«Tutta di verde mi voglio vestire, tutta di verde per Santo Giovanni, ché in mezzo al verde mi venne a fedire il mio diletto, il mio bel giovinetto».
Ebbene sì, tutte le volte che ci penso o che se ne parla in qualche approfondimento di cronaca a me viene in mente questa poesia. In realtà è una canzone popolare che Gabriele D’Annunzio riprese e modificò nel suo romanzo Il trionfo della morte: il verde e poi a seguire il bianco e il nero sono i colori che simboleggiano le fasi dell’amore: la passione, la fedeltà e l’abbandono.
E così, purtroppo, è attualmente per molte aziende che per dimostrare la loro grande ‘passione’ per l’ambiente… si vestono di verde!
Si chiama greenwashing ed è una strategia di marketing che le aziende utilizzano per apparire più sostenibili quando, in realtà, non lo sono. Aziende che inquinano ma utilizzano per esempio il colore verde, che associamo naturalmente all’ambiente, nei loro loghi e nelle loro campagne pubblicitarie per migliorare l’immagine del proprio marchio senza apportare, però, cambiamenti effettivi nella loro produzione.
Dunque siamo in presenza di una pratica di comunicazione che vuole creare un’immagine falsamente positiva dell’impatto ambientale di un’azienda, un’organizzazione o addirittura di un’istituzione politica, una vera e propria forma d’inganno che cerca di nascondere o minimizzare gli effetti negativi delle proprie attività o dei propri prodotti sull’ambiente.
Alcuni esempi di greenwashing sono quelli di Eni, Coca-Cola, McDonald, che sono state accusate di fare pubblicità ingannevole o di non rispettare le proprie promesse di sostenibilità. Eni è stata accusata di greenwashing per aver sponsorizzato eventi e campagne pubblicitarie che promuovevano il suo impegno per la sostenibilità e la tutela dell’ambiente, mentre continuava a vendere e produrre combustibili fossili, responsabili del cambiamento climatico e della distruzione degli ecosistemi. In particolare, Eni è stata criticata per il suo progetto di riforestazione in Zambia, chiamato Luangwa Community Forests Project, che avrebbe dovuto compensare le sue emissioni di CO2 acquistando crediti di carbonio da progetti di conservazione delle foreste. Tuttavia, secondo Greenpeace e ReCommon, questo progetto sarebbe basato su stime aleatorie e non verificabili, e non risolverebbe il problema dell’inquinamento causato dalle attività estrattive di Eni.
Coca-Cola è stata accusata di greenwashing per aver fatto pubblicità ingannevole sulle sue bottiglie di plastica, sostenendo di usare plastica riciclata o proveniente da rifiuti marini, mentre in realtà è stata riconosciuta come la maggiore inquinatrice di plastica al mondo. Inoltre, Coca-Cola ha promosso il gas naturale come un combustibile “pulito” e “verde” nelle sue riviste aziendali, ignorando il suo impatto sul clima e sull’ambiente. Coca-Cola ha anche cercato di presentarsi come un’azienda attenta alla sostenibilità e al benessere dei consumatori e delle consumatrici, lanciando prodotti come Coca-Cola Life, una bibita a basso contenuto calorico con etichetta verde e dolcificata con stevia. Il prodotto, però, non ha avuto successo e, anzi, ha suscitato critiche per la sua scarsa salubrità e per il suo tentativo di cambiare la reputazione del brand. Insomma, sono stati subito scoperti!
McDonald è stata accusata di greenwashing per aver lanciato il suo primo ristorante a zero emissioni di carbonio nel Regno Unito, mentre continuava a servire carne di manzo, il prodotto più dannoso per il clima e la biodiversità. Inoltre, McDonald ha fatto dichiarazioni vaghe e poco credibili sui suoi obiettivi di riduzione delle emissioni, sul riciclo dei suoi imballaggi e sul benessere degli animali, senza affrontare il problema principale del suo modello di business basato sui combustibili fossili. McDonald ha anche cercato di attirare consumatori e consumatrici con prodotti vegetali, ma senza offrirli in modo capillare e senza rinunciare alla carne.
Nella lotta al greenwashing non mancano scienziate e attiviste e, anzi, davvero sono molte le donne protagoniste della lotta per la salvaguardia del clima e della biodiversità, come le più conosciute Greta Thunberg, Kamala Harris, Anne Hidalgo e, prima ancora, Severn Suzuki.
Mi piace, altresì, ricordare anche la dr.a Natasha DeJarnett, epidemiologa ambientale e direttrice del progetto di salute climatica del National Environmental Health Association (Neha), che ha lavorato a lungo per mettere in evidenza il greenwashing nell’industria del carbone, e poi la dr.a Rebecca Willis, professoressa di ricerca sulla politica ambientale presso l’Università di Lancaster, che ha scritto ampiamente sull’importanza di affrontare il greenwashing nelle politiche climatiche. Per concludere anche Laura Berry, direttrice esecutiva di un’organizzazione non profit chiamata The good trade, che si concentra sulla promozione di prodotti etici e sostenibili e che ha lavorato per sensibilizzare le persone sul greenwashing nell’industria della moda; e infine, Jane Goodall, primatologa e attivista ambientale, che in tempi non sospetti ha lavorato per molti anni per mettere in evidenza il greenwashing nella produzione di cibo e nella conservazione della fauna selvatica.
Per scoprire il greenwashing, dunque, bisogna prestare attenzione alle informazioni e ai dati che supportano le dichiarazioni ambientali delle aziende, e verificare se sono certificati da organi autorevoli.
Chiunque voglia difendersi da questa pratica può seguire alcuni consigli:
- osservare criticamente la comunicazione aziendale, facendo attenzione a linguaggi vaghi, aleatori o troppo tecnici, etichette false o contraffatte, affermazioni non verificate o non verificabili
- informarsi sulle fonti e i dati che supportano le dichiarazioni ambientali delle aziende, verificando se sono certificati da organi autorevoli e indipendenti
- preferire prodotti e servizi che abbiano una certificazione ambientale riconosciuta a livello nazionale o internazionale, come l’Ecolabel europeo o il marchio Fsc per i prodotti di carta e legno
- evitare il consumo eccessivo e scegliere prodotti duraturi, riparabili e riciclabili
- denunciare i casi di greenwashing all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), all’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (Iap) o a un’associazione a tutela dei consumatori e delle consumatrici.
La poesia di D’Annunzio continua finendo con «Tutta di nero mi voglio vestire, tutta di nero per Santa Maria, ché in mezzo al nero mi venne a lasciare il mio diletto, il mio bel giovinetto»: che sia propizio questo colore se, passando per la “passione” nel tutelare e custodie l’ambiente nel quale viviamo, significherà finalmente “abbandono” di questa deleteria prassi!
Valentina Spotti, “Ancora sul greenwashing”, Tech Economy, 04 novembre 2019
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Articolo di Virginia Mariani

Docente di Lettere, unisce all’interesse per la sperimentazione educativo-didattica l’impegno per i temi della pace, della giustizia e dell’ambiente, collaborando con l’associazionismo e le amministrazioni locali. Scrive sul settimanale “Riforma”; è autrice delle considerazioni a latere “Il nostro libero stato d’incoscienza” nel testo Fanino Fanini. Martire della Fede nell’Italia del Cinquecento di Emanuele Casalino.

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