Geologia marziana. Leggere il pianeta rosso

Quando pensiamo a Marte, se non immaginiamo più un luogo abitato da omini verdi, l’immagine che ci viene in mente è quella di un deserto rossastro, pietre ovunque, qualche rover che raccoglie campioni e non molto altro. Dal punto di vista della geologia, però, Marte è un pianeta straordinario: un archivio di storia planetaria che sulla Terra è stato cancellato dalla tettonica a placche, dall’erosione e da miliardi di anni di riciclaggio crostale.

Marte. Vista globale di Marte che ne mostra la superficie rossastra, dovuta agli ossidi di ferro, le vaste pianure vulcaniche a nord e gli altopiani a sud.​ Kevin Gill

Grazie alle missioni orbitali della NASA e ai lavori cartografici dell’USGS, questo archivio è stato mappato, un gigantesco atlante geologico, con unità rocciose, età e grandi strutture di un pianeta che difficilmente potremo visitare, scarponi da trekking ai piedi e martello da geologo in mano, in un futuro prossimo. 

Dal punto di vista strutturale, Marte ha una crosta, un mantello e un nucleo, proprio come la Terra, ma in versione “ridotta” e decisamente meno dinamica. In superficie, il pianeta mostra una spettacolare dicotomia: a sud, altipiani antichi, altissimi e ricchi di crateri, a nord, una vasta distesa più bassa e relativamente liscia, dove le rocce sono più giovani e la superficie è stata rimodellata dal vulcanismo e dai sedimenti. Le misure gravimetriche e altimetriche indicano che la crosta meridionale può raggiungere spessori dell’ordine di una cinquantina di chilometri, mentre quella settentrionale è sensibilmente più sottile, segno di una storia geologica asimmetrica fin dalle prime fasi di formazione del pianeta. Nonostante qualche indizio di dinamiche antiche simili a quelle della tettonica a placche, la maggioranza degli studi suggerisce che Marte non abbia mai avuto un sistema di placche mobile come quello terrestre: le grandi province vulcaniche, come Tharsis e il vicino Olympus Mons, sembrano essere state alimentate da lunghissimi episodi di vulcanismo stazionario, più simili a un evento continuo che a un nastro trasportatore di placche in movimento.

La geocronologia marziana si articola in tre grandi periodi: Noachiano, Hesperiano e Amazzoniano, scanditi dal numero di crateri e dalle forme superficiali. Nel Noachiano, più di 3,7 miliardi di anni fa, la superficie era pesantemente bombardata da asteroidi e comete, ma, allo stesso tempo, solcata da reti di valli che indicano la presenza di acqua liquida in superficie o poco sotto, almeno in alcuni periodi e regioni. Nell’Hesperiano domina il vulcanismo: colate basaltiche estese coprono grandi aree e ridisegnano parti dei bassopiani settentrionali, mentre compaiono strutture compatibili con enormi inondazioni catastrofiche, un genere di idraulica che farebbe impallidire qualunque progetto di diga terrestre. L’Amazzoniano, il periodo più recente, è caratterizzato da un’attività vulcanica più localizzata e da processi per lo più freddi: vento, polveri, cicli di ghiaccio e degelo nelle alte latitudini, con il pianeta che lentamente si spegne dal punto di vista termico, “muore”, ma continuano ad esserci processi in superficie con formazione di dune, frane e ghiacciai di anidride carbonica e acqua.

Se questa è la “vista d’insieme”, l’angolo del pianeta che da qualche anno attira l’attenzione di geologi e astrobiologi è un cratere di 45 chilometri di diametro chiamato Jezero. Qui, nel febbraio 2021, è atterrato il rover Perseverance. Osservandolo da lontano, il margine occidentale del cratere sembrava mostrare un ventaglio di sedimenti a forma di delta, con un canale di ingresso e una serie di livelli stratificati, simili a quelli dei delta lacustri terrestri. Questa geometria, insieme alle firme mineralogiche di argille e carbonati rilevate dagli spettrometri orbitali, suggeriva che Jezero fosse stato, nel passato remoto, un lago alimentato da corsi d’acqua: un ambiente potenzialmente abitabile.

Il cartere Jezero ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia spaziale europea. ESA/Dlr/Fu Berlin
Il rover Perseverance​
Gli strumenti di Perseverance. NASA

Perseverance, una volta atterrato, ha rovinato questa ricostruzione suggestiva: le prime rocce campionate sul fondo del cratere non erano sedimenti di lago, ma rocce ignee, solidificate dal magma, ricche di olivina e pirosseni, probabilmente formate da colate basaltiche. Le immagini e i dati multispettrali di Mastcam-Z e degli altri strumenti a bordo, hanno mostrato che il fondo di Jezero è formato da unità di roccia massiccia, con fratture poligonali e venature riempite di minerali secondari, interpretate come il risultato di fluidi che hanno circolato in queste rocce dopo la loro formazione. Solo risalendo verso la “scarpata” del delta, il rover è entrato in contatto con veri sedimenti stratificati, in cui si passa da conglomerati con ciottoli e blocchi (depositi di correnti fluviali più energetiche) a sabbie e fanghi più fini, testimoni di un ambiente lacustre più tranquillo. Questa successione — basalto sul fondo, sedimenti sopra — racconta una storia a più atti: prima l’impatto che crea il cratere, poi una fase magmatica che riempie in parte la cavità, infine l’arrivo dell’acqua che scava valli e deposita il delta lacustre che oggi studiamo come se fossimo sulle rive di un antico Garda marziano.

Nei dintorni di Jezero. ESA

La missione non si limita ad ammirare i paesaggi: il rover sta prelevando carote di roccia, cilindri di pochi centimetri ma di enorme valore scientifico, che potrebbero un giorno essere riportati sulla Terra per analisi di laboratorio impossibili da eseguire in situ. Per scegliere cosa campionare, il team combina osservazioni “da geologo da campo” — foto ravvicinate, analisi tessiturali, lettura delle strutture sedimentarie — con dati chimici e mineralogici ottenuti da una batteria di strumenti: laser, raggi X e ultravioletti per leggere la composizione delle rocce e possibili tracce di materia organica. Dal punto di vista strettamente geologico, questi dati stanno ridefinendo la nostra comprensione della crosta primitiva di Marte: la presenza diffusa di rocce magmatiche differenziate e di associazioni di minerali ricchi in feldspati, olivina e pirosseni suggerisce che il pianeta, in gioventù, abbia sperimentato grandi episodi di fusione e cristallizzazione, con una storia termica più articolata di quanto si pensasse qualche decennio fa.
Mentre Perseverance spazzola rocce e misura sedimenti, un’altra missione, InSight, ha passato oltre quattro anni marziani in una pianura equatoriale, facendo una sola cosa: ascoltare il cuore del pianeta attraverso un sismometro ultra sensibile.

Il lander InSight

Le registrazioni dei “marsquake”, piccoli terremoti marziani, insieme all’analisi delle onde generate dagli impatti di meteoriti, hanno permesso di stimare le dimensioni del nucleo liquido di Marte — con un raggio di circa 1.830 chilometri — e di caratterizzare in modo più preciso lo spessore e la struttura della crosta e del mantello superiore. Analisi più recenti suggeriscono che all’interno del nucleo liquido possa esserci un nucleo interno solido, un po’ come quello terrestre ma più piccolo, e che il mantello non si comporti come un fluido omogeneo e ben rimescolato, bensì conservi “grumi” di materiale antico, forse i resti cristallizzati di antichi oceani di magma generati da giganteschi impatti nella primissima storia del pianeta. In altre parole, mentre la Terra tende a cancellare le sue cicatrici interne rimescolando lentamente il mantello, Marte sembra essere più conservatore: molte tracce delle sue origini violente sono ancora là sotto, coperte da qualche centinaio di chilometri di roccia.

Combinando le mappe geologiche globali costruite dai satelliti in orbita, con i dati raccolti sul campo da Perseverance e le radiografie sismiche di InSight, l’immagine che emerge è quella di un pianeta che si è formato rapidamente, ha separato crosta, mantello e nucleo nelle prime decine di milioni di anni, ha vissuto una giovinezza geologicamente turbolenta, fatta di grandi bacini d’impatto meteorico, vulcanismo effusivo e acqua che scorreva in superficie, e poi ha progressivamente rallentato fino a diventare il mondo freddo e secco che vediamo oggi. Proprio questa stasi geologica, fa si che Marte abbia conservato pagine di storia planetaria più leggibili che sulla Terra. È anche per questo che geologi, geofisici e astrobiologi passano le giornate a zoomare immagini polverose e a litigare sull’interpretazione di un ciottolo di qualche centimetro visto a milioni di chilometri di distanza: in quel ciottolo possono esserci informazioni sulla storia termica, idrologica e, forse, biologica di un intero pianeta.

Marte deve il suo nome al dio romano della guerra, associato fin dall’antichità al colore rosso del sangue e dei conflitti, perché il pianeta appariva come una stella rossastra particolarmente brillante nel cielo notturno. Oggi si sa che quel rosso deriva dall’abbondanza di minerali del ferro ossidati nelle rocce e nelle polveri superficiali, un rivestimento di ruggine planetaria che ha reso quasi inevitabile il soprannome di “Pianeta Rosso”. Questo legame simbolico tra colore, guerra e Marte è diventato talmente radicato nella cultura occidentale che ritorna in astrologia, letteratura e perfino nel nome del giorno della settimana, il nostro martedì.
Quando si parla di colonizzare Marte, si entra in un territorio in cui la geologia smette di essere solo storia e diventa anche progettazione. La presenza di ghiaccio d’acqua sotto la superficie, soprattutto alle alte latitudini, e di minerali contenenti ossigeno e ferro, rende possibile immaginare insediamenti che sfruttino le risorse in situ per produrre acqua potabile, aria respirabile e materiali da costruzione. Le ipotesi più concrete prevedono habitat pressurizzati costruiti sotto la superficie, o in cavità naturali, per usare le rocce come scudo contro radiazioni cosmiche e micrometeoriti, con serre protette in cui coltivare cibo sfruttando luce artificiale e riciclo spinto di acqua e nutrienti.

Il passo successivo, decisamente più ambizioso (e controverso), è il terraforming di Marte: l’idea di modificare deliberatamente il pianeta per renderlo più simile alla Terra. Tra le proposte più discusse ci sono il rilascio di gas serra nell’atmosfera per ispessirla e innalzare la temperatura, lo sfruttamento di ghiacci di anidride carbonica ai poli per potenziare l’effetto serra e, in versioni più fantascientifiche, l’uso di specchi in orbita per aumentare la radiazione solare incidente sulla superficie. Tuttavia, gli studi recenti suggeriscono che Marte non abbia abbastanza CO₂ immagazzinata da solo per ottenere temperature stabili sopra lo zero, quindi un terraforming completo richiederebbe tecnologie e quantità di energia ben oltre le capacità attuali, oltre a sollevare questioni etiche enormi su quanto sia lecito alterare un intero ecosistema planetario, anche se apparentemente privo di vita complessa.

Mappa topografica di Marte. USGS
La ricercatrice Teresa Fornaro. INAF

In questo scenario sospeso tra esplorazione scientifica e progetti di colonizzazione futuristici, e per adesso decisamente prematuri, le rocce marziane rimangono le protagoniste: raccontano la storia del pianeta, indicano dove cercare acqua e materie prime e definiscono i limiti fisici di ciò che si potrà davvero fare sul campo.
Ed è su queste rocce che lavora anche la collega dell’INAF Teresa Fornaro, giovane ricercatrice che ha vinto di recente il premio “Marisa Bellisario”. Fornaro, chimica, è stata selezionata dalla NASA per contribuire allo studio dei campioni e delle possibili tracce di materia organica, raccolte dal rover Perseverance nel cratere Jezero, trasformando ogni granello di regolite in un indizio sul passato, e forse, sul futuro abitabile del Pianeta Rosso.

In copertina: Teresa Fornaro a Pilbara (Australia). Sito considerato analogo marziano. Crediti: T. Fornaro.

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Articolo di Sabina Di Franco

Geologa, lavora nell’Istituto di Scienze Polari del CNR, dove si occupa di organizzazione della conoscenza, strumenti per la terminologia ambientale e supporto alla ricerca in Antartide. Da giovane voleva fare la cartografa e disegnare il mondo, poi è andata in un altro modo. Per passione fa parte del Circolo di cultura e scrittura autobiografica “Clara Sereni”, a Garbatella.

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