A mia madre

Non è facile raccontare la storia della propria madre in modo oggettivo, realistico, senza alterare la realtà dei fatti con quel groviglio di sentimenti ed emozioni, così complesso, pieno di ombre e luci, del rapporto madre–figlia.
Ci provo.
(Aggiungo che è difficile anche ricostruire la sua vita perché lei non amava narrare il suo passato attraverso racconti compiuti: più che altro, rievocava, attraverso brevi flash, qualche evento o qualche situazione della sua infanzia o della prima giovinezza).

Mia madre si chiamava Francesca Ratini, Franca per tutti, classe 1926 (ma’, mi perdoni per aver detto la tua età, vero?), prima figlia di una numerosa famiglia che si spostava, in mezzadria, tra Casaprota e Montenero.
I ricordi dell’infanzia che condivideva con noi figlie erano episodi spiritosi, che facevano immaginare una bambina vivace, tenera con i fratelli, ricordi dove non comparivano mai accenni alla fatica o alle difficoltà della vita quotidiana di quegli anni. (Come quando, per fare un vestito alla bambola, tagliò le maniche dell’abito buono che sua nonna aveva preparato per essere composta, un giorno lontano, nella bara).

Però una cosa me la raccontò per bene, piena di animosità: avrebbe voluto studiare, fare la maestra – una aspirazione altissima, irrealizzabile in quegli anni per una ragazza come lei. Le fu risposto che aveva una sola strada: entrare in un convento come novizia, studiare fino al diploma e poi “smonacarsi”. Ecco, questa soluzione la offendeva, non era tipo da compromessi o da mezzucci, lei.

L’occasione arrivò quando la Croce Rossa Italiana, nel secondo dopoguerra, a fronte di una Italia da ricostruire, piena di profughi, mutilati, orfani di guerra, iniziò una campagna di reclutamento di giovani donne da formare e da avviare alla professione di infermiera. Mia madre superò la selezione e partì per Roma, senza bagaglio.
Studiò in convitto, guardata a vista dalle suore (per le quali non aveva simpatia) e iniziò a lavorare in cliniche e ospedali. Un ricordo che le piaceva condividere di quel periodo era la paura di attraversare la cappella della clinica dove era conservata la mummia di una Venerabile, ma lei era coraggiosa, questo si è capito.
Da lì è iniziata la carriera di mia madre in Croce Rossa: le cliniche, poi il lavoro al Centro educazione motoria, poi ai servizi logistici, al Magazzino centrale.

Il lavoro è stata la più grande vittoria di mia madre: attraverso quaranta anni di servizio, riconosciuto anche con benemerenze, la ragazza che non poteva essere maestra si è trasformata in una donna realizzata, punto di riferimento per tanti che l’hanno conosciuta.
Dagli anni settanta in poi, posso raccontare la storia di mia madre da testimone privilegiata. Quando lavorava al Centro di educazione motoria, punto di riabilitazione per molti bambini e bambine che, prima dell’avvento della vaccinazione di massa, erano stati colpiti dalla poliomielite, mia madre voleva che mio padre mi portasse con sé, quando andava a prenderla, in modo che io potessi giocare con i suoi protetti, cosicché non avessi mai paura o disgusto per la disabilità.
Ricordo una vigilia di Natale, nel 1989: mia madre si sedette a tavola alle nove di sera, perché la Cri era in emergenza, per mandare aiuti alla Romania, che, in quei giorni, era sconvolta dalla caduta di Ceausescu.
Il momento della pensione fu per lei un momento di crisi, ma la Croce Rossa le permise di continuare il suo lavoro, come consulente, per altri dieci anni. Aveva appreso a usare il computer negli anni del primo sistema operativo, Dos, e delle stampanti ad ago, ed era orgogliosissima di questa sua abilità che, negli anni Ottanta, era patrimonio di poche persone.

A volte, mi soffermo a riflettere sul carattere di mia madre. Aveva i suoi lati ombra, ma qui voglio parlare solo del suo lato luce. Mia madre non amava la nostalgia o la rievocazione dei tempi passati: viveva il presente e guardava il futuro, sempre. Diceva che era felice di vivere la modernità, perché non doveva sottomettersi a nessuno, non c’era più nessun padrone della terra da riverire.
Era molto generosa, non faceva mai mancare la sua presenza e il suo aiuto ed era curiosa, affamata di conoscenza, di vedere posti nuovi, mangiare nuovi cibi, conoscere nuove persone. Adorava sentirmi parlare del mio lavoro, mi chiedeva tutti i particolari dei procedimenti che seguivo, perché voleva rivivere le emozioni del suo amato lavoro. E poi aveva un grande senso dell’umorismo, qualità che, secondo me, viene sottovalutata nelle donne.

Mi ha lasciato nel 2017; il destino le ha risparmiato la consapevolezza del più grande dolore che possa colpire un essere umano.
La prima foto che ho di lei la mostra elegante e sorridente, con una posa sicura, ma aggraziata. Aveva gusti raffinati, amava i colori vivaci e le cose belle. Vestiva me e mia sorella di rosso e di blu, eccezionalmente di bianco nelle grandi feste, mai di rosa.

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Articolo di Maria Pina Egidi 

Vive a Roma, dove è nata. Biologa, esperta di educazione ambientale e sviluppo sostenibile, segue con passione il teatro, la letteratura e la pittura. Combatte, con impegno e fatica, gli stereotipi di genere in ogni momento della vita quotidiana. 

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