Non ci sono poteri buoni. Il potere in Fabrizio De André

L’intera opera di Fabrizio De André è beffa del potere, dello Stato e delle sue leggi scritte, della presunzione di chi crede di avere sempre ragione. Re e gendarmi, professori e magistrati, sono figure per le quali il poeta genovese non ha mai avuto stima e raramente ha mostrato nei loro confronti il rispetto e la riverenza che questi si aspetterebbero. Si pensi, ad esempio, alla figura ridicola che fa Re Carlo quando, tornando glorioso dalla guerra contro i Mori, perde la dignità davanti a una ragazza di provincia; oppure si pensi a quanto è grottesco affidare all’ordine costituito «il furto d’amore» commesso dalla bellissima Bocca di Rosa.

In questo contesto, dove la sfida al potere è costante, l’album più antagonista, il disco che raccoglie i brani anarchici per eccellenza, è Storia di un impiegato.

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L’Introduzione li definisce «i cuccioli del maggio»: sono i figli e le figlie della borghesia francese, che nel maggio del 1968 occuparono la Sorbona e il Quartiere Latino di Parigi.

Ripresa da Chacun de vous est concerné, uno dei canti del Sessantotto francese, la Canzone del maggio è l’opera più celebre e più significativa dell’album, nonché un atto d’accusa verso l’indifferenza. «Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti», ripete il brano, condannando il perbenismo dell’alta società che non ha creduto nel movimento giovanile e nelle sue istanze di cambiamento ed ha lasciato che i CRS (la famigerata polizia francese antisommossa) picchiasse ferocemente gli studenti. Sono parole che tornano di attualità: il comportamento delle forze dell’ordine e la reazione delle classi agiate, che, in Francia e non solo, hanno «votato ancora la sicurezza e la disciplina, convinte di allontanare la paura di cambiare» ricorda molto spesso quello descritto da Fabrizio De André.

La bomba in testa è come un sipario che si chiude e si riapre: il brano trasporta chi lo ascolta dagli scontri di Parigi ai pensieri di un impiegato (il protagonista dell’album) che, qualche anno dopo, ascolta la storia quei ragazzi e quelle ragazze che «lottavano così come si gioca» e ne è suggestionato. Gli studenti del maggio, niente affatto poveri, «cantavano il disordine dei sogni, ingrati del benessere francese». L’impiegato decide di uscire dall’immobilismo della sua posizione sociale: la bomba diventa l’elemento centrale dei suoi sogni.

Le tre canzoni successive, Al ballo mascherato della celebritàSogno numero due e Canzone del padre, costituiscono il centro della narrazione cantata. Il potere politico e quello giudiziario, il potere religioso e l’autorità paterna sono i bersagli della rabbia del giovane uomo. Con l’ultima strofa della Canzone del padre («Vostro Onore sei un figlio di troia, mi sveglio ancora e mi sveglio sudato, ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo») il protagonista ha deciso individualmente di passare all’azione per distruggere questi poteri.

Il brano seguente, forse il più riuscito dal punto di vista della composizione poetica, mostra quest’azione individuale. L’impiegato è diventato Il bombarolo.  Qui il poeta, per bocca del suo protagonista, critica il silenzio di chi per paura non agisce mai e anche dei partiti che hanno ottenuto il loro consenso promettendo una Rivoluzione che non sarebbe mai arrivata, gli stessi partiti che negli anni Settanta hanno remato contro i movimenti studenteschi e libertari: «Intellettuali d’oggi idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani, profeti molto acrobati della Rivoluzione oggi farò da me senza lezione». «Se non del tutto giusto quasi niente sbagliato» è il commento dell’autore sul pensiero del suo stesso personaggio. Ma l’azione individuale finisce male mostrando tutti i limiti del suo spontaneismo individualista: il bombarolo in lacrime colpisce per errore un chiosco di giornali anziché il tanto odiato Parlamento, gettandolo nel ridicolo.

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Per aumentare il ridicolo del “terrorista”, il potere («quella gente consumata nel farsi dar retta») si rivolge alla sua compagna, o almeno questo lui suppone. In Verranno a chiederti del nostro amore è lei la protagonista di cui vengono immaginate le parole. È l’unico brano dell’album in cui è così importante la figura femminile, che pure si intravede in altre canzoni.

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L’ultima canzone, la più importante per il contenuto, è la sintesi dell’intero album. In Nella mia ora di libertà, il protagonista è in carcere in seguito al fallimento del suo ordigno. Il testo inizia con il più anarchico dei gesti: il prigioniero rifiuta l’ora di libertà per non condividere nulla, nemmeno l’aria del cortile, con il secondino, mestiere che non gode certo del rispetto del poeta. Dopo il processo che porta in carcere il bombarolo, compare di nuovo la donna protagonista della canzone precedente: è l’unica a capire la sua umanità e a non guardarlo come un mostro («tante le grinte le ghigne i musi, poche le facce, tra loro lei»). In carcere, «in mezzo agli altri vestiti uguali», chi è detenuto impara un sacco di cose, tra cui questa massima, scritta sul muro in cui si imbatte inevitabilmente chi percorre i primi metri di via del Campo: «ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame». Nell’ultima strofa di Nella mia ora di libertà, in contrapposizione al fallimento dell’azione individuale del bombarolo, viene scoperta e rivalutata l’importanza dell’agire collettivo: la prima persona singolare della frase iniziale «di respirare la stessa aria di un secondino non mi va perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà» cede il posto a un plurale e diventa ora «di respirare la stessa aria dei secondini non ci va e abbiam deciso di imprigionarli durante l’ora di libertà». Alla fine della storia l’uomo è maturato e può ora enunciare quanto ha imparato: «certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni». «Non ci sono poteri buoni» è il senso non solo di Storia di un impiegato ma dell’intera opera di De André. Insieme agli altri carcerati, ora l’impiegato ripete le parole del maggio francese con cui la sua storia aveva avuto inizio: «per quanto voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti».

Nel luglio del 2001, due anni dopo la morte del suo Poeta, la città di Genova fu travolta da un’ondata di feroce repressione, di cattiveria e violenza da parte di quel potere armato da lui sempre deriso. Sembra scritta in quei giorni la prima versione della Canzone del maggio, mai pubblicata a causa della censura, che recitava «se avete lasciato fare ai professionisti dei manganelli per liberarvi di noi canaglie di noi teppisti di noi ribelli». E sembra dedicata a quei professionisti che insanguinarono una scuola-dormitorio la frase «voi quella notte voi c’eravate»; risuoneranno per sempre, nelle orecchie dei politici le cui pressioni hanno impedito un processo per omicidio, le parole «per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti».

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Articolo di Andrea Zennaro

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Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

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