Tutti contro tutti. Il numero di novembre di Limes. Parte prima

«Questa non è l’America/ Un piccolo pezzo di te/ La piccola pace in me/ Morirà (questo non è un miracolo) / Perché questa non è l’America/ Il fiore non riesce a sbocciare in questa stagione/ (…) C’era un tempo/ Una tempesta che soffiava così pura/ Questa non è l’America/ Pupazzo di neve che si scioglie da dentro».
This is not America David Bowie e Pat Metheny

Il numero 10 di Limes, dal titolo un po’ prevedibile ma significativo, Tutti contro tutti, affronta il caos che contraddistingue la transizione egemonica in corso e si divide in tre parti: la prima è dedicata alle Acrobazie cinesi, russe e indiane, il secondo a L’America e il nemico di dentro e il terzo a Europe in guerra. L’editoriale del Direttore Ecce America ecce mundus, come sempre ricco di spunti di riflessione e riferimenti storici, è particolarmente interessante nei passaggi in cui si sofferma sulla natura e sui metodi della geopolitica, materia con cui tutte e tutti ultimamente si riempiono la bocca senza peraltro sapere, il più delle volte, di cosa stanno parlando.
Inizierò dalla seconda sezione, la più stimolante proprio perché descrive le divisioni interne alla potenza egemone che sta attraversando un cambiamento di regime. E vi dedicherò la prima parte della consueta recensione divulgativa sperando con questa scelta di intercettare il bisogno di capire cosa sta succedendo nell’Impero a stelle e strisce in dismissione. L’articolo di Fabrizio Maronta E pluribus multa ci dice che la nazione della speranza macina violenza e malinconia, sette americani su dieci non credono più nel sogno americano, tre sono diagnosticati depressi. Inoltre, come era già stato ricordato in precedenti edizioni della rivista, il numero dei matrimoni tra un/una democratica e un/una repubblicana sono oggi meno di quelli tra un/una bianca e un/una nera, a dimostrazione delle forti divisioni interne alla società statunitense.

Faglie americane. Carta di Laura Canali

Illuminante, per cercare di capire la “rivoluzione americana” a partire dal titolo, è Lo sfascio di Federico Petroni che, di ritorno da un soggiorno in Usa, riporta le diverse posizioni dell’entourage di Trump e chiude così il suo report, citando i versi di Yeats: «“Things fall apart; the center cannot hold”. Tutto crolla, il centro non può tenere […] Persa l’innocenza, l’America si avventa contro sé stessa», cioè contro il “nemico interno”, the enemy from within. Un dossier con gli interventi di alcuni esponenti della nuova destra nazionalista completa l’analisi del consigliere scientifico di Limes. Leggerlo sarà molto utile per capire dove sta andando l’America in quello che Caracciolo definisce “un vero cambio di epoca”. L’antologia contiene interventi di trumpiani e trumpiane molto diversi tra loro tutti però accomunati dall’idea che «gli eccessi della globalizzazione e del liberalismo abbiano svuotato la nazione americana, la sua identità e i mezzi della sua potenza». Questi interventi sono stati pronunciati alla National Conservatism Conference (NatCon), nata nel 2019 per dare una base intellettuale al movimento Maga e creare una nuova classe dirigente per cambiare il potere esecutivo da dentro. «Nazionalismo oggi non significa quello che significava ieri — scrive Petroni — Ora vuol dire soprattutto ricostruire. L’identità, l’industria, la difesa, la famiglia, lo sviluppo tecnologico, la storia, la fede. Ridare un centro agli Stati Uniti, un nucleo duro culturale dimenticato in anni di multiculturalismo. E un senso del limite, perso nel sogno dell’egemonia globale. Obiettivo declamato: restaurare la gloria della civiltà occidentale di cui l’America è avanguardia. Obiettivo concreto: non soccombere alla Cina. […] Questo nazionalismo non è un monolite. “Dio, patria, famiglia” ricorre, ma è declinato in molti modi. Alcuni inconciliabili fra loro. Ad esempio, per alcuni nazione vuol dire dotarsi dei mezzi, anzitutto tecnologici, per vincere la sfida con la Cina; per altri vuol dire ridare dignità al lavoratore americano, difficilmente compatibile con le ricadute più drammatiche di un’accelerazione tecnologica a ogni costo».
Petroni firma un altro approfondimento tutto da leggere in Cambio di regime, dove descrive «la mente della rivoluzione trumpiana», Russell Vought. Direttore dell’Office of Management and Budget (Omb) della Casa Bianca, è «l’ispiratore e il responsabile della rivoluzione dentro i poteri». Secondo Vought la costituzione in vigore non è quella dei padri fondatori. La sua natura è stata erosa gradualmente da almeno un secolo. «Prima la dottrina della costituzione vivente, malleabile alle necessità del progresso. Poi la tecnocrazia, fare a meno della politica per affidarla a una pubblica amministrazione di esperti. Quindi un sistema di agenzie indipendenti dal governo e dallo scrutinio pubblico e dotate di poteri regolatori ed esecutivi. 

Infine, le riforme post-Watergate che hanno limitato il potere del presidente sul dipartimento della Giustizia e sulla capacità di spesa». Si è creato quindi un sistema non democratico, corrotto ed elitario, un «doppio governo». La burocrazia oggi è «woke and weaponized», dedita a promuovere ideologie della sinistra radicale e usata per reprimere gli oppositori politici. Il «presidente ombra» in Project 2025 spiega molto bene i suoi obiettivi: 1) per quanto riguarda il personale, «convertire ruoli di carriera in ruoli di nomina politica, licenziarne una buona parte, inserire le nuove leve nei gangli del potere»; 2) sopprimere le agenzie non necessarie, come Usaid e moltissime altre; 3) superare l’Impoundment Control Act, che vieta al Presidente di spendere meno di quanto stabilito dal bilancio, in modo da poter tagliare fondi a soggetti non graditi o alle spese sanitarie o a quelle per aiuti esteri; 4) «superare l’indipendenza delle agenzie e affermare la dottrina che il presidente comanda personalmente ogni branca dell’esecutivo».
L’articolo prosegue approfondendo gli strumenti che Trump sta mettendo in atto per vincere the enemy from within e impedire a quest’ultimo di tornare al potere prima che la battaglia culturale sia compiuta, non escludendo l’ipotesi di un terzo mandato del fondatore del Maga.

Route 66: la strada smarrita d’America è il racconto di un viaggio on the road che ci guida attraverso la Mother Road per 2450 miglia attraverso l’America profonda degli hillbillies. «Quella massa di terra che si estende tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico a cavallo tra le due coste — scrive D’Arrigo, l’autore — le cui foreste immense e i cui deserti profondi ospitano i desideri e le paure di un intero popolo, in cui le aquile sorvolano i cieli splendenti e dove il sole abbacinante brucia la pelle, è il cuore pulsante, vitale, di un paese che continua a vivere dei propri miti, dei propri ideali e delle sue audacie». Mentre la California è l’inferno. 
Completano la sezione dedicata agli Usa L’Artico è la frontiera scoperta dell’America perché in questa zona del pianeta si gioca la corsa tra Stati Uniti, Cina e Russia per il controllo di avamposti militari, rotte e risorse; e I grandi laghi, specchio della crisi tra Usa e Canada.
In questo numero l’editoriale di Lucio Caracciolo dedica parole preziose alla geopolitica, che mi piace condividere dopo un anno di frequenza alla Scuola di Limes: «Nel mondo del tutti contro tutti l’analista geopolitico soffre. Il suo lavoro riposa sul libero studio di specifici conflitti territoriali, senza pregiudizi morali né verità precostituite. Se possibile, offrendo ipotesi di soluzione. Lo scopo non è decidere ma comprendere, condizione per conciliare gli opposti. E trasferire nel dibattito pubblico interpretazioni meno superficiali di quelle distribuite in tempo reale da un sistema mediatico in cerca di effetto, orientato a sostenere la propria parte anche contro l’evidenza. Nella nube tossica delle opposte propagande, troppo facile intuire quale verità reciterà l’uno, quale l’altro. La deculturazione che opprime noi occidentali non è tanto carenza di informazione quanto di formazione all’apprendere dalla dialettica dello scontro. […] La geopolitica si espone, non s’impone. Vive di dialogo, modo di sapienza e di pace. Informa la diplomazia, arte fuori moda, che a partire dalle aree di convergenza fra i contendenti, opposte carte alla mano, li dispone ad allargarle per sintonizzarle e distillarne un accordo. Contro la retorica, che incita alla lotta strillando verità assolute. Perciò false. L’analista geopolitico cerca di porsi sopra, sotto, ai margini del campo di battaglia virtuale o fisico. Mai dentro, fosse solo per riflesso di conservazione. Incrocia i punti di vista dei protagonisti per scoprire le radici del conflitto. Come l’archeologo scava gli strati di una città antica per leggerne la storia dal presente verso il passato o il botanico misura gli anelli della corteccia d’albero per determinarne l’età, il geopolitico si cala nel profondo di culture, psicologie, ideologie, attratto dalle forze invisibili che governano i processi della storia. Ascolta, assorbe, scarta, riprende nel percorso infinibile verso una verità mai universale, sempre diversa dalla tesi iniziale perché arricchita dalle altrui…»

Il completamento di questa “lezione” alla prossima puntata.

Per chi volesse saperne di più sulle diverse componenti del mondo Maga segnalo due puntate di Mappa Mundi, il canale youtube di Limes:

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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