Irlanda 1992, una giovane donna si ritrova per caso in mezzo alle riprese su un set cinematografico e viene chiamata dalla regia a parteciparvi. Mentre la ragazza aiuta a spostare alcune attrezzature pesanti, le dicono: «Domani ti sveglierai tutta dolorante» a causa dello sforzo fisico che sta facendo. Si tratta però di un’affermazione che rimane volutamente ambigua e che serve a dare la chiave interpretativa per la scena successiva: in primo piano vediamo la ragazza scappare in lacrime e in evidente stato di shock, per cui è presumibile che il dolore le sia stato causato da qualcuno. Si apre così il film diretto dalla tedesca Maria Schrader nel 2022, basato sulla storia vera dell’inchiesta del 2017 sugli abusi sessuali commessi dal famoso produttore Harvey Weinstein, condannato a 23 anni di prigione. Grazie al duro lavoro di ricerca di prove e testimonianze, le giornaliste Jodi Kantor (Zoe Kazan) e Meghan Twohey (Carey Mulligan) portano alla luce sia lo schema predatorio e sistematico di Weinstein nei confronti di giovani attrici e impiegate, sia tutto il meccanismo di omertà all’interno della Miramax, la casa di produzione e distribuzione cinematografica fondata dallo stesso Weinstein.

La pellicola adotta un punto di vista femminile, evidente non solo nell’identità di genere delle protagoniste, ma anche nelle scelte registiche di Maria Schrader. Sia Jodi che Megan sono infatti rappresentate come donne in carriera che coltivano una loro dimensione familiare dove la divisione equa dei doveri tra i partner è tangibile per il pubblico. Numerosi sono i momenti in cui vediamo il marito di Jodi occuparsi di incombenze familiari e genitoriali. Lo stesso vale per il compagno di Megan, sempre presente nelle scene in cui i due si apprestano a diventare genitori, dalle prime ecografie al delicato momento della depressione post-partum della partner. Mostrandoci scene di vita quotidiana che apparentemente non sembrano rilevanti per l’avanzare della trama, il film ci offre un’interpretazione netta: le donne non hanno alcun bisogno di scegliere tra famiglia e lavoro.
Un’altra chiave di lettura è racchiusa nel concetto di cura. Al rientro di Megan dal congedo di maternità, l’editor Rebecca Corbett le chiede come sta in quanto donna, ancor prima che come madre, e si premura di domandarle se lavorare l’aiuterà davvero e, nell’eventualità, di quale caso preferirebbe occuparsi. Corbett evidenzia la stessa cura nei confronti delle colleghe in due momenti che vale la pena citare: nel primo, le esorta a lasciare l’ufficio e andare a casa perché si è fatto tardi e nel secondo, percependo la stanchezza delle proprie collaboratrici a notte inoltrata, le manda via, assumendosi la responsabilità di finire il lavoro di revisione dell’articolo su Weinstein. Assistiamo quindi alla rappresentazione di un contesto lavorativo diametralmente opposto a quello della Miramax, ovvero un luogo in cui i rapporti sono fondati su collaborazione, fiducia e stima reciproca. Dean Baquet, l’executive editor del New York Times, si mostra sempre entusiasta del lavoro giornalistico svolto dal suo team e, durante le fasi dell’inchiesta, non esita a mettersi in prima linea per difendere Jodi e Megan dalle accuse e dalle intimidazioni di Weinstein e dei suoi legali.
La cura, l’attenzione e la delicatezza vengono praticate anche dalle due giornaliste quando intervistano e dialogano con le sopravvissute: non le forzano, non le incalzano, non le costringono a rivelare la loro identità se non vogliono farlo, ascoltano con rispetto le storie di abuso e violenza. Per instaurare un rapporto di fiducia con le interlocutrici, Megan dice loro: «Non posso cambiare quello che ti è capitato in passato ma insieme potremo provare a utilizzare la tua esperienza per proteggere altre persone».
Un altro aspetto del film su cui fermarsi a riflettere è la rappresentazione della violenza. Non vi sono mai scene che hanno uno sguardo morboso rispetto agli abusi. Spettatori e spettatrici quindi vivono e ricostruiscono tali momenti attraverso i racconti delle vittime e, talvolta, attraverso le immagini di oggetti che richiamano quelle stesse violenze: le camere di hotel in cui si sono consumati i reati, una doccia in cui scorre l’acqua, un accappatoio sul letto, dei vestiti da donna per terra. D’effetto è la sequenza delle inquadrature che mostrano tantissimi corridoi di hotel, quasi a indicarci il numero, la serialità, la quantità di abusi consumati negli anni.
Nel film vengono rappresentati anche altri tipi di violenza, come quella verbale e dell’hate speech, messa in atto per esempio dal candidato Trump contro Megan, la quale sta indagando sugli scandali di abusi sessuali del futuro presidente. Apprezzabile è la reazione di Megan nei confronti dell’uomo che infastidisce lei, Jodi e Rebecca nel pub. Dopo aver declinato con gentilezza le sue attenzioni evidentemente indesiderate, Megan scoppia in un sonoro e scomposto “vaffanculo”. Questo perché il genere maschile spesso fatica a rendersi conto quando supera la linea rossa che separa la volontà di corteggiare da una molestia, e non capendolo con le buone, risulta quantomeno necessario aumentare l’intensità, anche se la reazione è al di sopra di ciò che è convenzionalmente ritenuto opportuno.
Ultimo ma non meno importante è il tema della reticenza. Il fil rouge che unisce tutte le testimonianze delle sopravvissute è la vergogna, il senso di colpa, la paura di parlare e l’ostracismo subito dalle donne che hanno provato a ribellarsi. Molte di loro sono state messe a tacere per aver accettato un non-disclosure agreement, un accordo che prevede un risarcimento economico in cambio del perpetuo silenzio sull’accaduto. Quello che emerge è però una vera e propria forma di bullismo legale in quanto gli avvocati delle parti lese hanno diritto a una percentuale del 40% sulla transazione. Si capisce dunque il motivo per cui costoro manifestano tutto l’interesse di concludere un accordo tra la parte lesa e l’autore del reato, evitando un processo.
Lo scambio che avviene tra il contabile dei Weinstein, Irwin Reiter, e Jodi ci offre un’ulteriore chiave interpretativa, sottile quanto destabilizzante. Dal dialogo si capisce che entrambi hanno dei parenti sopravvissuti al dramma dell’Olocausto ma né la nonna di Jodi né i genitori di Irwin ne hanno quasi mai parlato in famiglia. Jodi afferma che rimane un mistero il motivo per il quale alcune famiglie scelgono di parlare e altre no. Tale conversazione, breve ma densa di significato, è il manifesto dell’intero film: quando si subisce un trauma non basta una vita intera per capirlo, elaborarlo e avere la forza di parlarne. La pellicola ci fa capire che a volte rompere il silenzio è possibile solo come atto collettivo in cui il personale diventa politico. Quelle donne trovano la forza di parlare solo quando capiscono, grazie ai racconti e alle testimonianze delle altre, che non sono sole come avevano creduto fino a quel momento. L’alleanza è l’anello che unisce il coraggio alla verità e Jodi e Megan lo capiscono quando una finisce la frase dell’altra: «Queste donne riusciranno a venire allo scoperto solo se…» dice Megan, «…faranno il passo tutte insieme» finisce Jodi.
In conclusione, She said dimostra che la potenza di una storia non risiede solo nel messaggio che veicola, ma anche nel linguaggio narrativo e filmico con cui si sceglie di raccontarla. È proprio qui che la regia di Maria Schrader, già acclamata per la serie Unorthodox su Netflix, fa tutta la differenza, offrendo prospettive di lettura inedite e spunti di riflessione che aprono orizzonti ancora inesplorati.
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Articolo di Sara Benedetti

Laureata in Linguistica e traduzione presso l’Università di Pisa, coltiva una forte passione per la lingua e la letteratura russa. Si interessa di tematiche di genere e collabora a progetti editoriali e di ricerca, unendo rigore scientifico e sensibilità personale. Crede che la traduzione non sia solo un ponte tra culture, ma anche un potente strumento di cambiamento e trasformazione.
