Nella ricostruzione di un territorio fragile, fatto di materiali dispersi, biografie incomplete e opere che rischiano ancora oggi di essere inghiottite dal silenzio degli archivi, Tra ombre e luce. Donne e fotografia del Novecento di Monica Di Barbora (Viella Editrice, 2025) affronta il XX secolo senza semplificarlo e senza creare una narrazione lineare. Preferisce entrare nei documenti, seguire le tracce, accettare le interruzioni e ricucirle quando è possibile. Il risultato è un libro che non si appoggia su formule rassicuranti: si muove dentro le pieghe, negli spazi dove le storie non sono mai state consolidate.
Fin da subito si percepisce che la ricerca è stata lunga e paziente. Nulla è raccolto in superficie. È il tipo di lavoro che richiede tempo, e soprattutto uno sguardo disposto a riconoscere la complessità anche quando non si presenta in modo ordinato. Di Barbora attraversa archivi grandi e piccoli, fondi pubblici e collezioni private, materiali tenuti con cura e altri quasi dimenticati. Questa dimensione “artigianale” della ricerca, pur non raccontata esplicitamente, si avverte a ogni pagina: si sente che il volume è stato costruito prendendo in mano concretamente ciò che resta.
La domanda che emerge leggendo non riguarda solo il numero delle fotografe recuperate, ma la ragione per cui molte di loro sono rimaste ai margini. Perché così tanto lavoro non è entrato nella narrazione ufficiale? Il libro non propone una risposta unica; mostra invece come la marginalizzazione sia il risultato di un intero sistema culturale che ha considerato lo sguardo femminile come accessorio o comunque non determinante. Non serve un’indignazione urlata: basta osservare la sproporzione tra ciò che le autrici hanno prodotto e ciò che la storia ha deciso di ricordare.
Gli archivi sono il cuore più vulnerabile di questo racconto. Di Barbora descrive situazioni in cui negativi sono stati scartati perché ingombranti, stampe conservate senza indicazioni, materiali lasciati a deteriorarsi, fondi mai inventariati. Quando una fotografia perde il suo contesto, perde anche la possibilità di essere capita. Diventa un oggetto muto. Il testo mostra quanto la sopravvivenza delle opere sia dipesa, in molti casi, più dalla casualità che da una reale volontà di tutela. È un’ammissione amara, ma necessaria: ciò che non viene conservato con attenzione non entra nella storia.
La ricostruzione segue il movimento del secolo. Gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento sono presentati come un periodo in cui le donne che fotografavano dovevano muoversi dentro limiti sociali assai stretti. Eppure, anche in quelle condizioni, si intravedono sguardi che cercano di allargare il proprio spazio, pur non avendo ancora un linguaggio riconosciuto come “autrice”. È un periodo di tentativi, di possibilità che germogliano pur senza avere terreno stabile sotto i piedi.
La Seconda guerra mondiale porta un cambiamento brusco e imprevedibile. Diverse fotografe lavorano in condizioni difficili, spesso senza alcun tipo di protezione istituzionale. I loro scatti registrano ciò che si trasforma nell’ombra, nei margini, nella quotidianità imposta dalla guerra. Sono immagini che raccontano ciò che accade quando il mondo si incrina, ma che per lungo tempo non sono state considerate all’altezza dei grandi reportage. È uno dei tanti paradossi che l’opera mette in luce senza bisogno di sottolinearlo.
Il dopoguerra apre scenari nuovi, ma non uniformi. Alcune fotografe riescono a entrare nelle redazioni, a firmare servizi importanti, a essere riconosciute come professioniste. Altre rimangono confinate ai margini, non per mancanza di talento, ma per mancanza di continuità, di tempo, di strutture che permettano loro di lavorare in modo stabile. L’equilibrio era fragile, e spesso bastava poco — un trasloco, una maternità, una difficoltà economica — per interrompere un percorso. Queste interruzioni non vengono esposte come sentimentali, ma presentate per ciò che sono: conseguenze di un contesto sociale diseguale.
Gli anni Settanta portano una svolta più evidente. La fotografia diventa linguaggio politico, strumento di autorappresentazione, mezzo per occuparsi di temi che fino a quel momento non avevano trovato spazio. Di Barbora restituisce bene l’energia di quel decennio, in cui molte autrici iniziano a usare la fotografia per affermare una presenza, per raccontare corpi, ruoli, conflitti. È una stagione che segna una rottura non solo nei contenuti, ma anche nei modi di pensare l’immagine.
Gli ultimi decenni del secolo introducono nuove tecnologie e nuovi supporti. Il digitale apre possibilità enormi, ma porta anche rischi inattesi: file che non vengono salvati correttamente, formati che diventano obsoleti, archivi personali che si disperdono. Il libro insiste su un punto chiave: la conservazione è una responsabilità culturale e, in un certo senso, politica.
Un tema trasversale percorre tutto il volume: il tempo non distribuito equamente. Per molte fotografe il tempo disponibile per creare era ridotto all’osso, frammentato, continuamente interrotto da responsabilità che non lasciavano spazio alla continuità. Di Barbora non drammatizza questo aspetto, ma lo lascia emergere con chiarezza: la mancanza di tempo non è un dettaglio biografico, è un ostacolo strutturale che ha inciso sul riconoscimento delle opere.
Le immagini riprodotte nel volume fanno parte del discorso. Alcune fotografie chiariscono un contesto, altre rivelano le ferite degli archivi, altre ancora mostrano la distanza tra ciò che una fotografa ha prodotto e ciò che è stato conservato. È un metodo efficace e credibile. Tuttavia, in alcuni passaggi, i nomi entrano in scena e se ne vanno quasi subito. È come osservare una stanza da una fessura: si intuisce la ricchezza del materiale, ma non si ha il tempo di esplorarlo davvero. Non è una superficialità dell’autrice, è piuttosto la conseguenza dell’enormità del campo che sta trattando.
Un altro punto che emerge riguarda le connessioni tra le fotografe. Il libro ricostruisce bene il contesto storico, ma raramente mette in dialogo le traiettorie delle autrici. Eppure ci sono fili evidenti: sguardi simili nati in contesti lontani, percorsi che si sfiorano senza incontrarsi, differenze tra chi ha avuto un archivio tutelato e chi lo ha perso nel caos del secolo. Integrare questi legami avrebbe potuto dare ancora più forza all’idea centrale del volume: queste non sono storie isolate, ma parti di un sistema più ampio, segnato da assenze che si ripetono.
Tra ombre e luce si può considerare dunque come una piccola enciclopedia, un punto di riferimento a cui tornare quando si ha bisogno di contesti, di collegamenti, di nomi. L’elenco finale delle fotografe citate sembra abbia qualcosa di provvisorio, come se dicesse: «Queste sono quelle che abbiamo recuperato finora». È una lista aperta, che invita implicitamente a continuare la ricerca. E arrivando all’ultima pagina resta una sensazione precisa: il lavoro non è finito qui. Di Barbora ha aperto una strada che potrebbe facilmente diventare un secondo volume, o anche più di uno. La quantità di materiali recuperati — e quelli soltanto intravisti — offre terreno fertile per raccontare in modo più approfondito quelle fotografe che qui compaiono solo per un attimo, come presenze che chiedono di essere ascoltate. Sarebbe un modo naturale per dare continuità a un percorso che ha ancora molto da restituire.
Per concludere, la celebre frase di Virginia Woolf: «Se vuole scrivere romanzi, la donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé», che ricorda come per creare servono un reddito e uno spazio in cui poter lavorare senza essere interrotte, mi sembra più che adatta anche per il mondo della fotografia. Le fotografe del Novecento questo spazio non l’hanno quasi mai avuto e, nonostante questo, hanno prodotto immagini che oggi rappresentano un patrimonio essenziale, spesso senza guadagnarci. Proteggerne le opere, conservarle e restituirle significa non solo guardare al passato, ma permettere al presente di non ripetere gli stessi silenzi. Questo è il punto più politico, nel senso più concreto: la conservazione non è un gesto burocratico. È un atto civile.

Monica Di Barbora
Tra ombre e luce. Donne e fotografia nel Novecento
Immagine in copertina: La fotografa Eva Besnyő conuna macchina fotografica Rolleyflex sulla spiaggia del Mar Baltico,1932 (foto di John Fernhout) copyright Eva Besnyő/Maria Austria Instituut.
Collana Storia delle donne e di genere n.19
Collana della Società Italiana delle Storiche
Viella Editrice, 2025 pp. 358
Copertina dell’articolo: Ragazza con fotocamera, di Freeillustrated (pixabay.com).
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Articolo di Giulia Bortolini

Mi occupo di fotografia, progetto e realizzo mostre fotografiche a tema, videoreportage (personali e su richiesta), docuvideo, videolezioni per le scuole, locandine, gestisco social media, disegno Màndala. Attivista di Se Non Ora Quando? Lodi e associata di Toponomastica femminile.
