La storia del viaggio femminile in Albania giace quasi interamente nell’oblio, ma ne rintracciamo le linee principali in un articolo di Olimpia Gargano — ricercatrice in Letteratura Comparata presso l’Université Nice Côte d’Azur— dal titolo L’Albania delle donne. Immagini e studi albanesi nella letteratura di viaggio femminile (1864-1953). L’obiettivo degli studi e degli scritti di Gargano è quello di far riemergere le informazioni riguardanti un Paese che si trova nel cuore dell’Europa ma ai margini della conoscenza per quanto riguarda le viaggiatrici e le esploratrici che lo hanno attraversato. Il periodo preso in considerazione va dal 1864 — quando furono pubblicati due libri di viaggio inglesi, The Eastern Shores of the Adriatic di Emily Anne Beaufort e Through Macedonia to the Albanian Lakes di Mary Adelaide Walker — al 1953, quando apparve l’edizione tedesca del codice consuetudinario albanese (noto come Kanun), tradotto da Marie Amelie von Godin. Non si parla, naturalmente, solo del viaggio “romantico” ai confini con la Grecia, ma anche delle zone della più “insolita” Alta Albania.

Fra i motivi per cui già nella prima metà dell’Ottocento l’Albania entra negli itinerari di viaggio in terre balcaniche e ottomane c’è il desiderio di vedere i luoghi cantati da Byron nel Childe Harold. Da quel momento in poi il Paese comincia a “esistere” letterariamente e a ispirare diversi viaggi, tra i quali quello di Emily Anne Beaufort (anche conosciuta come viscontessa Strangford), esploratrice e autrice che aveva già visitato Egitto, Libano, Asia Minore e Siria. Ella si reca in Albania con il marito, mettendo in atto un processo che si potrebbe definire di duplicazione. Emerge, infatti, l’assoluta necessità di ripercorrere i luoghi di Byron, di segnare le sue tappe, pena un viaggio incompleto. La percezione duplicata sta nel fatto che, anche quando il luogo in sé si presenta poco interessante, il solo fatto che sia stato scenario del poema byroniano è sufficiente a consacrarlo e consegnarlo alla fama. Tra le mete dell’autrice di The Eastern Shores of the Adriatic non troviamo soltanto l’Albania letteraria, ma anche quella visiva raffigurata nei dipinti di Edward Lear. Nel suo Journal of a Landscape Painter egli offre un ricco esempio di pittura di viaggio che diventa parte integrante dei testi letterari del Grand Tour balcanico ottocentesco. Anche sotto l’aspetto artistico, le viaggiatrici forniscono contributi rilevanti grazie agli schizzi, le fotografie e i dipinti inseriti nelle loro opere. In questo senso è fondamentale l’opera di Mary Adelaide Walker che nel 1860 attraversa la regione dei laghi compresa fra la Macedonia e l’Albania riportandone parole e immagini. La viaggiatrice, autrice e pittrice mostra, nella produzione letteraria, uno sguardo etno-antropologico incentrato su usi e costumi; la parte artistica, invece, è composta principalmente da paesaggi. Ma quella che viene considerata la prima guida turistica dell’Adriaco orientale è Aus Dalmatien, un’opera della baronessa Ida von Düringsfeld, autrice anche di un dipinto che raffigura una scena nuziale albanese divisa in fasi.
Un’altra viaggiatrice che ha solcato questi territori è Adeline Irby, che a fine Ottocento si reca in Bosnia, Serbia e Albania con l’amica Georgina Mackenzie. Nel loro viaggio descrivono l’Albania come abitata da barbari musulmani, contrapponendola alla cristiana e quasi civilizzata Serbia. Rappresentano gli albanesi come feroci e selvaggi, mettendo in risalto le differenze religiose e culturali. Raccontano anche degli “Arnaouts” (albanesi) come banditi che infestano le strade, contribuendo a consolidare la percezione negativa dell’Albania. Restituiscono un’immagine completamente incentrata su un vero e proprio scontro di civiltà, una visione polarizzata e che oggi non faticheremmo a definire razzista. La fama del loro viaggio raggiunge la stampa americana; le due tornano in Inghilterra indenni, ma al momento di annunciare la pubblicazione del libro, un quotidiano newyorkese titola: An Adventure in Albania. Two Englishwomen in Peril (Un’avventura in Albania. Due donne inglesi in pericolo).

A inizio Novecento arriva nelle terre albanesi anche un’archeologa e storica, Agnès Conway; descrive il viaggio in nave verso Scutari come un’esperienza che trasporta immediatamente in Oriente. Le donne velate a bordo e l’atmosfera caotica durante lo sbarco a Scutari contrastano con le città visitate precedentemente, come Costantinopoli e Salonicco, che pur essendo fisicamente più a est, le sembrano meno orientali in termini di percezione culturale. Conway evidenzia la singolarità della lingua albanese e l’importanza del Kanun e, nel suo A Ride through the Balkans, inserisce anche gli scatti dell’inseparabile macchina fotografica. L’introduzione al suo libro è scritta dal padre: spesso i libri scritti da donne erano presentati o commentati da uomini, quasi a legittimare il testo e renderlo più credibile. Muovendosi sempre nei primi decenni del Novecento, è necessario citare la baronessa Von Godin, che ha avuto un ruolo cruciale nella traduzione del Kanun in tedesco. Il suo impegno nel mantenere l’autenticità e l’espressività del testo originale riflette la sua dedizione alla comprensione accurata della cultura albanese. La traduzione fu pubblicata nel 1953, quasi in contemporanea con un’altra opera fondamentale nello stesso campo, The Unwritten Law in Albania di Margaret Hasluck, scozzese che ha condotto importanti ricerche folcloriche. Tra queste, una raccolta di canti popolari con note grammaticali e un vocabolario, contributo fondamentale agli studi sull’Albania.

L’analisi critica della rappresentazione delle ricercatrici in materia di “piccole nazioni” evidenzia un duplice standard nell’interpretazione del loro lavoro, spesso etichettato come eccentrico o romantico. Questa prospettiva riflette una tendenza a sottovalutare o addirittura denigrare e depotenziare il contributo delle donne nei campi della ricerca etnografica e antropologica. Olimpia Gargano, a tal proposito, scrive: «Secondo una tendenza che sembra andare di pari passo con la considerazione in cui erano tenuti i Paesi dell’Europa orientale, percepiti come unità indifferenziate e intercambiabili, la definizione di “appassionati intercessori” sembra accomunare tutti coloro che in contesti diversi e a diverso titolo si interessarono di nazioni e popoli per così dire “periferici”. Se poi a occuparsene erano delle donne, la prospettiva di lettura delle loro opere è doppiamente caratterizzata, sia per quanto riguarda l’oggetto guardato (il “piccolo popolo”) che il soggetto guardante (di genere femminile)».
Nonostante tutte le criticità delle rappresentazioni alle quali si è fatto breve cenno e delle quali si sono elencate solo alcune autrici, le viaggiatrici citate costituiscono una parte di storia troppo spesso taciuta, ma utile per ricostruire la memoria degli itinerari che hanno influenzato la creazione dell’immaginario collettivo e la narrazione comune dei luoghi visitati che probabilmente permane ancora oggi.
In copertina: Agnès Conway, Ida von Düringsfeld, Margaret Hasluck.
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Articolo di Emilia Guarneri

Dopo il Liceo classico, si laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito si trasferisce a Roma per seguire il corso magistrale in Gestione e valorizzazione del territorio presso La Sapienza. Collabora con alcune associazioni tra le quali Libera e Treno della Memoria, appassionandosi ai temi della cittadinanza attiva, del femminismo e dell’educazione alla parità nelle scuole.
