Il 14 dicembre 2025 si è svolto il secondo turno delle elezioni presidenziali in Cile. A contendersi la presidenza erano la comunista Jeannette Jara (in testa al primo turno) e l’ultraconservatore José Antonio Kast, eletto con il 58% dei voti.

Da dopo la fine della dittatura militare (1973-1989), il Cile ha sempre visto alternarsi governi di destra e di sinistra. In quest’ottica, il passaggio da Gabriel Boric a José Antonio Kast non è sorprendente. I risultati elettorali degli ultimi decenni mostrano una società non molto cambiata: quando, nel 1988, Augusto Pinochet indisse un referendum per chiedere al popolo un mandato legittimo, perse con il 45% dei voti contro il 55%, la stessa cifra con cui alle elezioni del 2021 Kast aveva perso contro Boric. Un elettorato così radicalmente spaccato, in cui il 10% — ovvero l’elettorato più moderato, volubile e indeciso — fa da ago della bilancia, spiega l’alternanza: qualunque schieramento finirà presto per deludere e avere più detrattori che sostenitori.
La nuova vittoria della destra non è sorprendente anche a causa del contesto internazionale di “trumpizzazione” della politica, che abbassa il livello culturale del dibattito e di conseguenza sdogana la diffusione di idee agghiaccianti: è un fenomeno che in America sta prendendo piede velocemente, con personaggi come Javier Milei in Argentina, Nayib Nukele in El Salvador e Jair Bolsonaro in Brasile (oggi Bolsonaro è in carcere, ma qualche suo simile potrebbe conquistare la presidenza nel 2026). Salvo poche eccezioni, l’America è sempre stata conservatrice e liberista: come si fa a stupirsi ora del bizzarro comportamento internazionale di Donald Trump o della repressione attuata nel 2019 dall’allora presidente cileno Sebastián Piñera senza ricordare la dittatura militare cilena — sorella dei regimi analoghi in Argentina, Uruguay e Brasile — o le guerre di Ronald Reagan in America Centrale?
L’altro elemento che ha favorito la destra cilena è il pessimo comportamento, corrotto e autoritario, dei governi di sinistra del continente: più che citare Trump o Milei, Kast si è soprattutto riempito la bocca di ostilità verso figure come Nicolás Maduro, Daniel Ortega, Evo Morales e i fratelli Castro (l’unico leader sudamericano a non essere mai citato fra i tiranni e fra i corrotti è l’impeccabile ex presidente uruguayano José Mujica).
La presenza al secondo turno delle due figure più radicali dimostra la polarizzazione del dibattito pubblico: da un lato il primo presidente dichiaratamente a favore di Augusto Pinochet dopo la fine della dittatura (Kast è l’unico presidente che votò sì al referendum del 1988), dall’altro la prima comunista del continente americano a sfiorare la presidenza per via elettorale. Jeanette Jara, che è stata in carcere durante la dittatura, non sarebbe stata la prima donna ad accedere alla Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago già abitato da Michelle Bachelet tra il 2006 e il 2010, ma è stata la prima comunista ad arrivare a un passo dalla massima carica dello Stato usando solo mezzi legali e democratici. Già la coalizione di sinistra Unidad Popular — che arrivò in testa alle elezioni presidenziali del 4 settembre 1970 unendo il Partito socialista, quello comunista e il gruppo più radicale noto come Movimiento de la Izquierda Revolucionaria — decise di candidare come presidente il medico Salvador Allende anziché il poeta Pablo Neruda, molto amato nel proprio Paese e all’estero, perché consapevole del fatto che un comunista non avrebbe mai vinto le elezioni in America.
Tra il 1970 e il 1973 in America Latina si giocò la scommessa tra Salvador Allende e Fidel Castro: è possibile arrivare al socialismo per via elettorale e democratica senza togliere diritti civili alle classi più agiate? Sì secondo il primo, no per il secondo; la Storia diede ragione a Fidel, e il Cile fu il tavolo da gioco.

Kast è stato eletto sbandierando ossessivamente i temi cari all’estrema destra internazionale: l’immigrazione, la sicurezza e l’ordine. Le cause del consenso cileno verso questi temi si possono cercare nell’aggravarsi della crisi politica e sociale venezuelana che aumenta la miseria e quindi le migrazioni interne al continente e le relative tensioni. Ma tale argomentazione non basta se non si spiega anche la delusione lasciata dalla sinistra.
Ex leader del movimento studentesco del 2019, eletto nel novembre 2021 e insediatosi a marzo 2022, Gabriel Boric aveva promesso cambiamenti molto più drastici di quelli effettuati, primo fra tutti la stesura di una nuova Costituzione che sostituisse quella ereditata dalla dittatura. Ma questa non è passata in quanto troppo radicale. Attento a non ripetere gli errori di Allende, si potrebbe dire che Boric abbia commesso quelli opposti. Da un lato, un governo troppo morbido ha scontentato la sinistra più radicale; dall’altro, un tentativo di Costituzione troppo azzardato ha indispettito le fasce più conservatrici e il referendum popolare del 4 settembre 2022, che ha sancito la bocciatura della nuova Costituzione, ha finito di demoralizzare la sinistra: così l’elettorato indeciso che ha fatto vincere Boric nel 2021 ha poi consegnato la stessa poltrona al suo avversario quattro anni dopo. Il fastidio per un testo così tanto di rottura è stato più forte della memoria dei crimini della dittatura.
Sostenuto allora e rimpianto oggi dalle classi sociali più agiate, il “pinochetismo” non è mai scomparso dalla società cilena. È quanto emerge chiaramente dalle ultime elezioni. Nonostante il predecessore di Boric, Sebastián Piñera, fosse notevolmente liberista e autoritario, José Antonio Kast, fratello di un ministro di Pinochet, è il primo presidente cileno a rivolgere espliciti complimenti alla dittatura: «Non sono pinochetista, non ho nessuna immagine di Augusto Pinochet nel mio studio, ma riconosco il valore del lavoro fatto durante il governo militare», afferma il futuro inquilino della Moneda, dove si insedierà a marzo. Contrario all’aborto e ai matrimoni omosessuali, da deputato Kast ha però votato a favore dei risarcimenti alle famiglie di vittime della dittatura e condannato alcune figure dell’esercito colpevoli di crimini contro oppositori politici. Pur non negando le numerose violazioni dei diritti umani, Kast elogia l’aspetto economico del regime. La crisi sociale esplosa nel 2019, da cui nacque il movimento che portò Gabriel Boric alla presidenza, ha invece dimostrato che anche a livello economico l’eredità della dittatura è tutt’altro che positiva.
Anni fa, durante una lezione universitaria di Storia dell’America Latina, rimasi scioccato quando la docente disse: «Nonostante i costi umani, Pinochet ha salvato il Cile dalla crisi economica». Eppure, le ultime elezioni dimostrano che quest’idea è radicata tra la popolazione cilena. Tale frase merita un approfondimento che non si limiti alle prese di posizione propagandistiche.
Il 4 settembre 1970, Unidad Popular arrivò in testa alle elezioni ma ottenne solo il 36% dei voti. Fu il parlamento a decidere di nominare Salvador Allende presidente della Repubblica nonostante l’assenza di una maggioranza assoluta. In cambio, Allende dovette giurare di rispettare la Costituzione (scritta dai conservatori, quindi liberista), ovvero di non toccare la proprietà privata. Contrariamente alla promessa fatta, il governo Allende nazionalizzò i latifondi, le fabbriche e le miniere di rame e di salnitro, fondamentali per l’economia locale e mondiale; inoltre, insieme al sindacato, Central Unitaria de los Trabajadores, aumentò i salari e diminuì le ore della settimana lavorativa. In una prospettiva conservatrice o anche solo moderata, tutto ciò costituisce una violazione dell’ordine costituito; in una prospettiva anticapitalista (la maggioranza della coalizione di Allende era comunista), tale forzatura è necessaria per equilibrare le ingiustizie sociali. Allende fu accusato di voler trasformare il Cile in una seconda Cuba. I padroni reagirono diminuendo le assunzioni e finanziando scioperi dei trasporti che paralizzarono il Paese ma, in un sistema presidenziale in cui l’esecutivo ha un potere quasi assoluto, l’opposizione non può fare nulla. Furono quindi gli stessi partiti che avevano nominato Allende capo dello Stato a chiedere tre anni dopo all’esercito di intervenire per destituirlo.

La mattina dell’11 settembre 1973 gli aerei militari che bombardavano la Moneda venivano applauditi dalle finestre dei quartieri più ricchi di Santiago. Questo intende Kast dicendo che «Allende fu destituito dal popolo, l’esercito non intervenne di propria iniziativa». Durante la dittatura furono aboliti i sindacati e tutti i diritti della classe lavoratrice, considerati una zavorra al progresso economico, e l’occupazione effettivamente aumentò, ma a discapito della giustizia sociale. Chi guarda solo i numeri di pil e profitto è portato a pensare che il regime abbia in effetti fatto del bene al Paese, seppure con modalità sbagliate in termini di autoritarismo e violenza; chi invece dà la priorità ai diritti umani e sociali e mette in discussione il concetto stesso di crescita economica considera la dittatura militare un crimine. Ecco il motivo per cui la parte più agiata della società cilena è pronta a risarcire le famiglie delle migliaia di vittime dell’11 settembre 1973 ma non a rinunciare allo status quo lasciato dalla dittatura e ha approvato un cambio di presidente ma non un cambio di Costituzione.

Subito dopo la vittoria di José Antonio Kast, il presidente uscente Gabriel Boric ha tenuto un discorso all’insegna della diplomazia e della collaborazione, dialogando anche con il peggior avversario. Riferendosi al tema dell’immigrazione, Boric ha detto una frase che si potrebbe considerare la linea guida del proprio operato degli ultimi anni: «Il Cile non potrà mai costruire il progresso, se si pensa che questo sia a discapito di qualcuno».
In copertina: José Antonio Kast.
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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.
