Fotografe viaggiatrici. Le visionarie

Nel corso del XX secolo la fotografia si consolida e istituzionalizza, creando dei veri e propri canoni che elevano a titolo di maestro/a numerosi nomi maschili e ben pochi nomi femminili. È il femminismo che per primo pone la questione dello spazio delle donne nella fotografia, proprio nel momento in cui essa si globalizza e smette di essere monopolio occidentale. Le nuove fotografe sperimentano al punto che il confine tra fotografia e installazione/performance artistica diventa sempre più labile, sono sensibili alle questioni ambientali e dei diritti umani, si interrogano su come potersi prendere il loro spazio in un mondo maschile senza essere ridotte al loro sesso. Avanguardiste e al passo con i tempi, l’ultimo volume di Donne fotografe: le visionarie (1970-2010) offre ancora una volta il supporto necessario per esplorare la storia di chi tra queste fotografe ha viaggiato e documentato i suoi spostamenti assumendo punti di vista unici. 

Christine Spengler (1945) è la più famosa fotografa di guerra francese. Nata in Alsazia, si trasferisce in Spagna all’età di sette anni, dove studia sia spagnolo che francese con l’intento di diventare una scrittrice. A ventitré anni segue il fratello Eric in Ciad, dove documentano l’avanzata dei soldati Toubou, fatto che porta al loro arresto e a un breve periodo in carcere. Spengler, nonostante la brutta esperienza, è ormai certa della sua vocazione: vuole immortalare gli effetti della guerra sulle donne e sull’infanzia, senza assumere un punto di vista pietistico ma di denuncia dell’insensatezza della violenza. Nel 1972 racconta gli scontri in Irlanda del Nord per conto del magazine The Nylon, concentrandosi ancora una volta sui civili e immergendosi nella cultura locale. Nel 1973 è in Vietnam, poi in Cambogia nel 1975 dove immortala il bombardamento di Phnom Penh. Nel 1981 va in Nicaragua ed El Salvador per riportare le immagini delle guerre civili; è in Libano dal 1982 al 1984, dove viene arrestata con l’accusa di essere una spia israeliana e poi rilasciata.

Documenta la Rivoluzione iraniana e le tensioni politiche in Bangladesh e Pakistan, la guerra nel Sahara Occidentale, i conflitti in Kosovo e Afghanistan. Spengler è una delle poche tra i fotografi e le fotografe di guerra che predilige il punto di vista dei civili nel pieno del conflitto, fatto che le vale numerosi riconoscimenti, tra cui lo Scam Prize a Parigi nel 1998 e il Femme de l’Année a Bruxelles nel 2002. Parallelamente lavora anche nel mondo della moda, diventando presto famosa per la sua affabilità con modelle e modelli; è pure una scultrice, dedicando piccoli altari ai membri scomparsi della sua famiglia.  

Guardianne de la révolution, Iran 1979
Tchad, 1970

Françoise Demulder (1947-2008) nasce a Parigi e dopo aver studiato filosofia inizia a lavorare come modella. È il suo primo fidanzato, Yves Billyin, ad avvicinarla alla fotografia durante il loro soggiorno in Vietnam: qui decide di immortalare gli orrori della guerra, ed è a Saigon durante la caduta della città; le sue immagini fanno il giro del mondo. Va poi a documentare i conflitti in Angola, Libano, Cambogia, El Salvador, Etiopia, Pakistan e Cuba, nonché la guerra tra Iran e Iraq. È una delle poche giornaliste presenti a Baghdad quando la città viene bombardata a seguito dello scoppio della guerra del Golfo. Tra i suoi viaggi figura anche l’Antartide, dove si reca per fotografare i suoi animali preferiti: i pinguini. È la prima donna a vincere il World Press Photo, nel 1977, per l’immagine che ritrae una palestinese che supplica un soldato falangista durante il massacro del quartiere Karantina, a Beirut Est.  

L’esercito comunista entra a Saigon
The Palestinian quarter “La Quarantaine” in Beirut, 1976

Susan Meiselas (1948) è una fotografa statunitense. Nata a Baltimora, studia a New York e ad Harvard Educazione visuale, per poi organizzare laboratori di fotografia in varie comunità e nelle scuole. Tra il 1972 e il 1975 segue le vite delle spogliarelliste nelle fiere in New England, Pennsylvania e Sud Carolina, immortalandole sia durante le loro performance che nella vita privata, foto che confluiscono nel lavoro Carnival Strippers. Sul finire degli anni Settanta fotografa la rivoluzione sandinista in Nicaragua – di cui scatta l’immagine simbolo: Molotov Man – mentre nel 1981 testimonia la distruzione di alcuni villaggi da parte del governo di El Salvador e il massacro di El Mozote. Tra il 1991 e il 1997 cura un progetto fotografico sulla storia del Kurdistan, riassunto poi nel libro Kurdistan: In the Shadow of History e nel sito web akaKurdistan. Nel 2004 torna in Nicaragua per mostrare le foto scattate durante l’insurrezione e rimettersi in contatto con i suoi soggetti, documentando come sia cambiata la loro vita a distanza di anni. Nel 2007 diventa presidente della Magnum Foundation, di cui ha contribuito alla nascita, col fine di migliorare la collaborazione tra fotografi e fotografe, e promuovere i più giovani. Il suo progetto più recente è incentrato sulle donne rifugiate nel Black Country nell’area delle Midlands Occidentali, in Inghilterra, confluito poi nel libro A Room of Their Own del 2017, che testimonia ancora una volta l’attenzione che da sempre riserva al modo in cui la fotografia può essere usata in maniera politica. 

A street fighter. Managua, Nicaragua, 1979
Molotov man

Marilyn Bridges (1948) si avvicina alla fotografia grazie al padre. Nel 1976 realizza il suo primo reportage in Perù, scattando delle foto aeree sopra le linee preistoriche di Nazca, le più antiche mai realizzate dall’essere umano. Delusa dal risultato ottenuto, però, si mette in contatto con la Nasa per perfezionare la propria tecnica; torna quindi in Perù per ritentare i suoi scatti aerei, che ne diventeranno il marchio di fabbrica. Nel 1982 vince una borsa di studio della Fondazione Guggenheim per volare dagli Stati Uniti al Messico e fotografare il paesaggio sottostante, compresi vari siti Maya parzialmente coperti dalla foresta. Una volta ottenuto il brevetto di pilota vola sui monumenti preistorici dell’Inghilterra, sulla Valle dei Re e il Nilo in Egitto, sui siti precolombiani nel Midwest e in California, sui corsi di lava nelle Hawaii e sui ghiacciai in Alaska. Ottiene anche i permessi per volare sopra Calais e il tunnel della Manica, nonché in Vallonia, Grecia e Turchia. Immagini in bianco e nero, fatte con la luce dell’alba o del tramonto, le foto di Bridges sono una prospettiva unica e originale sui siti più antichi del mondo, nonché preziose documentazioni scientifiche.

Nazca, Pathway to Infinity. Perù,1979
Stone Henge, 1985

Martine Voyeux (1948) nasce a Parigi e fin da piccola entra in contatto col mondo della fotografia grazie al padre, che la porta a vederne le mostre. Studia letteratura e cinema prima di collaborare con la rivista Quotidien de Paris scrivendo articoli. Va poi in India, lavorando su set cinematografici. Decide quindi di intraprendere una serie di viaggi nel Mediterraneo e in Portogallo, affascinata dalla cultura del sud Europa, concentrandosi sul modo in cui la luce interagisce col paesaggio e le persone; un lavoro che confluisce in Portraits de corps. In Saga Maure raccoglie invece le foto scattate in Andalusia e Marocco – per il quale vince il premio della Fondazione Angénieux – mentre negli anni Duemila dedica un reportage a Napoli. Nel 1989 è tra le fondatrici dell’agenzia Métis, che in seguito entra a far parte del collettivo Signatured, e collabora con vari ministeri per promozioni culturali e pubblicità. Ha anche realizzato il film Flamenco road, incentrato sulla storia del flamenco in Andalusia, e co-diretto El Cabrero, biografia del cantante e pastore José Dominguez sottoposto a censura a causa di alcuni elementi blasfemi

GRENADE, Andalousie, 1988, Les Suds
Les Suds, Tanger, Maroc, 2008

Anne Noble (1954) è una dei maggiori esponenti della fotografia neozelandese. Nata a Whanganui, completa gli studi nel 1983 presso la Elam School of Arts. Acuta e paziente osservatrice, lavora elaborando una serie di fotografie accomunate da un tema comune: la sua prima mostra, The Wanganui, è una serie incentrata attorno all’omonimo fiume e il suo ruolo nella cultura Maori. La serie Hidden Lives cattura invece la vita degli anziani con disabilità mentali, tema raramente trattato anche nella fotografia, mentre In presence of angels documenta la vita in un monastero di suore benedettine a Londra. Nel 2001 organizza un progetto sull’Antartide, visitandolo ben tre volte, fotografando i vari centri di ricerca e indagando il rapporto tra l’immaginario collettivo della regione e la sua effettiva realtà, nonché le tracce umane lasciate sul bianco suolo del continente. Il suo lavoro più recente, Conversātiō: in the company of bees, è dedicato alle api ed è una denuncia sui rischi della loro estinzione.  

Dead bee portrait nr8

Linda Butler (1947) nasce ad Appleton, Wisconsin, e si dedica alla fotografia negli anni Settanta dopo una carriera da insegnante. Nel 1985 pubblica Inner Light: The Shaker Legacy, una serie sulle nature morte nel villaggio di Shaker, in Kentucky. Il suo interesse è focalizzato sugli effetti della luce proveniente da finestre e altre aperture sugli oggetti quotidiani e gli interni degli edifici. Si trasferisce in Giappone, a cui dedica il secondo libro, Rural apanb, Radiance of the Ordinary, mentre il terzo è dedicato all’Italia, Italy: In the Shadow of Time. La sua ultima fatica è ambientata in Cina, frutto di ben otto viaggi compiuti dal 2000 in poi e raccolti in Yangze Remembered: The River beneath the Lake, che racconta il progetto della Diga delle Tre Gole, mostrando l’impatto di questa imponente costruzione sull’ambiente.  

Mosaic Atrium, Herculaneaum, Near Naples
Moon Window, Japan

Graciela Iturbide (1942) nasce a Città del Messico, la più grande di tredici figli. Il padre è un appassionato di fotografia e le regala la prima fotocamera per l’undicesimo compleanno. Studia cinema prima di diventare assistente di Manuel Álvarez Bravo, docente all’Università di Città del Messico, accompagnandolo nei suoi viaggi. Nel 1970 Graciela perde la figlia Claudia, e per elaborare il lutto si dedica alla fotografia, mezzo che usa non solo per curare il suo animo ma anche per comprendere meglio il proprio Paese e la propria cultura in un momento di forti cambiamenti. La sua prima serie è dedicata agli angelitos, i bambini e le bambine morte in tenera età e alle loro tombe. Nel 1978 le viene commissionato dagli Archivi etnici nazionali del Messico di lavorare su una serie dedicata alle popolazioni autoctone; Iturbide, quindi, va a vivere e lavora con i pescatori nomadi Seri del Messico Nordoccidentale, e poi con gli Juchitán del Sud, una società matriarcale parte del gruppo Zapotec, esperienza che la avvicina al movimento femminista. Viaggia anche a Cuba, Germania Est, India, Madagascar, Ungheria, Francia e Stati Uniti, dove documenta la vita delle comunità messico-americane.  

Mujer, Angel, Sonora Desert, 1979
Nuestra Señora de Las Igua

Mary Ellen Mark (1940-2015) nasce a Filadelfia e mostra sin da piccola un forte estro creativo, disegnando e fotografando. Studia arte e fotogiornalismo all’Università della Pennsylvania, ricevendo anche una borsa di studio che le permette di andare in Turchia per un anno, nel 1965. Mentre è lì ne approfitta per recarsi in Inghilterra, Germania, Grecia, Italia e Spagna, le cui foto confluiranno nel suo primo libro Passport del 1974. Tra il 1966 e il 1967 è a New York, dove documenta le proteste contro la guerra in Vietnam, il Movimento di liberazione femminile, i luoghi della cultura queer e Times Square, sviluppando una grande sensibilità alle questioni più delicate dell’epoca. La sua fotografia si occupa infatti di temi come l’abuso di droghe, l’essere senza una casa, prostituzione e solitudine, senza però assumere uno sguardo pietistico; predilige come soggetti bambine/i e adolescenti, o le persone affette da malattie mentali, con cui spesso instaura un rapporto di fiducia e amicizia. Nel 1981 pubblica Falkland Road dedicato alla prostituzione a Bombay. In India fotografa anche i circhi itineranti, per poi tornare a concentrarsi sulle disuguaglianze negli Stati Uniti. Parallelamente lavora come fotografa di scena per svariati film assieme al marito, con cui cura il docu-film Streetwise, che racconta le storie della gioventù senzatetto di Seattle.   

IRELAND. Donegal County. Tory Island. 1995
Crissy, Jesse, Linda, 152 and Dean Damm in their car. Los Angeles, 1988

Martine Franck (1938-2012) nasce ad Anversa, per poi trasferirsi con la famiglia a Londra poco dopo la nascita. Allo scoppio della guerra il padre si unisce all’esercito britannico mentre il resto della famiglia si rifugia negli Stati Uniti, vivendo prima a Long Island e poi in Arizona. Franck respira l’arte fin da piccola: il padre la porta spesso in giro per mostre e musei, mentre la madre le manda cartoline di quadri famosi quando studia lontano da casa; in più, il suo professore di storia dell’arte la fa innamorare della materia, al punto che decide di studiare arte prima a Madrid e poi a Parigi. Nel 1963 scatta la passione per la fotografia mentre si trova in Estremo Oriente. Tornata in Francia l’anno seguente diventa assistente di Eliot Elisofon e Gjon Mili presso la rivista Time-Life; presto si afferma come fotografa freelance, lavorando per varie riviste di settore e venendo assunta dal Théâtre du Soleil, di cui documenterà spettacoli e prove per più di quarant’anni. Nel 1970, dopo aver sposato il fotografo Henri Cartier-Bresson, lavora per l’agenzia Vu, per poi mettersi in proprio co-fondando l’agenzia Viva, affermandosi come uno dei nomi più importanti della fotografia umanista. Nel 1983 diventa una delle poche donne membro della Magnum Photos. Nel 1993 vola in Irlanda per immortalare la vita della piccola comunità gaelica, viaggiando poi in Tibet e in Nepal dove viene aiutata da Marilyn Silverstone a documentare il sistema educativo dei monaci tibetani Tulkus. Franck è molto conosciuta per i suoi ritratti di importanti figure culturali, come Michel Foucault e Seamus Heaney, nonché per i documentari fotografici sulle donne, sulle comunità marginalizzate o isolate come quella dei tibetani, sugli anziani e anziane, entrando sempre in profonda empatia con i suoi soggetti ed enfatizzando i loro sguardi.  

Raghurajpur, village of painters near Puri. Orissa, India. 1980

Lizzie Sadin (1957) studia inglese e spagnolo alla Sorbona, dopodiché lavora nella formazione e nell’assistenza nelle periferie come educatrice per lavoratori e lavoratrici non qualificate e adulti e adulte analfabete. Ispirata dalla fotografia umanista di nomi come Dorothea Lange ed Eugene Smith, prende in mano la fotocamera a partire dal 1992 volendo mettere in luce quanto viene volutamente tenuto nascosto dalla società, approfondendo questioni relative ai diritti umani come l’immigrazione clandestina, la deforestazione, l’obesità adolescenziale, i minori stranieri non accompagnati e la maternità minorile. Dal 1993 collabora con l’agenzia Rapho, per poi passare a Editing nel 2002. Negli anni Novanta realizza Est-ce ainsi que les femmes vivent?, un reportage sulla violenza domestica in Francia, fotografandone i luoghi come le case famiglia e i pronto soccorso. Negli anni Duemila inizia a viaggiare: si occupa dell’infanticidio delle bambine in India, dei matrimoni minorili in Etiopia, delle donne vittime della tratta di esseri umani in Moldavia, del turismo sessuale in Madagascar e la tratta delle donne in Israele. Parallelamente tra il 1999 e il 2007 inaugura un progetto sulle condizioni dei bambini e delle bambine nelle carceri: Mineurs en peines. Il suo progetto più recente è stato dedicato alla tratta di esseri umani in Nepal, nel 2016. Le sue inchieste le valgono numerosi premi e riconoscimenti, soprattutto da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch e Unicef, con cui collabora regolarmente.  

Saru 27, dance bar, quartier de gongabu, Katmandou april 2017
Rita, 17, Chabahil, northern district of Kathmandu, april 2017

Jill Hartley (1950) nasce a Los Angeles, in California. Presso l’Università dell’Illinois di Chicago studia arte e cinema etnografico, prendendo in mano la macchina fotografica nel 1975 e imparando a usarla da autodidatta, basandosi sulla propria abilità nel disegno. Intraprende un viaggio in Europa, Asia e America Latina, le cui foto vengono pubblicate su riviste come Rolling Stone ed Esquire. Rimane particolarmente affascinata dalla Polonia e dal Messico, Paesi a cui dedica i suoi primi due libri nel 1995. Si trasferisce a Parigi, dove lavora come fotografa freelance e realizza una serie di ritratti che documentano la crescita della figlia. Nel 1997 si sposta in Messico, che usa come base per una serie di progetti su Cuba. Dalle sue foto traspare tutta la curiosità e la voglia di conoscere tipica del viaggiatore/viaggiatrice, ben distinto da quello passivo del/della turista: è lo sguardo di chi cerca di conoscere e comprendere il luogo che visita, senza soffermarsi sulle apparenze. Per Petra Ediciones ha curato dieci libri fotografici per l’infanzia, mentre tra le pubblicazioni troviamo FotoTaroc, un gioco composto da 88 carte fotografiche che vanno combinate in modo che il giocatore o la giocatrice possa trarne significati sempre diversi. Il suo lavoro più recente è una serie sul Congo, Brazaville Autoportrait, incentrato soprattutto sulla street art dei negozi, e un altro dedicato alla quarantena e alla pandemia, Cuarteto de cuarantena, uscito nel 2020.  

Brazaville, Autoportrait 2019
Brazaville, Autoportrait, 2019

Françoise Huguier (1942) nasce a Thorigny-sur-Marne da una famiglia aristocratica, piantatori di alberi della gomma in Cambogia, dove vive da piccola. Inizia a lavorare come fotografa freelance nel 1976, per poi essere assunta dal giornale Libération nel 1983. Assidua viaggiatrice, il suo primo lavoro è dedicato al continente africano, Sur les traces de l’Afrique fantôme, nel 1990. L’anno dopo prende sotto la sua ala i fotografi Seydou Keïta e Malick Sidibé, per poi fondare la prima Biennale di fotografia africana nel 1995 a Bamako, nel Mali. Nel frattempo continua con i viaggi e conseguenti reportage: En route pour Behring, sul soggiorno in Siberia nel 1993; Secrètes del 1996, sulla condizione delle donne nel Mali e in Burkina Faso; Kommunalka, sulla vita negli appartamenti in condivisione a San Pietroburgo, nel 2008; Les Nonnes, sui conventi in Bolivia, nel 2013. Collabora con diverse agenzie e riviste di moda, diventando direttrice artistica di Vogue, Women’s wear Daily e Marie Claire; inoltre, cura progetti su varie zone del mondo come Singapore, la Corea del Sud e la sua cultura musicale, Sud-Est asiatico e l’uso dell’hijab, e realizza una autobiografia sull’infanzia in Cambogia, in cui racconta il suo rapimento per mano dei Viêt Minh, J’avais huit ans.

Afrique du sud, Durban, février 1996
Russia, Siberia, Taïmyr peninsula, Katayrylk, 1992
Russian Great Northern Country.
Dolgan woman.

Dolorès Marat (1994) nasce a Parigi in una famiglia di modeste condizioni economiche. A quindici anni inizia a lavorare come sarta, mentre durante le vacanze estive assiste il fotografo del paese, il signor Froissard, che le insegna i trucchi del mestiere. Si dedica poi alla street photography e dal 1968 al 1995 realizza stampe per l’Oréal votre beauté e per fotografi e fotografe importanti come Sarah Moon. Ispirandosi all’arte e al cinema, Marat rivendica una propria visione artistica della fotografia: dall’Egitto all’India, dagli Stati Uniti alla Spagna, passando per la natia Francia, Marat sfrutta la luce del tramonto per catturare scene quasi oniriche, giocando con la saturazione dei colori per esaltare atmosfere bizzarre ed evanescenti, quasi seducenti. 

The New York Opera Dancer, 2000
Birds in Marseille, France, 2003

Jo Ratcliffe (1961) nasce a Città del Capo, in Sudafrica, di cui è considerata una delle fotografe più importanti. Dopo aver studiato arte all’università ottiene presto attenzione internazionale per i suoi lavori, che si focalizzano sul modo in cui il paesaggio viene impattato e modificato dai conflitti e dalla violenza, cicatrici che lei cattura e riproduce nelle sue foto, nei suoi documentari e nelle installazioni. Nel 2000 esce Vlakpaas, una serie di lavori che documenta l’apartheid per conto della Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica. Nel 2009 pubblica As Terras do Film do Mundo, che mostra la fine della guerra civile in Angola, e Terreno Ocupado, che riguarda invece la guerra tra Angola e Sudafrica. Foto di campi di battaglia desolati, o minati o abbandonati, di trincee scavate nel terreno, di cartelli sporchi che segnalano la presenza di ordigni: Ratcliffe cattura tutti i segni lasciati dalla guerra, con sullo sfondo un paesaggio altrimenti intoccato. Ha collaborato poi con altri fotografi e fotografe in Figures and Fictions, un lavoro di gruppo sulla difficile storia del suo Paese e i suoi problemi di ieri e di oggi. I suoi lavori sono esposti in tutto il mondo e lodati per il forte senso di inquietudine che evocano e la loro funzione di denuncia. 

On the road to Cuito Cuanavale III
Nadir 11, 1988

Vanessa Winship (1960) nasce a Barton-upon-Humber, in Inghilterra. All’università – dove incontra il marito George Georgiu, anch’egli fotografo e con cui collabora regolarmente – studia cinema prima di dedicarsi interamente alla fotografia. Dal 1999 vive e lavora nei Balcani, spostandosi anche in Turchia e nelle regioni sul Mar Nero. Nel 2005 entra a far parte della rivista Vu, e con la redazione organizza un progetto sui luoghi in cui ha vissuto in Est Europa, esplorando nel suo lavoro concetti come i confini, la terra, l’identità, il senso di appartenenza, la memoria e la storia, e il modo in cui tutto questo viene espresso. La serie sulle ragazze in Anatolia, Sweet Nothings, ha avuto grande apprezzamento di pubblico. She dances on Jackson è invece il risultato di un viaggio negli Stati Uniti, da cui esce una visione fortemente malinconica del Paese, tra paesaggi urbani e intensi ritratti.  

Ajaria, Georgia, 2009

Isabel Muñoz (1951) nasce a Barcellona e cresce in Catalogna in una famiglia di origine valenziana. A vent’anni si trasferisce a Madrid per studiare fotografia presso il Phocentro, per poi lavorare per i giornali a partire dal 1981. A New York impara a usare un particolare processo di stampa, lo sviluppo su platino, per creare foto dalla patina particolare. Sviluppa interesse per il linguaggio del corpo che la porta a viaggiare in diversi luoghi: in Etiopia si occupa della pittura decorativa del corpo in varie comunità etniche, mentre in El Salvador analizza come il tatuaggio venga usato per identificarsi parte di una gang criminale, passando per la pittura rituale in Papua Nuova Guinea e le danze ispirate a quelle degli Inca in Bolivia. Ha poi viaggiato in Iran, Siria, Turchia e Iraq, e in Messico ha immortalato i tentativi della popolazione più sventurata di attraversare il confine con gli Stati Uniti. Ha documentato anche la tratta infantile nel Sud-est asiatico e la condizione delle donne in Congo. Dal 2017 si interessa alle tematiche dell’identità di genere, fotografando le comunità trans in Brasile e gli hijra in India.

Série Bam, 2005
Série Papua Nueva Guinea, 2011

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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