Mio figlio era in Australia da due o tre mesi quando decidemmo di andarlo a trovare e trascorrere il Natale 2018 insieme. Dopo la sosta in Vietnam da Ho Chi Min, un volo notturno di otto ore ci ha portato a Sydney, dove lui ci aspettava. Aveva deciso di fare un’esperienza lavorativa in una azienda di camion, prendendosi qualche mese di aspettativa dal suo posto di lavoro a Milano, poiché aveva ricevuto un invito da parte di una famiglia italiana residente in Australia, che gli aveva offerto un alloggio e prestato un’auto (indispensabile per muoversi).

Ci ha presentato alla famiglia, la quale ci ha offerto una casa in cui non abitava più da qualche tempo, nella periferia di Sydney. In questo alloggio abbiamo trovato vecchie foto di questi/e italiani/e e del paese calabrese da cui provenivano. Gino era venuto a lavorare in Australia negli anni ’50 perché era in atto il progetto “Populate or Perish”, teso ad incrementare la popolazione australiana a fini strategici, economici e militari. Fu questo il periodo del massimo arrivo di italiani e italiane, una sorta di emigrazione di massa, che vide il loro aumento — durante gli anni ’50 e ’60 — di ben 10 volte rispetto al periodo dell’anteguerra, provenienti in gran parte da Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Calabria, Abruzzo e Campania (regioni dove era più sentita la povertà). Gino era venuto a Sydney come manovale e si era messo nel settore delle pompe idrauliche per diffondere le tubature d’acqua nelle città che si stavano espandendo. La manodopera specializzata italiana era preziosa: fece carriera e venne presto raggiunto dalla sua fidanzata, la quale nel frattempo era rimasta nel Paese d’origine. Concetta ebbe, infatti, il coraggio di lasciare la famiglia e il Paese e raggiungere Gino. Lei mi raccontò del suo matrimonio per procura nella chiesa del paese e del lungo viaggio in nave di quaranta giorni, pagato dallo Stato australiano; sapeva che non avrebbe rivisto i suoi familiari per molto tempo, ma, mi disse, amava Gino e il lavoro non le faceva paura.
Trovò subito impiego in una industria tessile, dove cuciva a macchina abiti da lavoro. Il problema era l’apprendimento della lingua inglese: per lei e il marito il dialetto calabrese continuava ad essere la lingua di tutti i giorni (così come l’italiano, considerando i molti italiani e italiane che vivevano e lavoravano vicino a loro). Nei primi anni ’70 (ultima ondata migratoria) arrivò il giovane Tony, anche lui dalla Calabria, che, dopo le scuole superiori a Sydney, affiancò Gino nel lavoro. Tony sposò la figlia di Gino e Concetta e, data la sua capacità imprenditoriale, prese le redini della ditta che, ancora oggi, è assai fiorente nel sud dell’Australia. I tre nipoti si sono laureati e mi hanno riferito che mantengono tutt’oggi l’uso della lingua italiana in famiglia (perfezionata a scuola dove, per chi ne fa richiesta, viene insegnata in modo tale che non si perda la cultura italiana).
In casa loro, come in quella degli altri italiani, una grande parabola consente di vedere i programmi televisivi di Rai 1, benché in orari differenti rispetto all’Italia. Ho notato anche un quotidiano in lingua italiana, La Fiamma, stampato a Sydney, mentre Il Globo a Melbourne. Questi giornali tengono insieme la comunità italiana, per cui sono nati anche dei club sociali e una serie di strutture di servizio.
Le generazioni degli italiani e delle italiane successive a quella immigrata nel secondo dopoguerra hanno conquistato, nella società australiana, ruoli di primaria rilevanza nell’imprenditoria, nell’economia, nella ricerca e nelle università, nelle arti e nei servizi, come nella vita istituzionale e politica, con ruoli spesso di grande prestigio. I nipoti di Gino e Concetta stanno avendo successo nei vari settori di loro competenza, ma il loro sogno è quello di fare ogni due o tre anni un viaggio in Europa e, in particolare, in Italia, per conoscere il patrimonio culturale del loro Paese di origine.
Nei primi giorni abbiamo visitato Sydney, raggiungendola dalla periferia con un veloce treno che arriva in centro, dove si può trovare qualche edificio antico, tipicamente in stile inglese. Interessante è il quartiere chiamato The Rocks, con costruzioni in mattoni rossi, locali tipici e la cattedrale in stile neogotico, sulla cui facciata, di sera, vengono proiettate immagini luminose. Il punto più caratteristico di Sydney è la costruzione a vele bianche del Teatro dell’Opera, l’edificio più famoso dell’Australia — divenuto anche patrimonio dell’Unesco —, che sorge su un promontorio, opera dell’architetto danese Utzon. Accanto vi è un favoloso giardino botanico, iniziato dai primi coloni/e, che hanno coltivato una vasta gamma di alberi e di fiori; passeggiare sui suoi viali permette di godere di meravigliosi scorci con viste panoramiche sull’oceano.

Per la nostra visita in Australia, nostro figlio aveva pensato di prendersi una settimana di ferie e di farci una sorpresa: un’escursione per visitare almeno una parte del vasto territorio australiano, quello a sud-est. Per noi tutto sarebbe stato una novità e ciò che lui aveva programmato per noi era un’0pportunità inaspettata e molto gradita. Così siamo partiti da Sydney in direzione nord-est con tappa finale all’isola di Fraser, preceduta da tappe intermedie. La prima sosta fu Nelson Bay, nel Nuovo Galles, dove abbiamo goduto della vista, in un vasto campo verde, di molti canguri che vagavano liberi. Questi animali, infatti, sono abituati agli umani e si fanno guardare e toccare tranquillamente. Abbiamo assistito a vari cuccioli che facevano capolino dalle tasche delle mamme e due canguri maschi che combattevano tra loro (niente di truce, tranquilli).

Il secondo giorno siamo stati a Port Macquarie, città costiera del Nuovo Galles del Sud, dove si trova un ospedale dedicato alla cura dei koala. Gli animali che si trovano qui sono in attesa di essere liberati una volta guariti, ma ci sono anche esemplari che rimarranno a vita in questo posto perché non più in grado di poter vivere in libertà. Incidenti, incendi, attacchi di cani sono la causa delle loro ferite: questo è l’unico ospedale dove vengono operati, riabilitati e, quando possibile, liberati. Per noi europei ed europee è una delle rare occasioni per vederli da vicino.
Non lontano abbiamo visto Cape Byronhause, un famoso faro sul mare, il punto più a est dell’Australia dedicato all’ammiraglio inglese John Byron, nonno del poeta Lord Byron. Entrando nel faro è possibile vedere oggetti legati alla vita di mare e, nella giusta stagione, è possibile l’avvistamento di balene.
Abbiamo proseguito lungo la Gold Coast, nel Queensland, dirigendoci verso Rainbow Beach, dove abbiamo pernottato per partire la mattina seguente su uno speciale pullman fuoristrada, che salirà su un traghetto per raggiungere la famosa isola Fraser, l’isola di sabbia più grande al mondo, patrimonio dell’Unesco. La foresta pluviale di Fraser Island è unica nel suo genere: infatti, è l’unica al mondo che sorge sulla sabbia, un substrato che non è proprio ideale per la crescita di qualsivoglia tipo di vegetazione. La guida ci ha fatto imboccare un sentiero nella giungla che ha una ricca vegetazione, farfalle variopinte e uccelli rari. Il sentiero era fiancheggiato da un letto di ruscello sabbioso, che mi sembrava essere asciutto finché qualcuno vi ha lanciato un sasso. Allora ho capito che vi scorreva dell’acqua talmente limpida e trasparente da non essere percepita minimamente: è il ruscello Eli Creek con acqua purissima e perfettamente potabile.

Da qui abbiamo poi raggiunto un punto in alto, dal quale si ha una bella vista sull’oceano, le cui acque sono infestate da squali Ma i pericoli non finivano lì, perché si trovano anche meduse velenosissime e altri animali marini molto aggressivi. Dietro la collina si scorge Lake Mckenzie, vero spettacolo della natura! È uno dei punti in assoluto più visitati di tutta Fraser perché ha un fondo sabbioso, che lo rende simile al mare, ma l’acqua deriva solo ed esclusivamente dalle precipitazioni, dunque non è salata. La sua sabbia è particolarmente bianca e fine, di origine vulcanica, composta al 99% di silica, il quale rende il lago pulito, ma privo di quasi ogni forma di vita. Sulla riva dell’oceano, dato il fondo sabbioso, il lungomare può essere percorso solo con robuste jeep o con un pullman corazzato, come il nostro

Lì è possibile avvistare un relitto di nave arrugginito: è la Maheno Shipwreck, che nel 1935 fu abbattuta da un ciclone, andando alla deriva e arenandosi sulla spiaggia del versante Est di Fraser Island. Spostarla è sempre costato troppo per cui la nave non è mai stata rimossa, diventando nel tempo uno dei simboli di Fraser. In lontananza abbiamo avvistato dei cani dal pelo rossiccio che credevamo innocui, ma la guida ci ha fatto notare dei cartelli che avvisavano i visitatori e le visitatrici dell’isola di non avvicinarsi: si trattava dei dingo, pericolosi non solo perché rubano gli avanzi di cibo, ma perché rapiscono neonati, come viene raccontato in un film del 1988, Un grido nella notte.
L’avventura stava finendo e si tornava verso Sydney per festeggiare il Natale con altri italiani. Io prima, però, ho desiderato visitare uno dei principali musei della città. L’Australian Museum contiene una vasta collezione di arte aborigena australiana che indaga la vita artistica, culturale e sociale di determinate comunità. Per gli aborigeni/e australiani/e, la terra è tutta segnata da un intrecciarsi di «Vie dei Canti» o «Piste del Sogno», un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi: erano le «Impronte degli Antenati» o la «Via della Legge».

Dietro questo fenomeno, il libro di Bruce Chatwin del 1987, partendo dal bisogno di comprendere le ragioni del nomadismo, racconta incontri e avventure picaresche nel profondo dell’Australia. Nel museo ci sono molte testimonianze della vita degli aborigeni e delle aborigene e del loro sfruttamento da parte dei coloni/e inglesi. Oggi, molti e molte aborigene vivono ai margini delle città, mentre un numero consistente vive in insediamenti in remote aree dell’Australia rurale. Il furto e la distruzione dei territori ancestrali hanno avuto su di loro un impatto sociale e fisico devastante. Dal 1972 gli aborigeni/e protestano per veder riconosciuti i loro diritti tramite un’ambasciata ufficiosa, davanti al Parlamento di Canberra: un sit-in iniziato più di 50 anni fa e diventato una protesta permanente.

Ma eccoci alla vigilia di Natale che viene festeggiata, come da tradizione, con una cena a base di pesce. Mi unisco alle donne in cucina e collaboro con loro: è come essere in un paese italiano del Sud. Usciamo, poi — sempre con abiti estivi — per visitare le insegne luminose delle decorazioni natalizie, c’è un concorso che si fa ogni anno nel quartiere per scegliere la migliore: Buon Natale!
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.

Una bella avventura legata a un ricongiungimento famigliare, nulla potrebbe essere più emozionante e ricco di curiosità da soddisfare. Certo che toccare e vivere culture e luoghi agli antipodi deve essere travolgente così come rendersi conto delle realtà di etnie oppresse da secoli di colonialismo. Grazie per aver condiviso anche un minimo di arte aborigeno che trovo meravigliosa
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