Andare avanti guardando indietro

«Il gesto del passare all’indietro fa dell’umiltà una virtù strategica. Infatti una regola universale, che nel rugby si apprende subito, è “se non passi, se non fai partecipare gli altri, il gioco non funziona”. La palla, come la vita, non è fatta per essere trattenuta. Occorre mettere in circolo i talenti, per farli fruttare. Detto altrimenti, per avere, si deve dare». Andare avanti guardando indietro, Mauro e Mirco Bergamasco, con Matteo Rampin, 2011, Salani editore. 
I referendum dell’8 e 9 giugno scorsi sono stati una sconfitta per i Comitati promotori. Questo è un dato inequivocabile. Non mi soffermerò sulle percentuali dei e delle votanti nei diversi territori o su quelle di favorevoli e contrari/e ai diversi quesiti perché lo hanno già fatto i quotidiani italiani, con i loro titoloni a effetto, come sempre tesi a trasformare quello che è l’esercizio di uno strumento di democrazia diretta in uno scontro/tifo tra destra e sinistra. Praticamente come fanno sempre per incitare l’opinione pubblica a schierarsi senza peraltro quasi mai informarla correttamente. 
Vorrei provare, per “andare avanti, guardando indietro”, a condividere alcune considerazioni sullo strumento referendario, previsto dalla Costituzione repubblicana dal 1948. Insieme alle petizioni al Parlamento, il referendum abrogativo delle leggi e degli atti aventi forza di legge rappresenta l’unica occasione offerta al popolo (uso qui la definizione giuridica di popolo, cioè l’insieme dei cittadini e delle cittadine di uno Stato, uno dei suoi tre elementi costitutivi, insieme a territorio e sovranità) di incidere sull’attività legislativa del Parlamento e del Governo, nei casi, che dovrebbero rappresentare un’eccezione, in cui la Costituzione autorizza l’Esecutivo a esercitare, entro limiti rigidamente fissati, l’attività legislativa, prerogativa squisitamente parlamentare. Uno strumento prezioso, dunque, il referendum, da utilizzare soprattutto quando, come nell’epoca attuale, la distanza tra i partiti e il popolo sembra essere incolmabile. Un modo per far sentire la nostra voce. 

Forse non tutti sanno che questo importante strumento di democrazia diretta è sempre stato inviso ai partiti, anche a quelli presenti in Parlamento nelle prime legislature repubblicane. Contrari alla legge attuativa del referendum, necessaria a renderlo praticabile, erano sia il partito di maggioranza relativa di allora, che lo sarebbe stato ancora per moltissimi anni, la Democrazia cristiana, sia il principale partito di opposizione, il più forte d’Europa per molto tempo, il Partito Comunista italiano. Il radicamento di questi «corpi intermedi» sul territorio («formazioni sociali» come li chiama l’articolo 2) era fortissimo, praticamente c’erano sezioni in ogni città. Il loro ruolo era quello di «cerniera» tra le istanze territoriali popolari e le istituzioni in modo che ogni scelta passasse attraverso di loro, che avrebbero dovuto rimanere gli unici facilitatori di comunicazione e cittadinanza attiva. L’ostilità trasversale ai partiti verso il referendum è evidente. La legge attuativa attese 22 anni per essere approvata dal Parlamento. Un ritardo inconcepibile da parte di coloro che dovrebbero per primi dare attuazione alla Costituzione. Ma come mai proprio nel 1970 questa legge fu approvata? Perché, ancora una volta, era funzionale ai partiti e utilizzabile in modo strumentale. Per una strana congiuntura astrale, con l’assenza di molti parlamentari, la maggioranza alle Camere aveva approvato, su iniziativa di 2 deputati appartenenti al partito liberale e al partito socialista, Baslini e Fortuna, la legge n.898/1970 sul divorzio, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio. Il partito di maggioranza relativa, di ispirazione cattolica, non riusciva ad accettare questa legge dall’impronta fortemente laica e allora ritenne utile andare a ripescare in modo strumentale quel referendum abrogativo (che le e i Costituenti avevano pensato con tutt’altri scopi), approvandolo con una legge istitutiva piena di trabocchetti che ne rendessero difficilmente praticabile in futuro la riuscita. Lo stesso significato delle risposte “si” e “no”, essendo riferite all’abrogazione di una legge, per la cittadinanza avevano un significato di difficile interpretazione. Le tribune del referendum, allora, furono tante e molto chiare, forse perché la consultazione riguardava un interesse dei partiti. Come si sa, il referendum sul divorzio si tenne solo nel 1974 (a causa proprio dei vari trabocchetti messi sul suo cammino) e vinsero i “no” alla sua abrogazione. Da quel momento si aprì la strada a una lunga serie di consultazioni referendarie, portate avanti inizialmente dal partito radicale di Marco Pannella e poi da altri Comitati promotori. 

Col tempo, l’astensionismo nei confronti delle consultazioni elettorali e referendarie è aumentato, per la sfiducia di cittadine e cittadini nei partiti, percepiti come élite lontane dai loro bisogni e soprattutto incapaci di ascoltarli. Alle ultime elezioni politiche, la percentuale delle persone votanti che ha consentito al partito della Presidente del Consiglio di andare al potere è stata inferiore a quella che si è espressa per i referendum. 
Eppure i quattro referendum sul lavoro erano molto importanti: servivano a combattere quella precarietà che oggi colpisce soprattutto i giovani e le giovani, i rischi per la sicurezza, i licenziamenti illegittimi e le ridicole indennità previste per gli stessi in alcune imprese. Aver trasformato questi referendum in uno scontro tra forze partitiche – benché nel Comitato promotore queste ultime non fossero presenti ma vi fossero solo due sindacati, Cgil e Usb, seppure quest’ultimo con un suo autonomo Comitato per il Si – ha spostato completamente il focus del dibattito. Le associazioni che facevano parte del Comitato erano: Rci, Auser, Federconsumatori, Libera, Rete degli Studenti Medi, Udu, Medicina Democratica, Magistratura Democratica, Forum Disuguaglianze e Diversità, Giuristi Democratici, Usigrai FNSI e tante altre.  
E qui si impongono alcune considerazioni su come il lavoro, su cui, non dimentichiamolo, è fondata la nostra Costituzione, sia stato narrato e regolamentato da almeno trent’anni dalle forze politiche e sindacali incantate dalle posizioni dei Chicago Boys (gli economisti neoliberisti ispirati da Milton Friedman). Il pensiero unico neoliberista, che ha affascinato trasversalmente destra e sinistra in tutto l’Occidente, ha coinvolto anche i governi italiani e contagiato i media. Ciò ha comportato una serie di “controriforme” del lavoro: il pacchetto Treu, del 1997 approvato dal Governo Prodi insieme al Pds e a Rifondazione Comunista, la legge Biagi del 2002 approvata sotto il Governo Berlusconi, la legge Fornero del 2012 che ebbe il patrocinio del Governo tecnico di unità nazionale Monti per finire con il jobsact del 2014 con il Governo Renzi, che allora rappresentava il Pd. Forse dobbiamo risalire ancora più lontano, al 1992, per capire davvero quale attacco è stato mosso al lavoro, a quell’accordo sul costo del lavoro che abolì, senza il dissenso della Cgil, la “scala mobile” e poi al 1993 che instaurò la politica dei redditi, ancorando i salari alla produttività del lavoro e di fatto impoverendo lavoratori e lavoratrici e riducendo gradualmente i loro diritti.  

Alcune considerazioni si impongono, per andare avanti dopo aver guardato indietro: quel 30% di persone che si sono recate alle urne hanno avuto il merito di riportare la questione politica e sindacale del lavoro al centro del dibattito pubblico, mostrando di condividere, non si sa quanto consapevolmente, la posizione dell’88% delle pubblicazioni scientifiche di economisti ed economiste che, come ha ricordato Andrea Vento dei Giga, hanno abbandonato in Accademia la narrazione neoliberista affermando che i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici non hanno l’effetto di fare aumentare la disoccupazione, così come la precarietà del lavoro non viene ridotta dalle politiche di flessibilità, e quindi la cosiddetta flexsecurity non è in grado di aumentare l’occupazione. 
Questo è il messaggio che ci consegna quel 30% che ha votato “Sì” ai referendum sul lavoro: il pensiero neoliberista è al capolinea, molte persone lo hanno capito, nonostante la narrazione contraria. Esistono economisti ed economiste, come Mariana Mazzucato e Amartya Sen, che lo sostengono da sempre ma il cui pensiero viene marginalizzato, e spesso volutamente oscurato dai media mainstream, omologati alla narrazione neoliberista. Per non parlare del ritardo culturale che contraddistingue chi ci ha governato e ci governa. Chi ha votato “Sì” ha provato a passare la palla in direzione di un cambiamento, pensando ai diritti di tutti e tutte sul lavoro. 

Due parole sull’ultimo quesito, quello sulla cittadinanza, che consentiva a chi risiede sul nostro territorio in modo regolare di aspettare solo cinque anni per chiedere (non per ottenere) la cittadinanza italiana. Gli accertamenti che seguono la presentazione delle domande di cittadinanza possono richiedere moltissimi anni. Gli oppositori di questo referendum si sono ben guardati dal dirlo, se non tangenzialmente. Chi ha votato “No” esprime sia la paura della cosiddetta “invasione”, termine scorretto e di pancia veicolato non solo dalle destre, sia una scarsa conoscenza di ciò che chiedeva il quesito referendario, sia un razzismo di fondo che occorre riconoscere (a tale proposito consiglio a chi legge il libro di alcuni anni fa Sono razzista ma sto cercando di smettere di Guido Barbujani e Pietro Cheli). Se avessero a cuore non la loro rielezione ma il bene del nostro Paese, i partiti oggi al potere, invece di parlare di remigrazione, non affronterebbero con slogan questo tema importantissimo. La questione dell’immigrazione dovrebbe diventare centrale nei dibattiti pubblici, con uno sguardo che tenga conto del declino demografico italiano e dell’importanza del contributo che la popolazione migrante regolare dà e ha dato al nostro Paese.

Per andare avanti dobbiamo fare pressione su giornaliste e giornalisti corrette/i, su direttori e direttrici editoriali di riviste e canali Tv per realizzare una consapevolezza maggiore su questi temi e sulle leggi che se ne fanno carico per regolamentarli. 

Due modeste proposte per il futuro, data la situazione mutata rispetto al 1970: forse un quorum così alto per la validità del referendum abrogativo in tempi di astensionismo non si giustifica più. O lo si alza anche per la validità delle consultazioni elettorali politiche oppure lo si abbassa, magari aumentando il numero delle firme necessarie a richiederlo (da cinquecentomila a un milione almeno. Per questi referendum ne sono state raccolte 4 milioni). 
Infine una notazione di carattere costituzionale: il voto è diritto e dovere civico secondo l’articolo 48 della Costituzione. Astenersi, per non far raggiungere il quorum, non ritirando le schede o non presentandosi al seggio, può essere una scelta legittima durante una consultazione referendaria. Ciò che non si può tollerare è che una Presidente del Consiglio e la seconda carica dello Stato, insieme a molti/e Ministri/e della maggioranza, incitino al non voto. Coloro che fanno parte delle istituzioni, come ci ha bene insegnato Nilde Iotti, devono essere super partes e assicurare il buon funzionamento delle stesse e degli strumenti di democrazia diretta, su cui purtroppo questa volta c’è stato un boicottaggio neanche tanto mascherato. 

Guardare indietro, a ciò che per noi ha fatto chi ci ha preceduto, potrà servirci in futuro ad andare avanti nella strada della diffusione della conoscenza ai fini della partecipazione e della cittadinanza attiva per coloro che si sono astenuti/e. Lo hanno chiesto tutte le persone che sono andate a votare e che costituiscono comunque un patrimonio di civiltà non ascrivibile ai partiti, che peraltro hanno cercato di condizionare l’interpretazione del voto.

P.S. La citazione iniziale riguarda il rugby. Spero faccia piacere ai nostri lettori e alle nostre lettrici sapere che più della metà del pubblico del rugby appartiene al sesso femminile. 

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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