Se c’è una cosa che ci insegna la geopolitica è non considerarci il centro del mondo, ma invece avvicinare il punto di vista dell’altro per comprenderlo e riuscire a parlarci. Impresa ardua, ma necessaria in tempi cupi come quelli che stiamo vivendo, a dispetto di chi diffida di questa disciplina, divenuta popolare con lo scoppio della guerra per procura tra Nato e Russia in Ucraina. Per raccontare l’ultimo numero di Limes partirò, una volta tanto, dall’appendice all’editoriale di Lucio Caracciolo, Si fa presto a dire globalizzazione, un articolo a più voci, che ha il pregio di definire questo termine, destinato a essere sicuramente ridimensionato, nelle varie declinazioni che a esso sono date dalle varie potenze. Ne consiglio vivamente la lettura, soprattutto nelle scuole, per insegnare ai futuri e alle future cittadine di domani, oltre alla storia e alla geografia, che sono fondamentali e troppo spesso sacrificate dai curricula, quell’identità terrestre o planetaria di cui parla anche Edgar Morin, le cui premesse sono l’ascolto e la capacità di decifrare il pensiero dell’altro/a, riconoscendovi la nostra stessa dignità. Per gli Stati Uniti Globalization è il volto benigno dell’impero americano; per la Gran Bretagna Globalisation è l’antidoto alla perdita del primato; per la Germania Globalisierung è la prosperità senza strategia; per la Francia Mondialisation è l’assoggettamento all’egemonia americana; per l’Italia è la reincarnazione del vincolo esterno; per la Russia Глобализация (globalizacija) è la strategia americana di annientamento della sovranità russa; per la Cina 全球化 (quanqiuhua) è ‘Unire tutto il globo terrestre’ con la Cina al centro; per l’India वैश्वीकरण (vaishvīkaraṇa) è il sistema di matrice occidentale, strumento di sviluppo interno e di ascesa a potenza.
Limes definisce la globalizzazione come «l’ideologia dell’egemonia americana. Grandiosa utopia che promette di integrare il mondo nel mercato ed entrambi nell’America. Non negli Stati Uniti. Nell’American way of life, marchio e sostanza dell’impero a stelle e strisce. Impero non della ma per la libertà, […] annuncio della vocazione espansionista coltivata dalle élite statunitensi. Mercato, mondo e benigno impero universalista compressi in equazione semplice…» La «bufala della globalizzazione», come la chiama Caracciolo, è arrivata al capolinea e non funziona più. Un mondo rotondo, globale, a egemonia americana, quello che si immaginava negli anni ’90 del secolo scorso e nella prima parte di questo non esiste più. Era un’idea «vestita di economia» che aveva al suo interno una seria elaborazione delle dottrine economiche del neoliberismo, bene indagato nei suoi elementi di crisi dall’articolo di David Singh Grewal L’autunno del neoliberismo, secondo le quali un libero mercato lasciato libero di funzionare, fondato sulla libera circolazione contemporanea di merci, persone e capitali avrebbe sempre raggiunto il suo equilibrio e si sarebbe naturalmente espanso in tutto il mondo. Ma capitale, lavoro e merci non sono parti di un’unica coreografia, ci ricorda il Direttore di Limes, e circolano secondo modalità e velocità diverse. Il mercato libero, poi, non è mai esistito, né in natura né nella realtà se non nelle formule astratte e nei grafici dei marginalisti; d’altronde la sua espansione è stata piuttosto deludente, perché non ha portato pane, libertà e pace attraverso il commercio internazionale e ha dato ragione all’analisi di Karl Polany, «critico del fondamentalismo mercatista e apologeta delle istituzioni politiche, ineludibili nella ricerca del migliore equilibrio economico». Per spiegare il clima e gli anni del grande mito della globalizzazione, affermatosi tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente, l’editoriale ricorda un dialogo tra Richard Trumka, allora presidente dell’Afl-Cio, massimo sindacato americano, e un non identificato uomo del governo Clinton. «Il sindacalista avverte che la ricetta neoliberista abbasserà drasticamente i salari. Risposta: «Lo so. I salari andranno giù. Poi risaliranno». «Quando?». «In tre o cinque generazioni». I commenti li lasciamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori.

«Egemone è l’impero che viene percepito garante di interessi generali mentre persegue i propri». Oggi non è più così. Siamo davanti a un cambio di paradigma. L’editoriale, dal titolo L’importanza di non essere globali, prosegue con moltissimi spunti e richiami storici, per comprendere il presente, il più interessante dei quali è alla figura di William Walker, poco noto in Italia ma da conoscere per la sua impresa di espansione degli Usa, tendenza da evitare per ogni potenza egemone, come ricordava in punto di morte Augusto al figlio Tiberio. Vi incontreremo anche “I tagli” di Fontana, Elon Musk, definito “anarchico devoto”, un richiamo a Marlon Brando e a Queimada di Pontecorvo, uno a Joseph Conrad e tanto altro che alimenterà la nostra curiosità e sarà puro piacere: i riferimenti a Talleyrand e al centenario Kissinger, alle transizioni egemoniche e all’intelligenza artificiale, allo strapotere dell’economia finanziaria e alla differenza tra limes e limen. Caracciolo si sofferma sulla difficoltà degli Usa di affrontare anche la sfida demografica, rappresentata da una popolazione mondiale che è arrivata a 8 miliardi e nell’arco di pochi decenni potrebbe sfiorare i 10. Dal 2007 l’umanità è concentrata in maggioranza nelle città, a causa del declino rurale. Tante persone concentrate in poco spazio significano disordine o difficoltà di ordine. Se guardiamo alla composizione della popolazione mondiale quella formata dagli Usa, dagli Europei, dal Giappone e dalla Corea del Sud più gli alleati degli Usa in Asia e Oceania rappresenta a fatica 1 miliardo e 200 milioni di persone, un ottavo del totale. Si può ancora pensare di trasferire l’American way of life ai sette ottavi rimanenti?

La rivista di geopolitica di maggio si compone di quattro parti: Che cosa è (stata) la globalizzazione, I travagli del numero uno, Gli “alleati” smarriti e L’abbaglio del Sud globale. Le carte di Laura Canali sono sempre precise e stimolanti, come la copertina, descritta sul canale YouTube dell’artista cartografa. In nota di ogni saggio si trova un ricco apparato di note per soddisfare tutte le nostre curiosità.
La scelta degli articoli da commentare, tra i tanti, tutti molto interessanti, come sempre non è facile. Mi soffermerò soprattutto sul tema della globalizzazione e delle sue metamorfosi, accennando brevemente alle parti terza e quarta, peraltro meritevoli di essere lette. Sul travaglio del Numero Uno, esaminato nella seconda parte, invece sarà indispensabile riferire, per le conseguenze inevitabili che un suo default provocherebbe nel mondo e perché agli Usa siamo legati indissolubilmente, come dimostra anche la posizione filoatlantista senza possibilità di discussione assunta dall’Italia sulla guerra in Ucraina.
Cronaca di un decoupling annunciato di Fabrizio Maronta esordisce con lo storico ed entusiastico discorso di Bill Clinton nel 9 ottobre 2000 sull’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), di cui riporto alcune parti significative: «Sostenere l’ingresso della Cina nell’Omc non attiene solo ai nostri interessi economici, è chiaramente anche nel nostro più ampio interesse nazionale. Si tratta dell’opportunità più significativa che abbiamo dagli anni Settanta di indurre un cambiamento positivo nel paese asiatico. […] Questo accordo è una strada a senso unico: richiede alla Cina di aprire il suo mercato […] ai nostri prodotti e ai nostri servizi in misura inedita. […] Credo che quello tra vantaggi economici e diritti umani, tra sicurezza economica e sicurezza nazionale, sia un falso dilemma. Certo, l’ingresso nell’Omc non creerà dall’oggi al domani una società libera in Cina, né garantirà che il paese rispetti le norme internazionali. Ma nel tempo muoverà la Cina nella giusta direzione, sempre più velocemente. […] Se dunque credete in un futuro di maggiore apertura e libertà per il popolo cinese, se credete in un futuro di maggiore prosperità per il popolo americano, se credete in un futuro di pace e sicurezza per l’Asia e per il mondo, allora dovete approvare questo accordo». Un esempio del Washington Consensus e del mondo a guida unipolare di quegli anni. In sintesi, «tra gli anni Novanta e i primi Duemila il connubio Cina-Usa è stato una manna per entrambi i paesi e ha rappresentato il motore primo della globalizzazione. Oggi assistiamo all’involuzione di questa interdipendenza, che da collante diventa motivo di attrito».

C’è voglia di sganciamento e di sglobalizzazione. Ma non è così semplice. Come ricorda Maronta, «il carattere esasperatamente transnazionale delle filiere del valore rende difficile fotografare con accuratezza statistica le dinamiche del commercio internazionale. Gli iPhone, esempio banale ma lampante, sono assemblati in gran parte a Zhengzhou, in Cina, poi spediti negli Stati Uniti da Shanghai al prezzo di circa 240 dollari l’uno. Il valore aggiunto ascrivibile a Pechino non raggiunge tuttavia i 10 dollari a pezzo, in quanto la Cina assembla componenti prodotte in gran parte da Giappone, Taiwan e Corea del Sud, che insieme fanno oltre il 50% del costo di fabbrica. Quando Washington impone alla Repubblica Popolare dazi su singoli prodotti o categorie merceologiche, finisce dunque per imporli anche ai propri». L’analisi dell’economia americana e di quella cinese nel tempo è accurata e mette in rilievo i punti deboli e le difficoltà dei contendenti. Con questa osservazione finale: «Le reciproche accuse sono false e vere al tempo stesso, in quanto additano condotte reali frutto però, in non piccola misura, dell’incapacità di affrontare i rispettivi problemi. Incapacità che spicca soprattutto nel caso dell’America, la cui statura e il cui senso di sé le forniscono meno scusanti». In appendice a questo articolo sarà sorprendente leggere, in Come ti frego l’America, un’intervista con un petroliere italiano, quali soggetti coinvolgano le triangolazioni che consentono di aggirare le sanzioni imposte alla Russia e tanto altro, con soluzioni insospettabili e naturalmente poco raccontate dai media generalisti. Un’acuta e articolata critica marxiana alla globalizzazione, conseguenza inevitabile del capitalismo, sistema economico storicamente e intrinsecamente espansionistico, viene dal professore americano Richard D. Wolff, in un’intervista lucidissima dal titolo L’impero americano è finito, ma l’America non lo accetta.

La globalizzazione, secondo Wolff, è stata un gigantesco affare per il capitalismo americano e per gran parte delle economie europee. Ma ha un risvolto: la modernizzazione della Cina e la sua trasformazione in potenza economica, finanziaria, politica, militare e sempre più culturale. Questo processo non accenna a rallentare e non c’è niente che possa arrestarlo. «Nel lungo termine la Cina non ha interesse a superare il capitalismo, ma a padroneggiarlo per farne strumento di potenza al servizio dell’interesse nazionale. Senza però alterare la propria natura politica e dunque il ruolo del Partito comunista, circostanza che gli Stati Uniti hanno compreso appieno solo negli ultimi anni. Colti alla sprovvista da questa tardiva epifania, ora reagiscono in modo muscolare e autolesionistico». Il punto di vista dello storico sulla globalizzazione è quello di Sandro Rogari, che lo contestualizza e si avventura, verso la fine della conversazione con Maronta, in un’ipotesi su quanto potrebbe succedere dopo la sua crisi. L’approfondimento del Dottorando in Filosofia Giuseppe De Ruvo fornisce una prospettiva intrigante sostenendo che tutto ciò che è globale è occidentale. Da segnalare, sempre a cura di De Ruvo, una chicca del numero di maggio della rivista di geopolitica, verso la fine di questa prima parte: la traduzione dell’intervista rilasciata da Michel Foucault alla rivista francese Hérodote nel 1976, il cui titolo originario era «Questions à Michel Foucault sur la géographie», a cui è stato dato il titolo Lo spazio è sempre strategico.
Disincanto americano di Federico Petroni apre l’approfondimento sugli Usa e ne spiega con molti dati ed esempi la crisi sottolineando che la sua popolazione non vuole più farsi carico del mondo. Preoccupano certi segnali come la contestazione della globalizzazione, alla base del primato statunitense, la disillusione verso la missione universale di evangelizzare il pianeta, la sfiducia nelle istituzioni, anche quelle militari, la delegittimazione dell’élite. «Benché ostili ai progetti russo-cinesi, gli americani non morirebbero per l’Ucraina, forse neanche per Taiwan». Così scrive l’esperto conoscitore degli States, ricordando anche i leaks del Pentagono che hanno invaso la rete e la vicenda dell’aviere Texeira. Come sempre interessante è l’approfondimento del geopolitico George Friedman, Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno, che, modificando in parte quanto aveva scritto nel suo libro The Storm Before The Calm, riflette sulla ciclicità delle crisi americane e sulla capacità di superarle, sottolineando la forza navale dell’America. È sorprendente ripercorrere con l’autore tutte le crisi della potenza egemone e le sue ripercussioni a livello globale, il modo in cui i Presidenti le hanno risolte e l’importanza delle innovazioni tecnologiche nel loro superamento, in omaggio alla teoria della distruzione creatrice di Schumpeter. «Oggi le rivendicazioni sociali sono al picco d’intensità; questioni morali, religiose e culturali continuano a lacerare il sistema americano — scrive Friedman — I fallimenti bancari, e ciò che li ha causati, non riescono a mettere da parte questi problemi. […] I rapporti problematici tra organi federali come la Corte suprema e il Congresso aggravano il livello di sfiducia e incomprensione tra popolo e istituzioni». (Su questo punto una lettura interessante che mi permetto di suggerire è quella della testata online di alcuni giovani radicali statunitensi, Portside Labor).

Una fortissima tirata d’orecchie all’Ue e significativamente a Macron viene da Atkinson nel suo articolo Il mondo deve restare americano, il più efficace a far comprendere a noi europei l’ostilità statunitense alla Cina e la percezione del pericolo che essa rappresenta di diventare potenza egemone. Vi si fa appello alle teorie hamiltoniane, con una fortissima critica al pensiero unico neoliberista che ha imperato in America e non solo in questi ultimi 30 anni, si definiscono “ottusi” alcuni nostri governanti che vorrebbero “la botte piena e la moglie ubriaca”, perché «rifiutano di accettare che gli sforzi fatti dagli Stati Uniti per sfidare la Cina intendono proteggere non solo l’America, ma soprattutto l’Europa». La denigrazione nei confronti di Macron, che non vuole l’Ue “vassalla” di Pechino o di Washington, è massima. Un articolo fieramente anticinese che rifiuta di vedere la Cina come un Paese in via di sviluppo ma tende a sostituirla, mutatis mutandis, all’Unione Sovietica della Guerra fredda come nemico numero uno e ignora, a mio parere colpevolmente, quanta influenza abbiano avuto gli Usa sulla nostra sovranità in tutti questi anni.

Il saggio per me più stimolante di questa parte è quello di Alessandro Aresu, Sanzionismo, malattia senile del globalismo. Per «sanzionismo» l’autore intende «la profondità e il travaglio della storia statunitense d’intervento geopolitico sull’economia e sul commercio. Un tema che oggi riguarda soprattutto vecchie e nuove filiere tecnologiche, per ragioni di sicurezza nazionale. […] L’ascesa delle sanzioni, come sofisticazione delle operazioni di blocco e boicottaggio, porta il cielo del doux commerce — l’idea che l’aumento dei commerci sia in grado di sostenere la pace — su un terreno più concreto, di misurazione e logistica del mondo». Una sfida tra Cina e Stati Uniti raccontata magistralmente da Aresu, che si svolge soprattutto sui semiconduttori, con il ruolo fondamentale dei Paesi del Sudest asiatico. L’aumento delle sanzioni è una conseguenza della crisi della globalizzazione e può, alla lunga, essere foriero di crisi commerciali e finanziarie nel sistema economico mondiale, soprattutto perché è ormai una sfida tra Usa e Cina, che assomiglia a un gioco in cui nessuno dei due giocatori vuole perdere. In appendice a questo saggio segnalo la piacevole lettura di Tik Tok vs Silycon Valley, che racconta come si sta attuando, nonostante le resistenze americane, il piano originario geniale di TikTok e di Pechino: «sottomettere il nemico senza combattere»
La terza parte comprende solo tre approfondimenti, uno sulla Polonia, uno su Taiwan e uno dal titolo La Germania inerte, in cui si riferisce, tra l’altro che secondo un sondaggio dell’Istituto YouGov «soltanto un cittadino su dieci sarebbe disposto a difendere la Germania se venisse attaccata. Appena il 5% si offrirebbe volontario. Un giovane su quattro tra i 18 e 34 anni sceglierebbe di lasciare il paese. Sarebbero più di sei milioni di persone.»
L’abbaglio del sud globale (modo un po’ ipocrita di nominare il Terzo mondo) si dedica alla politica dei due forni del Sudafrica, cooptato nei Bric oggi Brics dalla Cina, e sul riaccendersi dell’attenzione dei media sul continente africano, a lungo dimenticato dagli Usa e lasciato alle mire e agli investimenti cinesi, ricordando l’astensione o l’assenza dall’aula, nel marzo dell’anno scorso, di venticinque Stati africani al momento del voto sulle due risoluzioni Onu, approvate a larghissima maggioranza, che condannavano l’aggressione russa all’Ucraina, comportamenti che hanno impedito di fatto l’isolamento internazionale di Vladimir Putin. Altri approfondimenti riguardano la Nigeria, il Brasile, che sogna la Cina ma sposa l’America, la Cina, vero nemico Numero Uno degli Usa, la posizione ambigua dell’India tra Putin e Biden e infine la Russia, di cui si occupano due articoli, il secondo a firma Orietta Moscatelli, dal titolo La Russia slitta a est ma spera ancora di non perdere l’Ovest. Moscatelli, grande conoscitrice della Russia, ha il pregio di ricordare il percorso di Putin, su cui i nostri media allineati a quello che Nico Piro definisce il Pub, pensiero unico bellicista, non hanno alcun interesse a soffermarsi, Putin che, solo nel 2007, alla Conferenza di Monaco, cominciò ad allontanarsi dall’ordine europeo e globale plasmato dalla direzione unipolare dell’America e dalla poco pacifica Pax americana. L’articolo scritto a luglio 2021, dal titolo Sull’unità storica di russi e ucraini, avrebbe poi anticipato l’aggressione di febbraio 2022 rappresentando «quasi un annuncio dell’avventura tragicamente speciale per la riconquista di Kiev».

Non si può proprio dire che lo zar russo non avvisi sempre il mondo di quello che ha intenzione di fare e il 24 febbraio 2022 può fissarsi come la data in cui l’equilibrio unipolare a guida Usa è definitivamente tramontato. «In realtà, all’implosione dell’Urss — scrive Moscatelli — la Russia si era aperta alla globalizzazione senza fare e farsi troppe domande. I vertici moscoviti approvarono la “terapia shock” per il passaggio al mercato (concepita con il supporto di università e centri studi americani) per mancanza di alternative dopo l’esaurimento del modello sovietico. Ma anche per farsi accettare dal mondo occidentale. […] Il salto nella globalization sembrava convenire a tutti e comunque a tutti pareva inevitabile. Nel giro di pochi anni, gli scambi internazionali accelerati dall’abbondanza di materie prime e le riforme sul piano interno, davvero traumatiche per una grande maggioranza della popolazione, catapultarono l’erede dell’impero sovietico verso confortanti altezze. Nel 2001, appena tornata tra le prime sette economie mondiali, la Federazione superava la Francia e nel 2008 sorpassava temporaneamente la Germania. […] Sedere al tavolo di chi decide, dialogare con l’America, rispettare e farsi rispettare sembrava a Putin e sodali una missione possibile… Poi venne la firma della dichiarazione del 2002: una nuova qualità generava il Consiglio Nato-Russia come inedita forma di cooperazione che il ministro degli Esteri britannico definiva “i funerali della guerra fredda”, promuovendo Mosca ad “amico e alleato”. Tre anni dopo, un Sergej Lavrov fresco di nomina alla guida della diplomazia affermava che “una schiacciante maggioranza di paesi vuole che la Russia mantenga un ruolo attivo negli affari internazionali”. Quanto all’interazione con gli Usa, il neoministro rilevava il “dialogo molto utile sviluppato con gli Stati Uniti sulla stabilità strategica” e decretava: “Nella lotta al terrorismo dobbiamo essere alleati, semplicemente non c’è alternativa”. Tutti sappiamo quando e come la situazione in Ucraina è precipitata e come nel Donbass ci fosse di fatto una guerra dal 2014 che aveva già fatto migliaia di morti. La Georgia è stata la prova generale, con le armi, della sfida alla gestione americana del mondo. Spiegare l’invasione dell’Ucraina è più complesso. Le stesse autorità russe propongono una scelta multipla di obiettivi: “denazificazione” del regime di Kiev, difesa della popolazione russofona minacciata di genocidio, scontro fatale con Stati Uniti e Nato decisi a cancellare la Federazione Russa dalle carte geografiche». La Federazione russa è stata tagliata fuori dai mercati occidentali e dal sistema finanziario globale con 10.068 sanzioni imposte in un anno.

La politica economica di El’vira Nabiullina, governatrice neoliberista della Banca centrale, in sintonia con il Fondo monetario internazionale, riconfermata per altri cinque anni, ha contenuto i danni e gli effetti delle sanzioni sono stati attutiti sul fronte commerciale da triangolazioni e stratagemmi vari, per preservare l’arrivo delle merci estere nel mercato nazionale. Mosca ha reindirizzato energia e materie prime rifiutate in Occidente verso Cina, India e altri non allineati, battezzando «una “nuova maggioranza mondiale” di fronte a cui la minoranza occidentale non ha più il diritto di dettare legge». Secondo Lucio Caracciolo, Putin è «anti-occidentale contronatura: triste, “sinizzato” e finale», finito suo malgrado nelle braccia della Cina. Non meno interessante per capire la natura imperiale della Russia è l’articolo del filosofo del diritto Gian Marco Minardi, Mosca, l’altra Bisanzio, una eccellente lezione di storia sullo spirito imperiale della Russia, ancora vivo e vegeto. Suggerisco tra i due brani in esergo, che comunicano con la potenza della poesia meglio di tanti ragionamenti, quella di Vladimir (Tan) Bogoraz: «La Russia non è morta; è Pietrogrado che perisce, non la Russia, che ha nove vite come un gatto… La Russia affamata finirà per inghiottire questo mondo nauseabondo, vergognoso ed osceno come se fosse una rana viva e state certi non ne sarà soffocata… Nel ventre di un soldato verrà digerito anche uno scalpello… Lo so, verrà la primavera e la Russia verdeggerà ancora. La Russia sarà salvata dalla forza che l’ha salvata per dieci secoli: la forza della Terra». Intanto la guerra imperversa, l’Unione Europea approva l’invio di nuove armi e munizioni e addestra i militari ucraini, le diverse propagande di regime danno versioni diametralmente opposte, come sempre accade, degli attacchi che subiscono e non si vede all’orizzonte alcun negoziato di pace. Quello che più stupisce è il comportamento dell’Ue, che non si è mai comportata da operatrice di pace, nonostante si sia costituita affinché non si ripetessero più guerre sul suo suolo e invece si è allineata a quello che Nico Piro, nel suo libro Maledetti pacifisti, definisce Pensiero Unico Bellicista, espressione ormai entrata anche nel linguaggio dei media, che la usano, scorrettamente, senza riconoscerne la paternità all’autore. Siamo parte in guerra, ci ricorda da tempo Limes, impegnati nella coalizione che invia armi ostili alla Russia, ma continuiamo a illuderci di vivere come prima dell’età del caos, che inevitabilmente porterà a un nuovo ordine mondiale.
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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