Decostruire l’archetipo del materno

Durante il corso di ‘Psicologia delle emozioni’ siamo state coinvolte nella realizzazione di un podcast di gruppo sulle tematiche di genere, focalizzandoci sugli stereotipi — e la loro decostruzione — e la violenza di genere.  
Nella mia percezione del compito, il fine era quello di fornire uno strumento utile che servisse come un vademecum sonoro, una guida a cui attingere per orientarsi nella società attuale, nelle sue distorsioni e nelle barbarie a cui, sempre più quotidianamente, sono sottoposte le donne. 
L’obiettivo comune era sollecitare quel cambiamento che ci vede coinvolte in prima persona; un cambiamento di cui volevamo sottolineare il nostro protagonismo: non solo come primo soggetto destinatario ma anche come primissimo soggetto attivo del processo. 
Mentre noi ci affaccendavamo in ricerche, dibattiti e confronti, la notizia della sentenza di ergastolo di Alessia Pifferi dominava la rassegna stampa di tutte le testate giornalistiche e dei media nazionali, inframezzando la sequela di articoli in cui, a differenza di questo caso, le donne erano le vittime e non i carnefici.  
Dall’inizio del 2024 al 13 maggio dello stesso anno — giorno in cui Pifferi venne dichiarata colpevole di omicidio volontario con l’aggravante dei futili motivi e della parentela di primo grado con la vittima — nel nostro Paese le donne vittime di femminicidio sono state trenta. A queste, si sommano tutte quelle sopravvissute a stupri, violenze domestiche e tentatati omicidi. 

Naturalmente, l’infanticidio della piccola Diana ci ha scosso profondamente: come persone, figlie e potenziali madri. Ma nell’ambito di quello che stavamo facendo, mentre rivolgevamo tutte le nostre emozioni più tristi e sofferenti verso la piccola, allo stesso tempo soffermavamo la nostra attenzione sulla costruzione che i media nazionali ci restituivano della personalità della madre e della vicenda e ci domandavamo se certe retoriche e sentenze popolari non fossero esse stesse degli stereotipi, parte di una costruzione più antica e radicata di un archetipo del materno miope e illusorio. Così decidemmo di dedicare le nostre due puntate del podcast alla decostruzione di questo archetipo proprio a partire da una riflessione sull’infanticidio. 
Di fronte all’escalation di femminicidi e violenze contro le donne, assumere questa prospettiva, scegliere un tema così delicato, in cui sono le donne a essere autrici di violenza, è stato indubbiamente difficile e, per certi versi, anche particolarmente rischioso: il pericolo di essere fraintese, di essere tacciate di balordaggine era dietro l’angolo. Tuttavia, se l’intento era quello di disfare gli stereotipi di genere nella loro totalità, allora ritenevamo necessario considerare anche gli aspetti più scomodi. E, poiché, quando si tratta di omicidi commessi dalle donne, sono gli infanticidi a occupare la prima pagina dei giornali — proprio in virtù della trasgressione alle convenzioni comuni che essi determinano — decidemmo di cominciare da lì. 
Per farlo iniziammo dalla lettura della Medea di Euripide. 

«O Terra, e tu, raggio splendente del Sole posate il vostro sguardo, posatelo su questa donna nefasta prima che cali la mano assassina sui figli, uccidendo se stessa». 

Per diventare tali e sopravvivere al corso del tempo, gli stereotipi devono essere condivisi e ribaditi, se poi diventano parte integrante della comunicazione e struttura portante della narrazione sociale hai fatto centro: lo stereotipo si radicherà, diventerà il modo invisibile e inconsapevole per categorizzare il mondo e chi lo abita. C’è poi un altro aspetto degli stereotipi di genere: sono figli orfani di madre. Le parole di Virginia Woolf, di Simone de Beauvoir, di Luisa Muraro e di tante altre sono state e rimangono parole dette all’orecchio in un dialogo a due silenzioso; ma quelle di Aristotele, Comte, Hegel, Lombroso e gli altri sono una musica ad alto volume di cui la nostra cultura e la nostra società sono la cassa di risonanza. 
Nemmeno la trattazione della donna omicida è sfuggita alla stereotipizzazione. Essa si deve, in particolar modo, a Cesare Lombroso, oggi riconosciuto come il padre della criminologia moderna. 

In La donna delinquente. La prostituta e la donna normale, il criminologo sosteneva che la bassa criminalità femminile fosse determinata da una maggiore debolezza e inferiorità intellettuale delle donne e dalla loro minore sensibilità al dolore, tratto quest’ultimo che le accomunerebbe agli animali.  
A detta dell’antropologo, l’assenza di intelligenza, di coraggio e di vigore fisico nelle donne determinerebbe il minor tasso di criminalità femminile e sarebbe la prova dell’inferiorità rispetto all’uomo, cui invece si riconosce la dote del raziocinio. Le donne, a differenza degli uomini — potenziali criminali solo se affetti da alienazione di tipo fisico, comportamentale o morale — presenterebbero i caratteri propri del primitivo e del criminale iscritti nella loro natura ma la loro inferiorità intellettiva e fisica impedirebbe loro di compiere atti delittuosi.  
Vi sono, tuttavia, le cosiddette “pazze morali”, ovvero quelle donne incapaci di provare affetto o compassione che, situate in una zona grigia tra la follia e la criminalità, vengono fatte rientrare nella categoria delle delinquenti proprio in virtù della loro incapacità a provare quei sentimenti affettivi che si ritengono naturalmente femminili e indissolubilmente legati alla maternità. La mancata adesione al modello della madre accudente e devota di queste donne sessualmente libere e indipendenti era, secondo il criminologo, un ulteriore segnale della loro degenerazione; un elemento che le rendeva pericolose e colpevoli, non solo rispetto alla legge ma anche all’ordine che si riteneva naturale.  
Il materno si voleva per definizione caritatevole, affettuoso, devoto e amorevole. 

Anni più tardi, lo psicologo e psicanalista tedesco Erich Neumann, nella sua opera Die Grosse Mutter (1955), esplorò le dimensioni archetipiche e simboliche del femminile nella psiche collettiva, mostrando come bene e male possano coesistere. La Grande Madre di Neumann è, appunto, l’archetipo primordiale, il prodotto della fusione della Brava madre, accogliente e nutriente, e della Terribile madre, distruttiva e soffocante. 
Sulla scia delle lezioni junghiane, lo psicologo recupera il concetto di archetipo — teorizzato come elemento costitutivo dell’inconscio collettivo, come immagini primordiali o forme preesistenti della psiche che influenzano il modo in cui tutta l’umanità esperisce il mondo — e concettualizza l’archetipo della Grande Madre, in cui il termine Madre incarna non solo la relazione biologica personale, ma anche un’entità più simbolica.  

La Madre come archetipo può manifestarsi come la personificazione della cura, della generatività, della protezione, del nutrimento e dell’esistenza. È una figura che trascende la madre biologica per diventare un simbolo universale di fertilità, terra, natura, rappresentazione di una forza creatrice primordiale e potente. L’attributo Grande sottolinea ulteriormente la sua importanza e superiorità simbolica, in quanto figura che è al tempo stesso creatrice e distruttrice, fonte di vita e di morte, e quindi rappresentazione dei dualismi fondamentali dell’esistenza e del ciclo di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione. 
Neumann individua nel femminile due caratteri complementari: quello elementare e quello trasformatore. Il primo ha una forte dominante materna, che si traduce nei ruoli tradizionalmente associati alla protezione, nutrizione e cura e che quindi tende alla conservazione. Il secondo pone, invece, l’accento sull’elemento dinamico della psiche, sollecitando l’evoluzione personale e collettiva, verso la crescita e il rinnovamento. Questo processo di metamorfosi porta spesso con sé il rischio di un distacco dall’archetipo materno, e quindi di un confronto con la morte. 

Ci siamo rese conto che la pazzia, da sempre addotta come causa scatenante la furia omicida di una donna, così come l’abuso di sostanze, in realtà è spesso un deterrente narrativo che fa comodo. 
Abbiamo rivisto nella società, in giornaliste e giornaliste, in croniste e cronisti nazionali, il coro della Medea di Euripide: ugualmente invocavano il lume della ragione, dando per scontato che la donna fosse in preda a uno stato di incoscienza, di follia. Eppure, il significato del nome della figlia di Eete ci diceva altro: Medea è scaltra, una donna dagli astuti stratagemmi. 

Nella seconda puntata del podcast, con Maternità in prima pagina: quando la Grande Madre scompare, siamo passate alla pratica, presentando un caso di infanticidio: l’omicidio di Cogne.  
All’epoca dei fatti, nel 2002, l’infanticidio del piccolo Samuele — di cui sua madre Annamaria Franzoni venne dichiarata colpevole e condannata a sedici anni di reclusione, prima ridotti a tredici per indulto e poi a dieci per buona condotta — scosse fortemente l’opinione pubblica, scissa tra la posizione colpevolista e quella innocentista, impossibilitata a capacitarsi del fatto che Annamaria avesse potuto uccidere il proprio figlio di appena tre anni.  
Pazza, malata, inconsapevole, nevrotica, isterica, parzialmente incapace… furono solo alcuni degli appellativi con cui la donna venne apostrofata. 
Nel privarla di quel raziocinio che si vorrebbe connaturato all’essere umano era chiaro l’intento di volerla disumanizzare, ovvero di renderla più vicino all’animale così da poter rassicurare l’audience, ricercando una causa che potesse giustificare un atto tanto atroce e che consentisse di non impegnarsi in riflessioni eccessivamente astruse e potenzialmente lesive di quello che si ritiene essere il senso comune. Naturalmente, il ricorso alla pazzia era anche uno stratagemma intentato dalla difesa per riuscire ad assicurare alla donna una riduzione della pena, se non l’assoluzione. 

Nel 2010, su una testata nazionale apparve la frase: «Il buon senso impone che nessuna donna può uccidere la creatura che ha portato in grembo e continuare a vivere; a meno d’essere pazza». L’associazione ricorrente tra la follia e il campo semantico del materno è funzionale all’obiettivo: il sensazionalismo ricercato con le parole inerenti il materno serve ad attrarre il pubblico; l’invocazione alla pazzia a tranquillizzarlo. 
Si tratta di un meccanismo di stigmatizzazione: se la premessa socialmente condivisa è che le donne, per natura, posseggono l’istinto materno, fatto di cura, devozione e affetto, laddove esso non si manifesta — e parliamo di tutte quelle situazioni in cui la maternità, così come socialmente intesa, non si manifesta nelle forme canoniche — allora, per tutelarne lo statuto, è necessario spiegarlo attraverso il filtro del disturbo mentale. 
Questo è quanto i giornali scrissero in merito all’omicidio di Cogne: «Annamaria Franzoni soffre di un conflitto interiore; è una donna dalla personalità disturbata; è incapace di intendere e di volere; è affetta da vizio parziale di mente…».
Tuttavia, nella perizia psichiatrica disposta dalla P.M. Maria Del Savio Bonaudo, si legge chiaramente: «Le indagini hanno permesso di escludere, a carico di Anna Maria Franzoni, una patologia psichiatrica importante. In particolare, dalle indagini praticate non sono emerse condizioni (quali ad es. una epilessia o una sindrome dissociativa) tali da poter avallare che la Sig.ra Franzoni possa aver messo in atto il delitto e poi aver scotomizzato gli avvenimenti, non avendo pertanto consapevolezza e coscienza del fatto commesso. […] Per quanto concerne l’ipotesi di una sindrome dissociativa, si fa presente che le indagini effettuate portano all’esclusione della stessa. Quanto ad un quadro depressivo, che, secondo la letteratura, potrebbe supportare un reato di figlicidio, certamente nell’attualità questo è in parte presente, come situazione reattiva; ma molteplici, evidenze tendono ad escluderlo in relazione al momento del reato».  
La perizia psichiatrica smentiva così la narrazione giornalistica e televisiva di massa. 
Sulla stessa falsariga, si collocavano anche la tendenza della cronaca nazionale a infantilizzare l’autrice del crimine, nel tentativo di ricondurre le sue capacità intellettive a uno stato primordiale, e il ricorso alla deumanizzazione che qualche giornale mise in atto, parlando di un istinto insano e selvaggio che avrebbe colto Franzoni al momento dell’assassinio.  
Anche in questo caso, le asserzioni dei media vennero confutate dalla perizia psichiatrica. 
La stereotipizzazione non riguardava esclusivamente l’azione ma anche la reazione. Le aspettative sociali esigono, infatti, che una madre non possa sopravvivere senza il proprio figlio o che, comunque, debba reagire con manifesta disperazione. In merito, sebbene si tratti di tutt’altra situazione, ricordo un documentario sulla tragedia di Vermicino in cui si raccontava delle accuse di scarsa sensibilità che una parte dell’opinione pubblica rivolse a Franca Bizzarri, la madre del piccolo Alfredo Rampi, per aver mangiato un gelato mentre assisteva inerme ai vani tentativi di soccorso del proprio figlio. 
«Annamaria sarebbe schiava di un meccanismo psicologico che però le garantisce così di sopravvivere. Perché ricordare quello che ha fatto la porterebbe a correre un rischio troppo alto, quello di morire, togliendosi la vita». Secondo quanti commentarono il delitto di Cogne, il mancato suicidio dell’infanticida sarebbe il frutto di un’alterazione psicologica. Se così non fosse, per istinto naturale, la donna avrebbe dovuto togliersi la vita dopo l’assassinio del proprio figlio, estensione del sé.  

Questa concezione che vede la prole come organo distaccato del corpo femminile è profondamente radicata: sintomatica, è l’enfasi che i quotidiani pongono nei casi di femminicidio in cui il padre uccide la donna e i loro figli per eliminare qualsiasi traccia terrena della vittima. Troppo spesso, in queste narrazioni, l’identità parentale dell’uomo viene ridimensionata perché la preservazione della prole non si riconosce come connaturale del maschio ma dovere esclusivo del femminile. 
Il tentativo del nostro lavoro non era, chiaramente, quello di giustificare né tantomeno di colpevolizzare. Non ci competeva. Piuttosto, ci impegnavamo in un esercizio di riconoscimento… Riconoscimento di quel raziocinio che è prerogativa di volontà e agency, negativa o positiva che sia, e che Lombroso, e tanti dopo di lui, continuano a negare alle donne, sia nel bene che nel male. Ci appellavamo contro la tendenza dilagante ad associare il femminile all’animale, non per negare quelle virtù e quelle doti che rivendichiamo di condividere con esso, come la forza generativa e la feroce determinazione, ma piuttosto per rivendicarci come creature pensanti.  
E poi, non essendo ancora madri e non sapendo se la maternità farà parte del nostro destino, ci interrogavamo sul materno e su quella singolarità individuale che, seppur legata, vorremmo mantenere anche mettendo al mondo una figlia.  

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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