappiamo pressoché tutto, di Murasaki Shikibu non sappiamo nulla, nonostante abbiamo il suo diario e il suo romanzo sia un capolavoro assoluto. Sappiamo solo che Murasaki (紫) non è il suo vero nome, ma è quello di una delle protagoniste del suo romanzo; Shikibu (式 部) non è un cognome, ma il ruolo del padre alla corte imperiale. Di lei non abbiamo neanche il nome e il cognome corretti, solo poche date.
Anche un’altra figura ha attirato la nostra attenzione: Okuni.
In Giappone, le forme del teatro classico giapponese sono il nō e il kabuki. Il kabuki (歌舞伎) è un teatro d’attore. Uso proprio il termine “attore” per un motivo: infatti le scene sono calcate solo da uomini. Tuttavia questa forma di teatro, fondato poco prima del 1600, è stato fondato da Okuni no Izumo (出雲の阿国, 1572?–1613), una donna, una sacerdotessa che, per raccogliere fondi per il tempio cui apparteneva, decise di farlo in maniera tutta nuova, danzando e cantando, cosa cui prima nessuno aveva mai pensato. Si esibiva insieme ai mendicanti sulle rive del fiume Kamo, a Kyoto, creando degli spettacoli. Questa forma primitiva si è poi trasformata nel kabuki che conosciamo. Tuttavia, attorno al 1640 è stato proibito proprio alle donne di calcare le scene. Il kabuki è una delle classiche forme teatrali con recitazioni, danze, musiche, canti, macchine sceniche, in sintesi è qualcosa di veramente incredibile da vedere, ma i ruoli femminili sono tutti interpretati solo rigorosamente da uomini adulti, per una legge del 1629. Gli uomini che interpretano i ruoli femminili sono chiamati onnagata (女形 letteralmente “a forma di donna”), una sublimazione della donna, che a volte si considerano più donne delle donne, perché loro sono l’“essenza” della femminilità.
Ci sono molte altre storie esemplari di donne in questo libro, al di là della letteratura o del mito. Per esempio, quella della principessa che amava gli insetti.
La principessa che amava gli insetti è un racconto di fantasia, scritto attorno all’anno 1000, molto probabilmente da una donna. È la storia di una principessa che, a differenza delle altre sovrane e dame di corte, è un personaggio ribelle ante-litteram alle convenzioni, perché ama studiare gli insetti e tende a trascurare il suo aspetto fisico, per esempio non si depila le sopracciglia o non si pettina i capelli e li tiene un po’ ribelli, cosa che ovviamente era inaccettabile. Lei ha una mentalità quasi da scienziata: anziché avere storie d’amore, dedica il suo tempo a studiare gli insetti, a cercarli nel prato, facendosi aiutare dai servitori per catturarli, per poi analizzarli. È un racconto molto interessante perché dice pure quello che era imposto alle dame dell’epoca.
Parlando di ragazze che studiano, non possiamo dimenticare le studiose che hanno avuto la possibilità di avere un’istruzione superiore, quando il Giappone alla fine del XIX secolo ha riaperto i porti. Le donne giapponesi hanno approfittato di questa nuova possibilità, studiando tanto. Tuttavia, il governo Meiji (1868-1912) iniziò a pensare che le donne stessero studiando troppo. Attraverso la stampa, la figura della studentessa è stata quindi delegittimata in tutti i modi, perché la ragazza che studia iniziava a essere ritenuta pericolosa, tutti erano preoccupati di questo desiderio di indipendenza delle donne. Le studenti sono state accusate delle peggiori nefandezze, per esempio di ricevere dei ragazzi nelle stanze dei pensionati, di rimanere sicuramente incinte. Le donne che studiavano sono state pure nominate daraku jogakusei (堕落 女学生), letteralmente le “studentesse degenerate”. Inoltre, venivano rimproverate perché si comportavano liberamente: andavano in bicicletta; si legavano i capelli, ma li tenevano scomposti; invece del kimono, indossavano gli hakama (indumento tradizionale che somiglia a una gonna-pantalone). Venivano anche pubblicate delle vignette contro di loro. Ricordo una in particolare in cui si vedono due stanze: una di un pensionato maschile, dove un ragazzo seduto davanti a uno specchio si pettina i boccoli; e una stanza di un pensionato femminile, dove la ragazza è seduta sui tatami, in una posizione che usavano solo i maschi, con un libro in mano e vari oggetti appesi tipici di sport maschili.
La delegittimazione delle donne è continuata, in un certo modo, anche oltre la fine degli anni Novanta, quando le ragazze che aderivano alle sottoculture giovanili a Tokyo, iniziavano a truccarsi da yamanba. Loro si definivano mamba, per dimostrare il loro desiderio di indipendenza, per dire che non volevano essere il modello di femminilità loro imposto dalla società. Ricordo che erano pure disposte ad accettare, in strada, gli insulti degli uomini e dei ragazzi. Le donne giapponesi hanno un potere straordinario di ribellione, però sono costrette costantemente a inventare nuovi modi per esprimerlo.
Rossella Marangoni, infine, ci ha detto che scriverà altri libri. Nei prossimi giorni consegnerà un saggio sul concetto di “niente sprechi”, molto importante nella cultura giapponese, ma esula da questi studi. Ha in programma anche di scrivere su un argomento, che vede come trilogia, sulle donne assassine in Giappone. «Le donne, in un certo periodo di tempo nella storia del paese, sono state accusate di essere sia mostruose che velenose, poiché avevano la capacità di uccidere con il veleno, anche se in realtà usavano altri tipi di armi, come i pugnali. In ogni caso, erano accusate di omicidi, quando invece — vogliamo indagarlo — si stavano difendendo da un’aggressione. È questo che voglio raccontare, come si difendevano le donne giapponesi, senza stare più in silenzio, senza stare più immobili».

In chiusura, una sintesi di questo straordinario libro è che yamanba è l’archetipo delle molte donne demonizzate e la cui libertà è stata percepita come minacciosa, e il racconto vuole portare alla luce gli indizi della ribellione delle donne giapponesi. L’opera si concentra sulle storie di coloro che, ridotte al silenzio per secoli, nel corso della storia del Giappone, non si sono sottomesse del tutto alla società, ma hanno dimostrato grande coraggio e resilienza, elaborando varie strategie per ritrovare la voce e farsi sentire. Yamanba sono coloro che hanno fatto del mostruoso un simbolo di rivolta. Alla fine del libro tutte vorremo esclamare: «yamanba per sempre».
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Articolo di Marianna Milano

Nata il 2 giugno a Milano, sta conseguendo la laurea in Lingue, Lettere e Culture comparate all’Università L’Orientale di Napoli. I suoi interessi sono soprattutto la letteratura orientale, l’arte in tutte le sue sfumature, tra cui fotografia, cinematografia e critica. Ha svolto volontariato presso le associazioni Viva Vittoria e La metà di niente.
