«Se qualcuno ti dovesse infastidire a scuola, ricordati di non rispondere alle provocazioni: il bullo non ha soddisfazione più grande del vederti star male». Fu questo l’insegnamento che ricevetti fin da piccola, quando alle elementari venivo maltrattata da certi compagni.
Senza che io lo sapessi, quelle raccomandazioni sarebbero diventate ben presto una lezione di vita, poi applicata nei più vari contesti: se sulla metro un uomo mi guardava intensamente, avevo imparato a non reagire; se la persona che frequentavo mi aggrediva verbalmente, avevo imparato a non reagire; se la notte tornando a casa mi accorgevo che qualcuno mi stava seguendo, anche in quel caso, avevo imparato a non reagire, a non mostrarmi spaventata e mi limitavo ad accelerare il passo rimproverandomi per essere uscita così tardi la sera. D’altronde, mi avevano convinta che la colpa è sempre della donna che osa prendersi qualche libertà.
Ho avuto però la fortuna di iniziare a reagire all’università, non solo grazie al confronto con le preziose amicizie che sono riuscita a coltivare, ma anche grazie a un episodio che mi vide protagonista. Durante il primo anno avvenne infatti un vero e proprio incidente: era il mio primo esame orale, e mi trovavo seduta in fondo all’aula attendendo il mio turno. Quando finalmente venni chiamata per nome, un signore alto, membro della commissione, mi chiese, come da protocollo, che gli mostrassi il documento, e così feci. Quello che accadde dopo mi sarebbe rimasto impresso per tutti gli esami a seguire: il professore, infatti, dopo aver visto il mio documento, mi squadrò e poi esclamò: «Ma qui lei sembra un uomo! Veramente si tratterebbe di lei? Guardi che è davvero brutta in questa foto!». E intanto interpellava gli altri commissari per mostrare a tutti il mio documento personale. Rimasi zitta, mi limitai solo a sorridere, ad annuire, come per mostrarmi d’accordo con lui, come per dire «Beh, effettivamente sono proprio brutta nella foto, come mi sono permessa di presentarmi con un documento del genere?». D’altronde, mi era stato insegnato a stringere i denti e ad andare avanti, e così mi ero condannata a fare.
Accadde però che, settimane dopo, mi trovai per caso a parlare con altri e altre studenti proprio di quell’esame. Scoprii che non avevano avuto la mia stessa esperienza e anzi, quando raccontai la mia disavventura, difesero quel professore: non era possibile, dissero, che quanto lamentavo fosse veramente accaduto. Addirittura finirono con l’elogiarlo, definendolo un’ottima persona, con cui poter persino scherzare in sede d’esame.
In seguito a questo confronto, la rabbia che non ero riuscita a esprimere iniziò a ribollire in me. Come si era permesso quell’uomo di insinuare che nella foto non fossi “abbastanza femminile”? Chi avrebbe deciso questo standard per me senza il mio consenso? Se avessi risposto mettendo in discussione l’autorità del docente, come avrei potuto essere sicura che non ci sarebbero state conseguenze? Era questo che mi aveva bloccato? E pure se fosse, perché finii con il trovarmi d’accordo con lui? Con quali occhi stavo vedendo me stessa? Com’era possibile che, di fronte al mio racconto si dubitasse dell’accaduto? Aveva quel professore un tale prestigio che non sarei mai riuscita a farmi credere?
Nella rabbia finalmente espressa, ero pertanto libera. Non rividi più quell’uomo, ma da quel momento imparai, a mano a mano, a non rimanere indifferente di fronte alle ingiustizie, a non praticare quella sorta di autocensura che mi era stata di fatto tramandata. Ma quante donne sono costrette a subire trattamenti umilianti? Quante devono resistere ogni giorno, talvolta costrette a rinunciare a sé stesse non tanto per compiacere quanto per un mero bisogno di sopravvivenza? Quante non possono mettere in discussione l’autorità per paura delle conseguenze, per paura di un peggio che potrebbe venire? Quante non hanno la libertà di dissentire?
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Articolo di Raffaella Gennuso

Sono una studente di Scienze Politiche con una formazione interdisciplinare in diritti umani, sociologia e relazioni internazionali. Durante il percorso universitario ho avuto modo di approfondire tematiche legate ai conflitti, alla devianza, alle migrazioni e alle dinamiche post-coloniali. Sto cercando di smettere di essere una ritardataria cronica.
