Dalla cultura dello stupro alla cultura del consenso. Parte prima

Secondo la rilevazione Istat 2025 «le donne italiane dai 16 ai 75 anni di età che hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della vita sono circa 6 milioni e 400mila (il 31,9%), cioè quasi una su tre. Il 18,8% ha subìto violenze fisiche e il 23,4% violenze sessuali. Percentuali più alte della media si riscontrano per le studenti (36,2%) e le donne più giovani di 16-24 anni (37,6%), lo stesso avviene anche per le laureate (13,9%) e le diplomate (12,2%).
I partner, attuali ed ex, sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate, con quote superiori al 50%, e di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro nonché di rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 63,8% degli stupri, infatti, è opera di partner (il 59,1% degli ex partner, il 4,7% del partner attuale), il 19,4% di un conoscente e il 10,9% di amici. Solo il 6,9% è stato opera di estranei alla vittima.
I livelli di denuncia sono molto bassi soprattutto per le violenze fisiche o sessuali perpetrate dal partner attuale (solo il 3,8%), mentre sono maggiormente denunciate le violenze da ex partner (pari al 19,1%)».

La prima riflessione che mi sembra possa nascere da questi dati è che la violenza agìta dagli uomini non è evento raro, come forse saremmo portati a credere; moltissime donne in Italia, ma non solo, sono state esposte durante la loro vita alla violenza maschile e per molti motivi questo fenomeno rimane nascosto e fatica a emergere.
In secondo luogo mi sembra che questi dati autorizzino a rivedere, almeno in parte, l’immagine abitualmente diffusa dello stupratore: un estraneo, un emarginato, che assale di notte con la minaccia di un’arma. Pare invece che ad agire in modo violento siano uomini normalissimi, appartenenti a tutte le classi sociali, legati a vario titolo alla vittima, disposti a mettere in atto comportamenti evidentemente diffusi e dunque non considerati abnormi o malati. Basta richiamare alla memoria il caso del gruppo facebook Mia moglie, con i suoi 32.000 iscritti che condividevano foto intime delle proprie compagne senza il loro consenso, o la “lista stupri” al liceo Giulio Cesare di Roma, non certamente un luogo di deprivazione economica e sociale, per poter affermare che viviamo immersi in un sistema di credenze, di convinzioni, di stereotipi ben definiti dall’espressione “cultura dello stupro”. Sebbene possa apparire spiacevole e forse irritante, quest’espressione ha il pregio di evidenziare un assunto che permane sotteso nell’orizzonte di moltissimi uomini: per quanto possano aver raggiunto traguardi di eguaglianza sociale e possano ricoprire incarichi di rilievo le donne sono, nella loro dimensione biologica e sessuale, delle prede, esseri la cui funzione è quella di soddisfare il maschio, di cui disporre come di una proprietà e che dunque non possono essere riconosciute come eguali.

Nella nostra società è profondamente radicato un dispositivo culturale secondo il quale la differenza biologica tra uomini e donne giustifica la distinzione tra forti e deboli, tra chi può aver voce e chi è condannato al silenzio, tra chi decide e chi accetta, tra chi domina e chi è dominato. Poiché il dato di partenza è legato alla fisiologia, tutto il discorso sociale su di essa articolato si dà per naturale e dunque immutabile e giustificato a priori.
Tuttavia essere uomini virili e donne femminili non è affatto il prodotto di una legge di natura, ma una costruzione culturale che, fin dalla più tenera età, definisce quali sono gli spazi sociali riconosciuti, i comportamenti ammessi, i ruoli e quindi i diritti che si possono rivendicare.
L’appartenenza a un genere permette la possibilità di una identificazione profonda, è dunque l’ambito nel quale da subito si strutturano le attese e le modalità di relazione con l’altro sesso: al maschio si riconoscono la forza, la potenza, il diritto all’affermazione del proprio desiderio e l’amplificazione dello stesso, tanto che non può essere controllato — perfino un ministro chiama in causa il Dna — in singolare contraddizione con l’immagine dell’uomo come solo detentore delle capacità razionali. Alla femmina si attribuisce la fragilità, la passività, la sottomissione, la cancellazione di un desiderio autonomo e dunque la negazione del diritto a ricercarne la soddisfazione. Il ruolo sessuale, e quindi sociale, riconosciuto alla donna è quello dell’accoglienza, dell’oblatività: sta a lei accettare e soddisfare i bisogni dell’altro, piegandosi con compiacenza a quanto le viene richiesto.

Si spiegano così comportamenti diffusi, apparentemente dissonanti con i dettami attuali del diritto e le regole della convivenza: non solo il preoccupante persistere in ogni contesto sociale della violenza contro le donne, ma la tendenza a minimizzare, purtroppo presente anche nelle forze dell’ordine, l’acquiescenza più o meno esplicita che, a volte anche nelle aule dei tribunali, circonda l’accusato, la vittimizzazione secondaria che colpisce chi denuncia. Si spiegano così anche gli atteggiamenti ancora diffusi di irrisione e svalutazione, come le reazioni di alcuni uomini davanti all’autorevolezza femminile.
Si spiega inoltre il silenzio che spesso circonda gli atti di violenza perpetrati nel chiuso delle abitazioni, la difficoltà a far emergere comportamenti lesivi, difficoltà che nasce sicuramente da condizioni di mancata autonomia economica, da timore di ritorsioni, dalla paura di non essere credute, ma purtroppo anche da dispositivi sociali, introiettati dalle donne, che le spinge a riconoscere all’uomo un potere sui loro corpi.
La convinzione che attraversa fin dalle radici la nostra società per cui uomini e donne sono agli estremi di una polarizzazione tra forte/debole, alto/basso, dominante/dominato fa sì che, nonostante tutti gli sforzi per affermare una parità nella differenza, molti uomini si aspettino di veder riconosciuta la loro presunta superiorità e, soprattutto nella vita privata, di essere obbediti.
La violenza dunque, e in particolare la forma più grave, lo stupro, è l’imposizione del proprio desiderio, il prendersi ciò che spetta, insomma l’affermazione di un potere che pretende di essere riconosciuto.

Dominique Pellicot, accusato di aver sedato pesantemente la moglie per farla stuprare da numerosi uomini, durante un interrogatorio proferisce una frase, riferita alla moglie Gisèle, estremamente significativa: «Era totalmente diversa da mia madre, era un’indomabile ribelle». Naturalmente il caso Pellicot rappresenta una situazione estrema, dai contorni ributtanti, tuttavia i verbali del processo dimostrano come appunto la sottomissione sessuale possa essere una modalità per punire la donna che non accetta le dinamiche di potere maschili e dimostrano egualmente come, per gli uomini partecipanti alle violenze, approfittare, con il consenso del marito, di una donna sedata ai limiti del coma non fosse percepito come un comportamento così orrendo.
Superare un sistema di codici che hanno operato in modo imperativo sulla costruzione simbolica del corpo biologico presenta enormi difficoltà e abbisogna di tempi molto lunghi: l’addestramento di maschi e femmine, operato attraverso ingiunzioni esplicite o attraverso la spinta all’imitazione, tramite il rinforzo di chi si adegua e l’esclusione delle riottose, tende a tramandare un’impalcatura sociale organizzata intorno al dominio maschile che offre agli uni e alle altre ruoli definiti e riconoscibili e che, soprattutto, per secoli ha ignorato ogni voce critica — e pure ve ne sono state — definendosi come l’unico possibile sistema di relazioni tra uomini e donne.

Certamente i mutamenti culturali, sociali, economici e legislativi hanno avuto un ruolo significativo nel mitigare la forza di tali stereotipi, ma, se dobbiamo contare così tanti femminicidi, non risolutivo. Vorrei ricordare che la violenza sessuale è stata inquadrata nei delitti contro la libertà personale solo con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, attualmente vigente, precedentemente questo reato era considerato un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume o, come si diceva, contro l’ordine delle famiglie.
In queste ultime settimane si è aperta tra forze di governo e opposizione una importante polemica intorno al disegno di legge relativo all’”Introduzione del principio del consenso libero, esplicito e revocabile”, finalizzato a riformare il reato di violenza sessuale previsto dall’art. 609 bis del c.p.
L’articolo di legge attualmente vigente, pur recependo almeno in parte il mutare della sensibilità sociale rispetto alla legislazione precedente, mantiene il focus sulla presenza di un comportamento violento, considerato elemento discriminante per accertare il reato, e sulla conseguente resistenza da parte della vittima. Un tale assetto risente dell’impostazione tradizionale che vuole la donna garante ultima della onorabilità propria e della famiglia, e soprattutto necessita della prova della costrizione violenta per diffidenza nei confronti della donna di cui si sospetta che, in assenza di una resistenza, abbia acconsentito al rapporto secondo la terribile logica del vis grata puellae.

In questo modo si ignora che vi può essere reato, anche senza costrizione violenta o strenua resistenza, ogni volta che la vittima non è in pieno controllo delle proprie facoltà o teme che una reazione possa provocare pericolo per la propria incolumità o è preda di una sorta di “congelamento”, cioè un blocco del riflesso motorio dovuto alla paura, o infine quando vi è seduzione violenta all’interno di rapporti di coppia.
La nuova proposta di legge spostando il focus sul consenso pone l’accento sul principio di autodeterminazione e sul diritto di ognuna e ognuno a controllare i confini della propria esperienza sessuale, e dunque considera punibile ogni comportamento volto a limitare un tale diritto, a prescindere dall’impiego della costrizione violenta.
Riconoscere la piena potestà delle donne sul loro corpo significa evidentemente considerarle persone autonome, in grado di scegliere liberamente, come gli uomini, se acconsentire o meno a un rapporto sessuale, che diventa improprio quando non pienamente scelto da entrambi i partners. L’acquisizione del concetto di consenso nel nostro sistema giuridico costituirebbe un passo avanti nella tutela penale dell’autodeterminazione sessuale e dunque nell’affermazione dell’eguaglianza tra uomini e donne.

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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.

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