Lunedì 22 dicembre una delegazione del Comune di Francavilla Fontana composta dal sindaco Denuzzo e da due componenti della Cpo, oltre che da Virginia Mariani di Toponomastica femminile e dal sottoscritto, si è recata in visita alla sezione femminile della Casa Circondariale C. Magli di Taranto per consegnare un pacco di libri e una quarantina di copie di “Calendaria”, il calendario che parla di donne e che per il 2026 è dedicato alle giornaliste europee ed internazionali. La delegazione si è poi intrattenuta con un gruppo di donne per un’oretta per una chiacchierata molto piacevole.
Non un semplice gesto di vicinanza, ma un concreto segno di attenzione per seminare conoscenza e consapevolezza attraverso la diffusione di libri sulla parità di genere e non in una sezione maschile ma appunto in un luogo occupato da sole donne. Così, per la prima volta il progetto Cosmopolita, che sta attraversando soprattutto le scuole pugliesi, sbarca in un istituto di detenzione, uno di quelli col maggiore tasso di sovraffollamento in tutta Italia.
A proposito della Casa Circondariale Magli di Taranto il sito del Ministero della Giustizia riporta il dato di 500 posti regolamentari e di 802 detenuti/epresenti alla data del 23 dicembre con un tasso di sovraffollamento del 186%, allarmante eppure inferiore rispetto a quello di altri istituti della Puglia, regione a sua volta col tasso più alto. Foggia è al 220% mentre Lecce ospita 1.341 detenuti a fronte di una capienza di 798 posti.
Sono dati a cui siamo abituati e che non scandalizzano neanche più. O magari per qualcuno sono persino motivo di inconfessabile goduria, in barba a quell’art. 27 della Costituzione che vorrebbe che dopo aver scontato la pena le persone uscissero migliori di come sono entrate in un carcere.

Durante il suo mandato Giorgio Napolitano esercitò il potere riconosciutogli dall’art. 87 c. 2 della Costituzione con ripetuti messaggi alle Camere in cui, tra l’altro, richiamando la Corte europea dei diritti dell’uomo, denunciava il «problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano». Era il 2013. Sono passati più di dieci anni da quelle ammonizioni del Presidente della Repubblica ma la situazione non accenna a cambiare e, se possibile, è persino peggiorata a causa di un clima di indifferenza generalizzato.
L’impostazione ideologica della maggioranza di governo non sembra destare alcuna aspettativa ottimistica.
Non mi soffermerò sulle possibili soluzioni che, a parere del sottoscritto, potrebbero davvero risultare utili e sostenibili per sfoltire le carceri; certamente appare del tutto anacronistico pensare di costruire nuovi istituti e ciò nonostante si tratta dell’unico modo in cui il tema entra nel dibattito pubblico; sembra non trovarvi spazio chiunque non affronti il tema a suon di “buttiamo la chiave!” e come spauracchio per infondere un senso di finta sicurezza che in realtà è come un fuoco che chiede sempre nuova legna per potersi alimentare.
Dichiarava qualche mese fa Meloni, per giustificare il nuovo piano di aumento di 10mila posti: «In passato si adeguavano i reati al numero dei posti disponibili nelle carceri, noi riteniamo viceversa che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena». Insomma, più reati, pene più alte e più carcere in una dinamica che produce detenzione e insicurezza e che ignora studi e dati empirici sull’efficacia delle misure alternative che abbattono di tre volte la recidiva rispetto a chi la pena la sconta nei modi tradizionali, stando in una cella a guardare il soffitto e girarsi i pollici.
L’allora Presidente Napolitano nelle sue missive utilizzava parole chiare e nette a favore di provvedimenti non semplicemente di clemenza ma di vero e proprio ripristino della legalità come indulto e amnistia: «Appare, infatti, indispensabile avviare una decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti, offrendo loro reali opportunità di recupero».
È chiaro che il sovraffollamento rappresenti il problema principale e la vera precondizione ostativa alla soluzione di ogni guasto strutturale e di efficace governo del fenomeno detentivo, fonte di ogni conseguente problema organizzativo. La galassia carceraria, come la chiamava Pannella, è ancora oggi ignorata nella sua totalità, emarginata, tenuta lontana dai nostri sguardi come polvere da nascondere sotto al tappeto per preparare soluzioni che sono un mix di incapacità e mancanza di coraggio.
Mantenere le carceri nell’illegalità non serve alle persone detenute ma non serve neanche allo Stato.
Il numero dei suicidi ha superato quota 70: in cella ci si toglie la vita 18 volte più di quanto non avvenga fuori ed è un dato che non dice neanche tutta la verità perché nasconde quei tentativi di farla finita che non vanno in porto e che chi opera nelle carceri sventa quotidianamente. Ma il tasso è due volte più alto anche tra agenti di polizia penitenziaria dove si arriva all’1,3% contro lo 0,6 dell’esterno.
Un problema nel problema è la questione femminile in una realtà come quella detentiva pensata (male) solo per gli uomini.
I reati che vedono protagoniste le donne sono in prevalenza i furti mentre secondo i dati del Ministero 327 gli omicidi nel 2024 (-2,1% rispetto al 2023) di cui 116 vittime sono donne (si stimano 106 femminicidi) e 211 uomini, uccisi per mano di un altro uomo nell’85% dei casi.
Va evidenziato che la popolazione femminile detenuta si attesta intorno al 4% (circa 2.700) rispetto a quella complessiva; a Taranto, sono 25 posti contro 43 persone detenute.
Restando al tema della detenzione, un’interessante analisi riportata sul sito sistemapenale.it ha messo in evidenza la criticità delle sezioni femminili all’interno delle carceri maschili mostrando che «le detenute assegnate a carceri femminili hanno una probabilità di recidiva inferiore tra gli 8 e i 16 punti percentuali rispetto a quelle assegnate a sezioni femminili in carceri maschili». Si legge: «La riduzione della recidiva causata dallo scontare la pena in un carcere femminile risulta maggiore quando, per confronto, si considerano carceri miste in cui la dimensione della sezione femminile (sia in termini relativi sia assoluti) è particolarmente ridotta, così che le donne rappresentino una componente ancora più marginale della popolazione detenuta».
In Italia esistono quattro istituti per sole donne mentre la stragrande maggioranza si trovano in istituti misti.
Solo a mo’ di esempio: a proposito della Casa Circondariale di Taranto si legge sul sito di Antigone che al contrario della sezione maschile «il padiglione femminile è privo di area verde, di palestra e di aule scolastiche. Non vi è un’area passeggi adeguata e presenta una evidente carenza di spazi da destinare alle esigenze trattamentali e rieducative».
Non solo. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi: pensiamo all’offerta lavorativa inferiore a quella degli uomini essendo ristretta ad attività come il ricamo e l’uncinetto; stesso dicasi per la disparità nell’accesso agli studi universitari.
Non è un caso che l’ordinamento penitenziario affronti il tema delle donne in modo specifico solo in due articoli: l’art. 14 a proposito di assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati e l’art. 42 bis a proposito di traduzioni (trasferimenti).
Occuparsi di carcere e di esigenze femminili significa avere un obiettivo chiaro che è il recupero della persona, non il suo abbrutimento, la riduzione del reo a soggetto da schiacciare e annientare. Non serve a niente, non serve a nessuno.
In una recente lettera, da Rebibbia, l’ex ministro Alemanno ha scritto efficacemente: «Continua a sfuggire a chi amministra l’istituzione penitenziaria che il detenuto è una persona sempre davanti ad un bivio: da un lato ha una strada che lo porta a incrementare il suo risentimento e la sua capacità criminale, dall’altro la via verso un pieno reinserimento sociale sorretto dalla ricostruzione della propria coscienza. Ogni volta che questa coscienza viene offesa e umiliata è come se chi rappresenta lo Stato spingesse la persona detenuta ad andare per la strada sbagliata».
L’auspicio è che voci di persone che hanno avuto ruoli di primo piano possano servire a far ragionare un legislatore cinico e ideologizzato.
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Articolo di Sergio Tatarano

Avvocato e assessore comunale si è sempre impegnato per la promozione dei diritti individuali e delle libertà; ha promosso l’adozione del linguaggio non sessista in ambito amministrativo nonché le intitolazioni femminili di parchi. Ha pubblicato il saggio giuridico Fine vita: ragioni giuridiche a sostegno di una legge ed è uscito nel 2025, per Key editore, Il cognome materno.
