«Per favore, fai finta di niente, ma mentre giri tra i banchi dai un’occhiata a Sara: ho il sospetto che stia copiando». Il collega Jean ha assegnato un bel tema in classe sul legame tra empatia e lavoro di cura, argomento quanto mai appropriato per il nostro corso di operatori e operatrici per l’assistenza sanitaria e socio-assistenziale. La nostra quarta è un’ottima classe, piena di gente sveglia e volenterosa. Ma, a sorpresa, alunni e alunne sembrano in difficoltà, non trovano argomenti, sono sprovvisti di idee e di esempi. E dire che hanno già svolto due anni di tirocinio, di esperienza ne hanno da vendere. Con la mia insospettabile aria da prof. di sostegno serena e incoraggiante, passeggio tra i banchi, chinandomi di tanto in tanto per bisbigliare un «tutto ok?» alle e agli amanuensi di turno, con il segreto obiettivo di verificare che non abbiano tra le mani appunti o cellulari. Ma questa volta la gola mi si secca dopo la prima fila e mezza di studenti: stanno copiando in massa: dai cellulari. Ma se li hanno messi a inizio mattina nell’apposita cassetta all’ingresso dell’aula, come è possibile che li abbiano con sé? Che ingenua che sono: se ne sono portati due. Uno per le regole e l’altro per la trasgressione, uno per tranquillizzare i/le prof. e l’altro per portare a casa la sufficienza. Gemini e ChatGpt stanno lavorando a pieno ritmo, chi tra le gambe di un ragazzo, chi sotto il velo di una compagna e chi — i miei preferiti — direttamente sotto il foglio, tanto la luminosità dello schermo, se portata al massimo, traspare tranquillamente dal bianco della carta. Sono attonita e disorientata, non so che fare. Mi avvicino a Sara che, come chiunque qua dentro, sta trascrivendo una frase dall’Ia.
Sì, collega Jean, Sara sta copiando, come il resto della classe. Mica è la più scema del villaggio, dico. Mi chino a leggere cosa la nostra alunna sta riportando sul foglio. Non ci posso credere. «Ma io non so», le bisbiglio, «non vedi che ci sono parole, dentro lì, che non useresti mai? Sai cosa significa l’espressione “sconfiggere l’hybris personale per aprirsi a un legame paritetico tra fragilità”?». Mi guarda come se non le stessi chiedendo nulla di pertinente (che c’entra capire, l’importante è produrre), accenna ad un no con la testa e poi, come colta da un lampo improvviso, mi sussurra a sua volta: «Dice che il prof si accorge?». Vorrei metterle le mani addosso. Non è questo il punto, accidenti! «Non lo dico, lo so. È una certezza. Sarebbe idiota a non accorgersene. Spegni quella stupida funzione e lavora con la tua testa, che ne sei capacissima!» rispondo a voce un po’ troppo alta. Il collega Jean, dalla cattedra, guarda verso di noi. Gli faccio un segno con la mano, per tranquillizzarlo: qui tutto ok. «Prof, così mi fa beccare!» si agita Sara. «Vada da qualcun altro, non stia qui!» (sottotesto: «Vada a rompere le scatole a qualcuno che non sia io, per amor del Cielo!»). «Guarda che se scrivi quelle cose hai il 4 assicurato. Fidati, non c’è speranza: è del tutto evidente che non è farina del tuo sacco», le dico, allontanandomi e facendole segno di spegnere il telefono. La lascio lì, indecisa sul da farsi. Passo alla compagna, che sta copiando una complessa perifrasi piena di punti e virgole e di parentetiche. «Eccone un’altra che scrive senza capire! Ma siete la generazione degli sms, nemmeno sapete cosa sono le frasi incidentali, che cavolo le usate a fare?» le dico sottovoce. «Prof, si sbaglia: non ho scritto la parola “incidentali” da nessuna parte io, guardi». «Lascia perdere… non è il tuo stile questo, si capisce lontano un chilometro», le dico, in tono deciso. «Qual è il problema? Perché non ci metti semplicemente le tue idee, in questo tema? Guarda che state copiando tutti, consegnerete ventiquattro compiti identici alla fine dell’ora», rincaro.
«Prof, io non lo so fare questo tema. O copio o consegno in bianco», mi risponde, acida. «Ma provaci, almeno, cavoli! Nemmeno il tempo di scrivere la traccia ed eravate già tutti lì con i telefoni in mano!». «Si vede che la traccia è troppo difficile». «Si vede che voi non avete nessuna fiducia nelle vostre intelligenze». «Può essere, ma il 5 non lo vuole nessuno». «Meglio prendere un 7 immeritato, frutto dell’intelligenza artificiale?», la provoco. «Assolutamente sì!» mi risponde e poi torna a chinarsi sul suo piccolo schermo tra le ginocchia.
Abbiamo perso, Jean. Abbiamo passato un’idea di scuola che fa schifo, che non ha valore, che è fatta di molti numeri e zero sostanza. Una scuola che è performance e non processo. Che è apparenza e non verità. Una scuola che è un ballo in maschera, dove nemmeno la musica la suona più un’orchestra vera.
Quello riportato qui sopra è soltanto uno dei moltissimi episodi in cui sono incappata quest’anno circa l’uso che fanno i nostri alunni e le nostre alunne della neoarrivata intelligenza artificiale. Di cosa si tratta? Sto parlando di quel campo dell’informatica che si occupa di creare macchine e sistemi in grado di simulare capacità umane, come ragionare, imparare, risolvere problemi, prendere decisioni e percepire l’ambiente circostante. I sistemi di Ia elaborano grandi quantità di dati per identificare schemi e tendenze, e possono adattare il loro comportamento per raggiungere specifici obiettivi, agendo in autonomia o fornendo suggerimenti. Noi docenti stiamo imparando a usarla per snellire il nostro lavoro, soprattutto sulle parti più noiose e lunghe: creare verifiche e materiali didattici, comporre verbali, fare riassunti, schemi, generare immagini, selezionare o modificare parti di brani ecc. I ragazzi e le ragazze però, come sempre, viaggiano ad un’altra velocità. Loro generano video e musiche, modificano qualunque contenuto, creano appunti, trovano risposte e soluzioni a quasi tutti i problemi didattici. Finirà che si affideranno a Gemini anche per trovare l’anima gemella, appena si stancheranno dei giochi di conoscenza, esplorazione e seduzione tipici della loro età. Anzi, sospetto che qualcuna/o lo abbia già fatto. E quando anche la ricerca dell’amore diventa artificiale, allora siamo a un passo dalla catastrofe.
Sui siti di formazione che invitano noi docenti a diventare sempre più competenti sull’argomento, vengono evidenziati alcuni vantaggi che l’Ia dovrebbe portare al mondo della scuola. Ne riporto alcuni.
Grazie all’analisi dei dati e all’apprendimento automatico, i sistemi basati sull’Ia saranno in grado di valutare le abilità e le lacune di ciascuna/o studente, offrendo percorsi educativi su misura. L’Ia, insomma, diventerebbe garante della personalizzazione dell’offerta formativa.
L’Ia introdurrà tutor virtuali che saranno in grado di offrire supporto personalizzato alle/agli studenti e di rispondere alle loro domande, di fornire spiegazioni dettagliate e proporre esercizi aggiuntivi per consolidare la comprensione.
L’introduzione di sistemi di valutazione, basati sull’Ia, cambierà radicalmente il modo in cui misuriamo le competenze studentesche. Gli algoritmi di valutazione automatizzata saranno in grado di valutare non solo la correttezza delle risposte, ma anche il processo di pensiero delle/dei discenti. Questo consentirà una valutazione più completa delle abilità cognitive e promuoverà un approccio più incentrato sullo sviluppo delle competenze.
Garantire l’uso dell’Ia nell’istruzione significa favorire i valori fondamentali dell’uguaglianza, dell’inclusività e della responsabilità. La scuola del futuro, plasmata dall’Ia, potrebbe essere un luogo in cui ogni studente può prosperare e prepararsi adeguatamente per un mondo in rapida evoluzione.
Non so a voi, ma a me questo elenco un po’ spaventa. Anzitutto per il linguaggio, che guarda alla/o studente come a un insieme di dati analizzabili e utilizzabili per migliorare l’offerta formativa e ottenere da lui/lei migliori performance. Ma questo modo di considerare le persone, a mio avviso, svilisce l’educazione a favore di un concetto puramente utilitaristico della formazione scolastica, riduce la crescita umana completa e felice al solo ruolo sociale di discenti/produttori/consumatori. Ci si prepara al mondo e alla vita se si diventa persone a tutto tondo, non solo se si acquisiscono conoscenze, competenze e successo economico. Se l’educazione, come questo elenco sembra suggerire, si riduce a semplice istruzione, al processo ciclico di “spiegazione dei contenuti in classe — studio a casa — interrogazione/verifica”, allora possiamo dire che l’intelligenza artificiale può sostituire i/le docenti, riuscendo anche a fare meglio di loro. Ma la professione docente è — o almeno dovrebbe essere — molto altro.
Il rapporto Unesco 2021 (Reimagining our futures together. A new social contract for education) lo spiega bene: «La conoscenza professionale dell’insegnamento si basa sul dialogo tra teoria e pratica e si sviluppa attraverso la riflessione individuale e collettiva su un repertorio crescente di esperienze. Non ci sono mai due situazioni pedagogiche identiche, e questo fa parte di ciò che rende il lavoro relazionale degli insegnanti insostituibile anche dalle macchine più sofisticate. La pedagogia è ciò che permette a ogni studente di essere parte di un rapporto umano con la conoscenza, di accedere a un mondo con intelligibilità, creatività e sensibilità. Non si può re-immaginare i programmi di studio e la pedagogia senza la presenza degli insegnanti» (pag. 89).
E così la domanda reale diventa: cosa fanno davvero gli/le insegnanti? Qual è il loro compito e il loro ruolo? Forse, in questo momento storico, il più grande merito dell’intelligenza artificiale è quello di costringerci a fare i conti non solo con quel che siamo, ma, anche e soprattutto, con quel che vogliamo essere. Ci basta trasmettere saperi per sentirci bravi e brave insegnanti? Allora forse dovremmo farci da parte. Portiamo con noi in classe l’amore per il nostro lavoro, la curiosità per i nostri e le nostre alunne, il gusto di condividere tempo e scoperte con loro, gesti gentili e incoraggianti? Abbiamo un’etica da incarnare, dei messaggi umani e sociali da portare, una verità esistenziale da cercare insieme, dei sogni e delle esperienze da condividere, dei modelli in carne e ossa da proporre, delle fragilità da mettere sul piatto senza farcene fagocitare? Siamo disposte/i a fare didattica anche con questo bagaglio che appartiene imprescindibilmente alla nostra essenza profonda? Se la risposta è sì, allora nessuna intelligenza artificiale potrà mai valere quanto il nostro essere docenti. E alunne e alunni lo sanno meglio di chiunque altro.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
