Il fondo degli oceani non è una scodella

La Terra vista dallo spazio è una biglia color lapislazzulo, tanto che gli astronauti l’hanno soprannominata “il Pianeta azzurro”. Il colore è dato dalla superficie degli Oceani, che ricoprono il 70% della Terra. E se è oramai relativamente facile osservare la superficie del pianeta da lontano, cartografare e conoscere gli abissi diventa molto più complicato. Al momento abbiamo esplorato circa il 25% dei fondali, chilometro quadrato più chilometro quadrato meno. È come se di casa nostra conoscessimo solo bagno e cucina. Al massimo siamo arrivati al ripostiglio. 

Che aspetto ha il fondo dell’oceano? Se vi dicessero che il fondale è liscio come un grande catino pieno di fanghiglia, ci credereste? No di certo. Oggi sappiamo che, a somiglianza delle terre emerse, i fondali marini, mari interni o oceani che siano, hanno una morfologia accidentata, un paesaggio con valli, catene montuose, vulcani e fosse profondissime.  
Fino agli anni Sessanta persino il mondo scientifico, in mancanza di prove dirette, aveva difficoltà a immaginare come potesse essere l’aspetto della porzione sommersa del pianeta. Il merito di aver disegnato per prima le carte dei fondali oceanici va a Marie Tharp.  
Tharp nacque il 30 luglio 1920 in una cittadina dal bizzarro nome di Ypsilanti, nel Michigan. Suo padre, William, era un agronomo del Dipartimento dell’Agricoltura, esperto di suoli. Marie, figlia unica, lo accompagnava ogni volta che poteva. Alabama, Iowa, Michigan, Indiana, Ohio: ogni palmo di terra era per lei il giardino di casa. Imparò così a leggere il territorio e a raccontarlo disegnandolo: realizzava carte geografiche e geologiche per aiutare suo padre.  

Una giovane Marie Tharp mentre aiuta il padre nelle sue attività di mappatura del suolo

A Marie piaceva molto girare, prendere appunti, misurare e riprodurre in scala quello che aveva visto. Ma a quei tempi le ragazze si potevano dedicare poco alla scienza e, se lo facevano, dovevano starsene al chiuso, davanti a una scrivania. Stando così le cose, Tharp prese una laurea in inglese e musica per diventare insegnante. Il destino a volte ha uno strano modo di far imboccare la via giusta. Erano gli anni della Seconda guerra mondiale, gli uomini erano al fronte, ma non si poteva fare a meno del petrolio. Questo permise a Marie di riavvicinarsi alla geologia, con un dottorato all’Università del Michigan, entrando a far parte, nel 1945, di quel misero 4% di donne che avevano tale titolo. Divenne una delle Petroleum Girls ma, siccome le era impedito di lavorare sul campo, continuò a studiare e conseguì una laurea in matematica presso l’Università di Tulsa. Il corso di trigonometria sferica le insegnò a tracciare figure geometriche su superfici rotonde, nozioni che le sarebbero tornate molto utili.  
Dopo un breve matrimonio con un musicista, Tharp si ritrovò a New York senza lavoro. Non era donna da scoraggiarsi e trovò impiego come paleontologa presso il locale museo di Storia Naturale, ma spolverare vecchissime ossa non le dava abbastanza soddisfazione e, appena ne ebbe l’opportunità, si candidò per un posto alla Columbia University. «Sa disegnare?» le chiese Maurice “Doc” Ewing, geofisico e oceanografo, al colloquio. Così Marie iniziò a elaborare i dati raccolti durante le campagne oceanografiche e a rappresentarli in carte e profili.  

Grazie alla donazione di Florence Haskell Corliss Lamont, che non sapeva cosa fare di una proprietà ereditata, Ewing e i suoi si spostarono dalle stanze anguste della Columbia alla casa delle vacanze dei Lamont. Con Ewing come direttore, nacque nel 1949 il Lamont Geological Observatory a Palisades, a qualche decina di chilometri da Manhattan. 
Una fredda mattina del 1952, Marie arrivò presto nel suo ufficio. Era ancora buio e persino le mucche nel recinto dei vicini dormivano ancora. Lei invece non era riuscita a dormire, troppo emozionata per quello che pensava di aver visto la sera prima. Si era dovuta staccare a forza dai suoi disegni: profili dell’Oceano Atlantico, da ovest a est, ricavati dalle batimetrie di diverse campagne oceanografiche: sei lunghe strisce di carta, che raccontavano qualcosa di impossibile. Questo era il suo lavoro: con carta, inchiostro e righelli disegnava i dettagli del fondale utilizzando, grado di longitudine dopo grado di latitudine, i dati sonar raccolti dalle campagne oceanografiche di vascelli come l’Atlantis del Woods Hole Oceanographic Institution. 
Quando arrivò Bruce Heezen, suo collega e compagno di studi, lo investì dicendogli: «Lungo l’Atlantico, proprio al centro, c’è una catena montuosa con una spaccatura a forma di V sulla cima…!». Cercò di spiegargli con calma, che forse quel rift, quella spaccatura, era l’evidenza che la nuova teoria della “deriva dei continenti” era corretta. Secondo questa teoria, sul fondo degli oceani si formava una nuova crosta di basalto che, essendo più pesante dei sedimenti che componevano i continenti, aveva come risultato che questi galleggiassero come zattere, rocce leggere su rocce pesanti, che poi affondavano nel mantello lungo quelle che sarebbero state chiamate “fosse di subduzione”. 
Bruce se lo fece ripetere tre volte, scuotendo la testa ogni singola volta. Poi concluse con una frase che Marie non gli avrebbe mai perdonato: «Sono discorsi da donne!», sciocchezze insomma, e aggiunse: «rifa’ i calcoli!».  

Heezen riprese ad andare per mare a prendere misure, mentre lei organizzava i dati, li confrontava e continuava a disegnare carte. Lui aveva intorno l’Atlantico, Marie al massimo dalla finestra vedeva l’Hudson. Le ragazze sulle navi, si sa, portano jella. O per lo meno è stato così fino alla fine degli anni Sessanta.  
Marie rimase a terra e mappò punto per punto i dati raccolti dalle navi con l’ecoscandaglio, strumento all’avanguardia che inviava un segnale acustico in profondità, il segnale si rifletteva sul fondale e veniva ricevuto da un microfono a bordo della nave. Il tempo di ritorno del segnale era utilizzato per misurare la profondità in quel punto. Il compito di Marie era quello di trasformare questi numeri in una mappa, tracciando minuziosamente i profili acquisiti dalle navi. Tharp ci mise un anno a convincere Heezen della bontà della sua intuizione. Il momento decisivo fu quello in cui sovrappose alla sua carta sul tavolo luminoso, gli epicentri dei terremoti, disegnati da Howard Foster, uno stagista sordo: l’attività sismica, una serie di punti rossi, seguiva esattamente la dorsale oceanica e altri punti rossi si disponevano lungo gli archi di alcune isole e i margini dei continenti. La teoria della tettonica a placche non era più solo una favola per geologi rivoluzionari.  

Dev’essere stata una grande emozione vedere apparire, profilo orizzontale dopo profilo orizzontale, questa nuova catena sul fondo del mare. Giù, giù, giù, lungo tutto l’Atlantico. Marie disegnò una carta meravigliosa, Bruce presentò i risultati. E successe il finimondo. “Doc” Ewing non la prese bene: era sostenitore della teoria dell’espansione della Terra, secondo la quale il pianeta era una sorta di un palloncino che, gonfiandosi, allontanava i continenti sempre di più. L’ambiente scientifico non è sempre un posto dove signori con giacche di tweed disquisiscono garbatamente, o forse Ewing si sentiva, più che il direttore di un centro di ricerca, un capitano la cui ciurma si fosse ammutinata. Come sia andata non possiamo saperlo, ma il risultato fu che Bruce Heezen e Marie Tharp furono cacciati dal Lamont. Pare che Marie, che non aveva un carattere particolarmente remissivo, accusò Ewing di tenere per sé dati raccolti con fondi pubblici. Un argomento incredibilmente attuale se pensiamo alla difficoltà di applicare le politiche relative agli open data alla diffusione dei risultati delle ricerche.  

Marie Tharp al lavoro al Lamont-Doherty

Essere rimasti senza fondi di ricerca non fermò Marie e Bruce. Per fortuna Heezen firmò un contratto con la Marina, per continuare a scandagliare i mari e conoscere i fondali. Marie lavorava a casa, ma non era soddisfatta: era il tempo della guerra fredda, molti dati erano Top Secret e la Marina temeva che i sommergibili nemici utilizzassero le nuove mappe per spionaggio e scopi bellici. 
Tharp non poteva disegnare le curve di livello dei fondali né mettere nomi a monti, vulcani e pianure che venivano via via a disegnarsi. Invidiava i cartografi delle Alpi che potevano mettere nelle loro carte tutti i dettagli che volevano. Ma, nonostante tutto, andarono avanti, sonar, scandaglio, matita, calcoli: Nord e Sud Atlantico, Oceano Indiano, Mar Mediterraneo.  
Gli oceani di atlanti e mappamondi smisero di essere solo un contorno blu, uniforme e anonimo intorno ai continenti, e diventarono un meraviglioso mondo tridimensionale. 

Marie Tharp e Bruce Heezen

Nel giugno del 1977, proprio mentre stavano per pubblicare la mappa di tutti i fondali del globo, Heezen morì improvvisamente a 53 anni, mentre stava facendo quello che più lo appassionava: ricerche sulla dorsale medio-atlantica in un sottomarino.  
Per Tharp fu un colpo durissimo. La carta era pronta, ma per vari mesi non riuscì a pubblicarla: lasciarla andare era come dire addio per sempre a Bruce. Poi riprese a studiare e produrre carte del fondo dell’oceano fino al 2006, anno in cui morì.  
«In fondo eravamo solo geografi, disegnavamo carte» diceva Marie del suo lavoro «Ma so che vedere è credere, e vale più di mille parole e cento formule». 

In copertina: Marie Tharp, luglio 2001. (Crediti: Lamont-Doherty Earth Observatory and the estate of Marie Tharp).

***

Articolo di Sabina di Franco

Geologa, lavora nell’Istituto di Scienze Polari del CNR, dove si occupa di organizzazione della conoscenza, strumenti per la terminologia ambientale e supporto alla ricerca in Antartide. Da giovane voleva fare la cartografa e disegnare il mondo, poi è andata in un altro modo. Per passione fa parte del Circolo di cultura e scrittura autobiografica “Clara Sereni”, a Garbatella.

Lascia un commento