Aung San Suu Kyi. Nobel per la pace

Premio Nobel per la Pace nel 1991 «for her non-violent struggle for democracy and human rights»; i proventi furono destinati a potenziare il sistema sanitario e la pubblica istruzione nel suo Paese.

Nata il 19 giugno 1945 a Yangon (Rangoon) in Birmania (oggi Myanmar), è una figura assai nota a livello internazionale per l’impegno politico contro la dittatura instaurata nel suo Paese. La sua biografia è talmente complessa che è difficile anche solo tracciarne le linee essenziali: su di lei sono stati scritti articoli, graphic novel, libri, sono state composte canzoni e testi teatrali, sono stati realizzati film di successo: The Lady, di Luc Besson, nel 2011, e Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, di Marco Martinelli con Sonia Bergamasco, nel 2017. È stata insignita di premi e onorificenze e la sua esistenza sarebbe degna di un romanzo, pur con risvolti dolorosi e tragici, persino qualche ombra.

Era figlia del generale Aung San che si adoperò per l’indipendenza della Birmania dalla Gran Bretagna, ma fu ucciso quando la figlia aveva solo due anni; la madre Khin Kyi, istruita e determinata, si prese carico della famiglia e assunse un rilevante ruolo politico tanto da divenire la prima ministra al Social welfare e la prima birmana a capo di una missione diplomatica, come ambasciatrice in India. San Suu, che ha un talento per le lingue e conosce oltre al birmano l’inglese, il francese, il giapponese, poté poi studiare a Oxford dove si laureò nel 1967 in Filosofia, scienze politiche ed economia. Si perfezionò a New York dove lavorò all’Onu e conobbe il futuro marito Michael Aris, un inglese di fede buddista come lei, esperto di cultura tibetana, che sposò nel 1971 e da cui ebbe i figli Alexander e Kim, entrambi nati in Gran Bretagna. Nel 1988 rientrò in Birmania per stare vicina alla madre ammalata e si trovò a fronteggiare il colpo di stato, a cui reagì con la non violenza imparata da Gandhi.

Una data cruciale fu l’8.8.88 quando centinaia di migliaia di persone scesero in piazza pacificamente chiedendo un governo libero e democratico; l’esercito replicò sparando sulla folla e facendo migliaia di vittime. Il 26 agosto Aung San Suu Kyi tenne un discorso memorabile davanti alla pagoda di Shwedagon, acclamata da mezzo milione di compatrioti/e: fu il suo ingresso ufficiale in politica. Fondò un nuovo partito, la Lega nazionale per la democrazia, e ne venne nominata segretaria generale. Non poteva non farlo, affermò: in nome di suo padre, non poteva restare indifferente alle richieste del suo popolo. Il regime rispose con la legge marziale, l’esercito uccise per le strade circa 3000 giovani, monaci, pacifisti. Il suo partito vinse trionfalmente le successive elezioni, ma i risultati furono annullati, mentre veniva denunciata la pessima situazione sanitaria della popolazione: il New York Times riferì della deportazione di almeno mezzo milione di individui da località infestate da epidemie, mentre l’economia era al tracollo. La Lady fu posta agli arresti domiciliari senza processo e le fu interrotta la linea telefonica. Ha raccontato che si era imposta una rigida disciplina quotidiana: sveglia alle 4,30, meditazione, ascolto della radio; esercizi fisici, lettura, bagno. E poi lavori di cucito, studio, qualche programma televisivo e un po’ di corrispondenza con cui per un breve periodo si tenne in contatto con i familiari lontani. Alla spesa pensava una ragazza, ma le sue condizioni economiche erano modestissime, quindi mangiava poco ed era debilitata, perdeva i capelli, doveva stare ore a letto.

Nel 1991 ricevette il Premio Rafto, il Sacharov per la libertà di pensiero e il Nobel, a cui tuttavia seguì l’espulsione dal partito, pretesa dal regime. Nel 1995 le furono revocati gli arresti domiciliari, ma era comunque costretta a una semi-libertà tanto che poté rivedere il marito solo nel dicembre di quell’anno; sarebbe stata l’ultima volta perché un cancro lo uccise nel 1999 e lei rinunciò alla possibilità di uscire dal Paese, certa che non vi avrebbe più potuto fare ritorno. Viste le pressioni internazionali, le venne concessa maggiore libertà di azione; un attentato (30 maggio 2003) mise a rischio la sua vita, si salvò per la pronta reazione dell’autista ma morirono nel sanguinoso agguato almeno una settantina di suoi seguaci. Fu messa nuovamente agli arresti domiciliari, mentre la sua salute peggiorava e si resero necessari ricoveri ospedalieri. Il papa, l’Ue, gli Usa, la pubblica opinione facevano sentire voci di protesta; intanto l’Università di Bologna le conferì la laurea honoris causa e il Congresso americano le assegnò la massima onorificenza. Nel 2007 Aung San Suu Kyi uscì dalla prigionia, ben presto riconfermata a causa di una serie di pretesti e di false accuse. Finalmente arrivò il 2010 e sembrava che il passato fosse concluso per sempre. Dopo dieci anni riuscì a parlare al telefono con il figlio Kim e lo rivide. Ebbe un seggio in Parlamento, poté riprendere a viaggiare e ritirò ufficialmente il Nobel. Dopo le nuove libere elezioni, ricevette vari ministeri e dal 2016 divenne Consigliera di Stato, una carica più o meno corrispondente a quella di Capo del governo.

Aung San Suu Kyi ritira il Premio Nobel nel 2012

Agli inizi del 2021 un nuovo colpo di stato ha funestato il Paese, così è stata arrestata insieme al presidente e imprigionata, nonostante la vittoria elettorale del loro partito. Su di lei piovvero le accuse più varie: corruzione, importazione illegale di walkie-talkie, violazione di una serie di leggi, anche in relazione alla pandemia da Covid 19; condannata a quattro anni di prigione, ricevette il perdono del capo della giunta militare e la pena fu ridotta a due anni.

Mentre scriviamo questo testo, apprendiamo (Corriere della sera, 28 aprile 2022) che sulla Lady gravano ulteriori accuse che le potrebbero procurare una condanna fino a 163 anni di carcere; intanto si sa che ha subìto un processo-farsa a cui nessuno ha potuto assistere, se non gli avvocati difensori. Avrebbe ricevuto una borsa con 600.000 dollari in contanti e lingotti d’oro per un milione e 300.000 dollari, su cui non esiste alcuna prova. E non è ancora finita: a breve dovrà rispondere di altre 17 accuse, pertanto la pena potrebbe essere assurdamente lunga. Ma Aung San Suu Kyi, provata nel fisico, si avvicina ai 77 anni, trascorsi fra continui timori per la propria vita, aspettative negate, speranze e fallimenti, fino a scelte personali difficili, come quella di non veder crescere i figli e di non riabbracciare il marito morente, sempre con la speranza di condurre la Birmania verso una pacifica democrazia. Sulle sue esperienze umane e politiche ha scritto alcuni libri, pubblicati anche in Italia: Liberi dalla paura (2005) e Lettere dalla mia Birmania (2007), entrambi presso Sperling & Kupfer; La mia Birmania (conversazione con Alan Clements) è uscito da Tea nel 2010.

Rohingya in fuga. Foto di Allison Joyce (Getty Images)

Come dicevamo all’inizio, un’ombra grava su di lei da quando, nel 2017, è stata accusata dalla Nobel per la Pace Malala Yousafzai di aver tollerato violenze contro l’inerme popolo Rohingya, una minoranza di fede musulmana da sempre perseguitata ed emarginata, considerata apolide, costretta alla fuga in massa verso il Bangladesh o verso Indonesia, Thailandia, Malesia. Oltre centomila delle persone rimaste sono finite in campi di prigionia. Si tratterebbe di un vero genocidio per il quale la Lady non ha speso parole di condanna, lasciando che oltre 300 dissidenti venissero processati. L’inviato dell’Onu e rappresentanze di associazioni umanitarie non hanno avuto accesso in Birmania per verificare la situazione. Si sono levate proteste da leader politici, cantanti di fama mondiale, sindacati, mentre città, istituzioni, università le hanno ritirato premi e onorificenze. Le è stata tolta la cittadinanza onoraria canadese, Amnesty International le ha revocato il premio di Ambasciatrice della coscienza, intanto il governo del Gambia ha posto il caso alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Nel 2019 Aung San Suu Kyi ha potuto difendersi dalle accuse di aver “coperto” i crimini dei militari, ma non è apparsa molto convincente, tanto che la Corte ha stabilito una reale situazione di pericolo per il popolo Rohingya per cui il governo birmano dovrà vigilare al massimo per la sua tutela e riferire periodicamente, apportando documenti e prove concrete. Situazione controversa, dunque, che getta un sospetto su una figura altrimenti esemplare, a quanto pare destinata a non avere eredi.

Qui le traduzioni in francese, inglese, spagnolo e ucraino.

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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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