La pace sporca. Il numero di agosto di Limes parte seconda

La terza parte del volume di agosto di Limes si intitola Il boomerang americano ed è la più interessante perché offre strumenti importanti per interpretare quanto sta succedendo negli Usa, andando oltre la narrazione superficiale e foriera di fraintendimenti dei media europei. Contro il progresso di Federico Petroni apre la serie di saggi sulla potenza egemone con un’analisi molto approfondita che si può trovare anche sotto forma di podcast sull’app della rivista. Accennerò solo alcuni punti essenziali, rinviando all’articolo tutte le persone appassionate di geopolitica, docenti comprese/i. Il progetto della nuova destra americana, che mette insieme, per noi inspiegabilmente, i tecnofuturisti e le persone più tradizionaliste, è sostituire la religione del progressismo con l’amore per la Nazione, il filo rosso che lega tutta la politica del governo Trump: il mancato rispetto dei rapporti tra i poteri costituzionali, il definanziamento di scienza e università, i licenziamenti di moltissimi dipendenti federali, l’abolizione e il disconoscimento di intere agenzie, dagli aiuti umanitari al dipartimento dell’Istruzione. Da ultimo anche la politica di distensioni, tattiche e temporanee, con le altre due superpotenze, Russia e Cina. Il trumpismo non è il delirio di una persona instabile, che i nostri e le nostre opinioniste si sono divertite a psicanalizzare con l’aiuto degli e delle esperte, ma è un progetto di attacco su quattro fronti.

Gli aiuti internazionali prima di Trump

Dietro di sé ha un ideologo, Kevin Roberts, direttore della Heritage Foundation, autore del Progetto 2025, elenco di provvedimenti che dall’inizio del suo mandato il Presidente degli Usa si sta impegnando ad attuare. Una versione aggiornata e precisamente la nona edizione del dossier Mandate for leadership, che risale al 1981, sotto la presidenza Reagan, come ricorda Marco D’Eramo nel suo Non c’è una cosa come la società americana. L’attacco è in primis alle élite liberali, di destra e di sinistra, lontane dal popolo da loro ritenuto retrogrado, sorde alle sue richieste e impegnate a imporre la propria visione della società, non condivisa dai più; poi all’ideologia di queste élite, il progressismo; poi al liberalismo e infine all’ordine mondiale. Petroni, esperto di Stati Uniti per la rivista diretta da Lucio Caracciolo, ha potuto appurare che i trumpisti «non sono mere pedine in balìa delle bizzarrie di Trump, bensì una cerchia di intellettuali e attivisti, eterogenea e in continuo negoziato col capo, convinta che, se non si cambia pilota, l’aereo America va a schiantarsi. Non vogliono smantellare lo Stato, ma prenderne il controllo per attuare una rivoluzione culturale. Attaccano il multiculturalismo non per inerente razzismo, ma perché ritengono che sessant’anni di culto della diversità abbiano disintegrato la società americana. Purgano le burocrazie per imporre lealtà non a Trump ma alla loro idea di nazione. Pertanto, colpiscono le università non per odio verso la cultura, ma per sostituire l’attuale pedagogia, piatta e materialista. Non mirano a un mondo governato dalla collusione con le autocrazie, non pensano proprio che il mondo possa essere governato. Non hanno truffato il popolo, chi li ha votati sa benissimo cosa vogliono. Non li si può attaccare soltanto parlando di difesa della democrazia; alle orecchie degli elettori suona come difesa dello status quo che ha privilegiato le élite. Non hanno un mandato popolare illimitato. Però nessuno vuole tornare indietro».

Sofferenza e rilancio del sogno americano

L’articolo prosegue descrivendo la portata radicale e rivoluzionaria dell’agenda dei trumpisti. Da leggere con grande attenzione, accompagnandolo al saggio di uno dei più entusiasti sostenitori di Trump, Eric Tietsel, dal titolo America First = China First, in cui ogni azione del Presidente degli Usa viene letta con lenti completamente diverse non solo da quelle Democratiche ma anche da quelle Repubblicane cui eravamo abituate/i. Altrettanto interessante l’analisi, in punta di economia, di Fabrizio Maronta Clinton il reaganiano, utile per capire dove è finito, come e perché e a quali ceti sociali si appoggia ancora oggi il Partito Democratico americano, dopo 30 anni in cui il New Deal di Roosevelt, già fortemente minato da Reagan, è stato, da Clinton in poi, con l’effetto contagio in Europa, definitivamente smantellato a favore non della teoria dello Stato minimo ma di una politica che osanna il mercato e il ruolo dell’impresa, a cui di fatto delega pericolosamente funzioni che non le sono proprie. Da allora il Partito Democratico ha finito per abbandonare il suo elettorato storico fatto di colletti blu e di «basket of deplorables» (lapsus rivelatore del pensiero di Hillary Clinton, sconfitta da Trump nel suo primo mandato), che troverà espressione, come emerge bene dall’autobiografia di Vance, proprio nel voto riconfermato al tycoon. Oggi i New Democrats hanno tra i loro elettori ed elettrici «professionisti istruiti e mediamente danarosi che vedono con favore la globalizzazione, la filantropia della grande impresa, il potere delle tecnocrazie e lo scarso intervento dello Stato nel mercato. Oggi al Congresso i democratici rappresentano nove dei dieci distretti elettorali che nel 2021 avevano il reddito medio più alto, mentre i repubblicani rappresentano la maggioranza di quelli con il reddito medio più basso», scrive il consigliere scientifico di Limes. Questo articolo, corredato da una ricca bibliografia, è una risorsa preziosa per l’autoaggiornamento delle e dei docenti oltre che un ottimo spunto per approfondimenti nelle classi, se si vogliono dare alle nostre scolaresche strumenti culturali per capire alcune delle cause della transizione egemonica e i suoi solo apparentemente repentini cambiamenti.

Fuori dalla Silicon Valley

Di samestream scrive Matthew Gasda nel suo Un’America deculturata muore d’inedia nell’abbondanza, lettura indubbiamente impegnativa che si apre con una citazione da Moby Dick di Herman Melville. Del cambiamento dell’Università di Berkeley e delle sue cause scrive uno studente, celandosi sotto uno pseudonimo che è un programma, Spartacus. Vi si è iscritto scegliendo discipline in controtendenza con gli studi Stem che imperano negli Usa; Lettera da Berkeley dal vietato vietare al vietato pensare è il suo saggio dal tono piuttosto amaro. Sempre interessante l’approfondimento di Alessandro Aresu Le anime morte d’America, che non si riferisce a Gogol, ma alle “anime morte di Davos”. A chi legge il piacere di scoprire a quali soggetti si riferisce questa definizione. Due articoli si occupano, da posizioni diverse, del dollaro statunitense: ancora oggi principale moneta di scambio e riserva mondiale nonostante il declino dell’economia americana, secondo Il dollaro resta re del capo economista di Vested-Milton Ezrati; mentre Michael Pettis, con Il dollaro mondiale uccide l’America, prospetta le difficoltà di una sostituzione del dollaro e richiama l’idea del “bancor” di Keynes, la valuta internazionale proposta dal grande economista britannico alla Conferenza di Bretton Woods del 1944, poco prima della sua morte, moneta a cui si preferì il sistema dollarocentrico proposto dallo statunitense White.

Il dollaro resta Re
Lo Yuan rosicchia il dollaro

Nell’ultima parte, Diventeranno grandi? che si occupa delle potenze che ambiscono a diventare attrici del nuovo ordine mondiale, si segnala il contributo di Daniele Santoro Imparare dalla Turchia è imparare a vincere che contiene un approfondito excursus sul Pkk di Ocalan e su come la strategia astuta di Erdogan lo abbia ridotto alla resa con enormi vantaggi per la Patria Blu. Lorenzo di Muro commenta Le acrobazie dell’India, recentemente vista all’incontro dello Sco con Narendra Modi fotografato mano nella mano con Putin; Ogi Hirohito del riarmo del Giappone; Lee Sang eun di Corea del Sud con Seoul deve smetterla di giocare col fuoco, ricordando che quello stesso Pete Hegseth, che a marzo aveva detto chiaro e tondo ai Paesi europei che l’America si sarebbe sfilata dalla questione ucraina, ha ammonito i coreani a non continuare la politica della cooperazione economica con la Cina e di quella militare con gli Usa. Il saggio che si occupa di Israele e dei suoi rapporti solidi e indissolubili più di un matrimonio cattolico con gli Usa è in parte superato dalle vicende della fine di agosto che hanno dato luogo, a completamento del genocidio (da ultimo si veda qui) perpetrato da Netanyahu e dai suoi sodali, allo sgombero della striscia di Gaza per trasformarla in Riviera. Anche per quanto riguarda l’Iran la situazione si è in parte evoluta alla luce di avvenimenti recenti, in particolare la proposta di iniziare la procedura per ripristinare le sanzioni Onu contro l’erede dell’antico impero Achemenide, sostenuta da Germania, Francia e Gran Bretagna.

Cosa si gioca l’America con i dazi

Chi ha bene analizzato questa mossa delle tre potenze occidentali è la scrittrice e giornalista freelance Luciana Borsatti, autrice de L’Iran al tempo di Biden, L’Iran al tempo di Trump e Iran, il tempo delle donne, in una intervista che si può ascoltare sul podcast Mondo della rivista Internazionale del primo settembre scorso.

In questo numero della rivista non c’è un contributo femminile, se si eccettuano le mappe di Laura Canali e da un certo punto di vista ce ne si può anche rallegrare, visto che si parla di guerra, che è cosa sporchissima e maschile, cui si può porre fine, come ci ha ben spiegato il direttore nell’editoriale Fiat mundus pereat iustitia, solo con una pace sporca. Tuttavia, visto l’irrigidimento delle potenze europee sulla fine del conflitto ucraino e lo strazio che sta avvenendo in Palestina, nell’assenza di sanzioni da parte dell’Occidente nei confronti di Israele, il direttore di Limes nel suo primo podcast dopo la pausa estiva ha sentito il bisogno di scrivere una lettera ai bambini (e alle bambine n.d.r.) nati il 28 agosto 2025. Forse la “pace sporca” sarà questione di anni e se ne parlerà nei libri di storia di questi ragazzi e ragazze.

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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