Era l’agosto 1983 e il nostro viaggio Tunisia-Algeria in jeep, in sei persone, continuava (vedi qui). Dalla sosta a Tozeur, in Tunisia, alla frontiera con l’Algeria la strada non era molta, sessanta chilometri passando da Nefta che è l’ultima cittadina tunisina prima della frontiera di Hazoua.
Qui la vegetazione si fa sempre più rada, fino ad aprire la strada a quella che i tunisini chiamano la porta del Sahara, l’inizio del grande deserto. Era da tempo che desideravo fare un viaggio nel cuore del Sahara, ma le mie amiche e i miei amici erano un po’ timorosi e poco convinti di voler entrare in Algeria, Paese del quale si sapeva poco e quel poco non era buono, ma io insistevo per voler vedere il deserto che si diceva essere il più bello del Sahara.
La frontiera di Hazoua, situata in Tunisia, è il valico di frontiera con l’Algeria e dopo circa 4 chilometri si arriva al valico algerino di Taleb Larbi. Quando noi abbiamo raggiunto il posto di frontiera, non potevamo immaginare di dover vivere una lunga attesa nell’incertezza di poter passare. L’atmosfera era delle più ambigue perché il personale della dogana non lasciava intendere se fosse o non fosse possibile entrare nel loro Paese. Le guardie di frontiera hanno voluto controllare i documenti e la jeep in ogni sua parte, rimanendo sconcertati alla vista delle bombole da sub in pieno deserto. Francesco spiegò loro in francese che ci erano servite al mare sulla costa tunisina. Poi fu la volta dei tubetti di latte condensato che loro non conoscevano e lo confondevano con della droga; allora lo abbiamo mangiato davanti a loro per dimostrare che era un alimento. Ci lasciavano senza risposta, andando avanti e indietro dal loro ufficio. Io cercavo di convincere i miei amici e amiche che eravamo così a un passo da paesaggi da fiaba che non potevamo mollare. Ricordai loro delle nostre nebbie invernali a cui eravamo abituate e che lì avevamo l’occasione di contrastare con immagini di cieli sereni e dune incantate. Volli chiedere a un romano seduto nella sala d’attesa se sapeva quando ci avrebbero fatto passare. Mi rispose che lui, diretto in Niger, attendeva da più di un giorno; mi disse che non era opportuno per noi che gli rivolgessimo la parola perché potevano insospettirsi e farci aspettare ancora più a lungo. L’ultimo colpo fu la richiesta di consegnare 180 dollari a testa in cambio del loro denaro, il dinaro algerino, che però non aveva possibilità di essere ricambiato perché la loro valuta era valida solo in Algeria.
Per me fu veramente difficile, davanti a questa richiesta, ottenere il consenso del gruppo, ma ci riuscii e fu così che entrammo in territorio algerino. Con quei soldi in tasca potevamo garantirci gli alberghi esistenti sulla nostra rotta. A quell’epoca c’erano solo cartine valide per le strade, ma scadenti per fornire indicazioni sugli alberghi. Ci diedero indicazioni alcuni abitanti e trovammo un albergo; essendo tardi non ci volevano dare da mangiare, ma le mance convinsero i camerieri a portarci qualcosa da mangiare. Scoprimmo alla mattina che quel grande albergo, color della sabbia, era il progetto di un architetto francese, ricercato in Francia, che si era stabilito in Algeria per sfuggire alla giustizia. Aveva progettato anche la piscina che però gli algerini non riuscivano a far funzionare; sembrava proprio una cattedrale nel deserto, ma fatiscente, specie da quando l’Algeria aveva ottenuto l’indipendenza, dopo un lunghissimo periodo di colonizzazione, perdendo però la tecnologia francese.
Il giorno dopo ci siamo incamminati sulla Transhariana, una grande autostrada che attraversa il Sahara, nota anche come Strada dell’Unità africana o Strada nazionale 1 in Algeria. Questo progetto di collegamento continentale si estende per circa 5.000 chilometri e collega Algeri con Lagos, in Nigeria, attraverso sei Paesi africani, con l’obiettivo di migliorare l’integrazione regionale e il commercio, attraversando località chiave come Tamanrasset nel sud.


È una strada asfaltata con asfalto a grana grossa. Il calore era infernale e io escogitai l’idea di far mettere sulle teste un asciugamano arrotolato che tenevo bagnato, versandoci sopra ogni tanto un po’ di acqua. Io mi sentivo a mio agio nel paesaggio desertico e allietavo la compagnia con canti; facevo ridere perché il mio repertorio preferito era quello dei canti alpini e il contrasto con l’ambiente esterno era veramente forte. Alla guida si alternavano i tre amici; rarissimi gli incontri con altri veicoli, quasi esclusivamente enormi camion.
A un certo punto, in pieno deserto, sentimmo il suono insistente di un clacson benché nessuno ci stesse seguendo; scoprimmo che era il nostro clacson i cui contatti, alterati dal calore, avevano iniziato a farlo… suonare. Dal finestrino vedevamo dromedari in cammino in cerca di qualche arbusto; mi avvicinai e mi accorsi che due di loro stavano mangiando della carne di un loro compagno morto.

Seppi in seguito che, se affamati, possono diventare carnivori. Questa strada attraversa il deserto e conduce a sud attraverso luoghi stupendi, dove le dune di sabbia cambiano forma e non consentono di costruire mappe mentali perché non ci sono riferimenti e il vento modifica ogni cosa. Guardando verso il basso si vedono strani ricami di differente misura, sono i segni lasciati dagli insetti del deserto: coleotteri, formiche e soprattutto scorpioni, ma anche vipere del corno, di cui abbiamo in seguito fatto conoscenza.
Ci sorprese, improvvisamente, una tempesta di sabbia; era impossibile proseguire con la jeep perché la visibilità era pari a zero e la sabbia ci entrava dappertutto: ci prese un grande spavento, tranne mio marito che volle prendere il volante perché si sentiva in grado di guidare. La bufera cessò all’improvviso e non ci restò che osservare la gran quantità di sabbia rossa che si era infiltrata fin nei punti più impensati della jeep e dei nostri corpi e vestiti.
Sulla rotta verso sud ci accolse un altro albergo, immenso e un po’ decadente come ci eravamo abituati a incontrare. Il cibo della cena era molto speziato e ha messo a dura prova i nostri intestini: couscous, kseksou, chorba, tajine, merguez, chakchouka, mhadjeb; una dopo l’altra, me compresa, siamo state male, ma per fortuna non in modo grave, grazie anche ai farmaci che Francesco aveva portato dall’Italia.
Io sognavo di scendere verso Tamanrasset, città dell’Algeria del sud, situata ai piedi dell’Atakor, al centro del massiccio dell’Ahaggar, centro più importante della società dei tuareg algerini. Volevo visitare il luogo in cui visse e nel quale fu ucciso, il primo dicembre 1916, Charles de Foucauld, per mano di ribelli che promuovevano una guerra santa contro gli Europei. Lui, francese, studioso della lingua e dei costumi tuareg, promotore di pace e dedito al silenzio e alla preghiera, fu ucciso mentre proteggeva la popolazione dai predoni. La figura dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle di Gesù mi aveva sempre affascinata e avrei voluto visitare il luogo dove lui aveva fondato quel piccolo nucleo di cristiani, ma Tamanrasset è molto a sud e troppo lontana. Scoprimmo, inoltre, da alcuni agenti, che non era possibile inoltrarci nel deserto con una sola vettura. Questa regola aveva fatto seguito a un fatto di cronaca molto grave: due coppie di milanesi, a bordo di una jeep, si erano perse nel deserto qualche anno prima e, non trovando la rotta per fare carburante, erano morte di stenti, dopo aver bruciato i copertoni nella speranza di farsi notare da lontano o dall’alto.

Il nostro viaggio doveva prendere un’altra direzione: la pentapoli di Ghardaia, chiamata la perla del M’Zab. La guida ci parlava di una città composta da cinque città costruite da musulmani mozabiti nel X-XI secolo; ci diceva che gli abitanti soffrono di miopia e di brachicefalismo a causa dei matrimoni fra consanguinei. Nel visitarle si percepisce tutto il fascino di luoghi rimasti fermi nel rispetto delle loro usanze e abitudini di vita, peraltro non ancora minimamente interessate dal turismo di massa. Ghardaia è la più conosciuta, ma relativamente, perché girando tra le sue stradine, di turisti occidentali se ne vedevano molto pochi. Era proibito fare foto alle persone, specie nella piazza, dove si stava svolgendo uno strano mercato, la vendita di una pentola che veniva mostrata agli uomini seduti in cerchio.

Contravvenendo alla regola, qualcuno del gruppo è riuscito a fare qualche foto dal valore antropologico. Abbiamo scoperto che le donne devono coprirsi aumentando la copertura via via che cresce l’età; le bambine giocano tranquille ma allo sviluppo si mettono un abito grigio, poi si coprono la testa. Se sono fidanzate dovranno coprire il viso e quando si sposano lasceranno libero solo un occhio e avranno un abito bianco alle finestre delle case vi sono grate di ferro per impedire loro di sporgersi.


Abbiamo camminato per la città che è un labirinto e visitato la torre, salendo fino in cima, con un anziano che ci faceva da guida e che ci ha spiegato come vivono gli abitanti.

Il giorno dopo abbiamo preso la direzione verso nord e, non trovando un albergo, abbiamo fatto sosta facendo campeggio libero e cucinando autonomamente. Per i nostri bisogni era sufficiente allontanarsi un poco dal gruppo e fu proprio così che mio marito ebbe l’incontro con la vipera del corno. Sentì strisciare sulla sua caviglia il freddo del suo corpo, ma lui fu così veloce da alzare la gamba proprio mentre lei colpiva con i suoi denti l’interno del tallone. Rientrato nel gruppo mostrò i due segni dei denti e Francesco disse che la vipera del corno non lascia scampo e che in venti minuti ti uccide. Non avendo l’antidoto, mi scaldarono il coltello per disinfettarlo e mi dissero che toccava a me tagliare per far uscire il veleno; nessun altro se la sentiva di farlo. Mi ritrovai con il coltello in mano e il piede di mio marito sotto gli occhi, ma, mentre cercavo di farmi coraggio, osservai che il veleno, una saliva trasparente, non era penetrato nella pelle, ma stava solo in superficie. Non dovevo tagliare perché se lo facevo avrei fatto entrare il veleno nel corpo; intanto i minuti passavano e mio marito stava bene; ciò confermava il fatto che non c’era veleno nel suo corpo. Eravamo euforici dalla gioia, dopo la grande paura. Si decise di partire subito e di andare verso nord, oltrepassando la catena montuosa dell’Atlante, dove aveva operato la Legione Straniera.
Sui monti incontrammo branchi di scimmie alle quali abbiamo lanciato dei biscotti algerini, tanto cattivi che anche loro li rifiutavano. Nei paesi che incontravamo si cercavano supermercati per fare rifornimento di cibo, ma gli unici prodotti commestibili erano i pomodori e le angurie e forse un po’ di miele.


Se non trovavamo un albergo montavamo le nostre tre tende per la notte.
Una notte, nei pressi dei monti, subimmo un attacco di predoni alla nostra jeep, posizionata vicino alle tende. Mio marito ebbe l’intuizione di effettuare una difesa attorno alle tende con corde e pentole che avrebbero fatto rumore nel caso venissero intralciate e così avvenne.
Due uomini ci assaltarono per rubare ciò che c’era sulla jeep, ma non riuscendoci per il rumore degli oggetti, iniziarono a lanciare sassi contro le tende. Un vero terrore; noi tre ragazze rifugiate in una tenda e gli uomini con coltelli in mano fuori a scacciare quei due. Fortunatamente i sassi lanciati contro di noi non ci colpirono e al canto del muezzin, improvvisamente, la sassaiola cessò; erano le cinque del mattino, la prima delle cinque preghiere nella giornata musulmana.
Con un certo sollievo ci avvicinavamo alla frontiera del nord con la Tunisia. Si doveva però cercare di spendere gli ultimi dinari algerini prima di uscire. Nella città vicino al confine pensammo di fare acquisti, oggetti di rame, tappeti o monili e così, mentre gli uomini andarono a cercare del cibo, noi tre ragazze entrammo in un bazar. Vidi i tappeti di media misure e mi misi a sollevarne uno dopo l’altro per scegliere quello che più mi poteva piacere. Ero concentrata sugli arabeschi di lana, ma all’improvviso mi sono sentita colpire sulle mani; era il proprietario del negozio che mi colpiva con un frustino e io ero allibita e spaventa. Le mie amiche mi proteggevano e mi dissero che forse una donna da loro non poteva toccare la merce, perché solo a un uomo ciò era consentito. Il proprietario mi guardava con l’occhio torvo, ma fortunatamente vedemmo i nostri tre uomini passare dalla grata del negozio ed erano tutti felici nell’annunciarci che avevano trovato due polli allo spiedo. Entrarono nel negozio e videro la scena delle mani colpite, urlarono contro al proprietario che solo allora abbassò il frustino. Si dovette per forza fare gli acquisti in quel negozio per consumare il danaro che sarebbe stato carta straccia fuori dall’Algeria, così mentre mio marito sollevava i tappeti io facevo la mia scelta.


Nell’uscire dall’Algeria al valico di frontiera a nord di Oum-Tboul abbiamo fatto le nostre considerazioni per la settimana di permanenza in quel Paese: con la convinzione che l’Algeria sia un Paese affascinante con il suo deserto stupendo che non ha eguali, ma che mantiene ancora molti aspetti inquietanti da sciogliere, perché possa divenire un luogo ospitale.
In copertina: Il minareto in pieno Sahara.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.
