Nella foto, Saverio Pastor ha un’aria sorridente e un po’ ingessata, in posa, mentre Mick Jagger, che di queste cose ha più esperienza, è compassato. Benché più giovane e meno noto, anche Saverio è una star internazionale. I suoi remi e le sue fórcole (che, diciamolo una volta per tutte, sono gli scalmi su cui poggiano e agiscono i remi delle gondole e delle altre imbarcazioni lagunari veneziane) partono spesso per paesi lontani, soprattutto gli Stati Uniti dove, benché sembri incredibile, prosperano gondolieri che portano a spasso i turisti in quelle – per noi terrificanti – riproduzioni di Venezia in stile disneyano e in lagune, baie e laghetti che possano in qualche modo rievocare la “romanticità” di Venezia. Mick Jagger è uno dei tanti clienti internazionali che si sono affacciati per caso nella bottega di remèr di Saverio in fondamenta Soranzo, a Venezia, non hanno resistito al fascino e si sono comprati una forcola.
La bottega non ha insegna ma la sua peculiarità è evidente a chiunque passi di lì, magari reduce dalla visita alla vicina Fondazione Guggenheim. Non è solo la curiosità che spinge passanti e turisti a fermarsi e guardare: è una sensazione di bellezza. Le forcole saltano subito all’occhio perché, ben prima di comprenderne l’uso, si è colpiti dalla loro forma classica e insieme moderna. Eppure, nonostante i paragoni con la scultura contemporanea, Saverio non si è mai considerato un artista. Le forme delle forcole non sono dovute a ispirazione o ricerca estetica ma alla loro funzione. Più o meno come scrive Robert Pirsig nel suo strafamoso Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta: «Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore». La bellezza è la conseguenza di un funzionamento perfetto. Se le forcole appaiono all’occhio profano come sculture (inevitabilmente c’è chi le paragona alle opere di Henry Moore o di Constantin Brâncuși, ignorando che ogni minima curva ha la sua funzione, come il cambio di un’auto), i remi sembrano “normali” ma a loro Saverio dedica la stessa cura.
Parlare con Saverio nella sua bottega non è facile. Quando vado a trovarlo è sempre impegnato, gira davanti e dietro al remo in morsa, ne controlla la levigatura come se accarezzasse un bambino, passa la pialla in un punto, poi accarezza ancora e riflette. Non è refrattario ai discorsi, ma è un artigiano e si comporta come tale. Un artigiano ha sempre tanto da fare e poco tempo per i discorsi. Io intanto mi guardo intorno. Mentre lui passa la carta vetrata entra un ragazzo e gli chiede del suo remo in riparazione. Saverio passa prontamente dall’italiano al veneziano e gli mostra il pezzo sostituito commentando laconico: «È meglio di prima, ma non è il massimo. Però adesso funziona».
La sua storia somiglia anch’essa a un apologo zen: da ragazzo, come tanta gente a Venezia, amava vogare in laguna e capitò nella bottega di un remer, Bepi Carli, un maestro senza discepoli. Saverio gli chiese di imparare da lui ma Carli gli disse di no, il giovane era troppo vecchio (16 anni) e gli mancava la necessaria nobiltà di sangue: padre architetto e accademico, mamma architetta, sorella futura architetta pure lei, non c’era il sangue dei remeri. Il seguito è secondo le regole: Saverio, incurante del rifiuto, andò per un mese tutti i giorni, tutto il giorno, a guardar lavorare il maestro, il quale a un certo punto gli mise una scopa in mano e gli disse che, se proprio non voleva togliersi dai piedi, avrebbe potuto almeno rendersi utile. Così il giovane, testardo come un vero principiante zen, per due anni imparò, poi diventò apprendista per altri due anni e poi provò a sperimentare di suo. Quando fece vedere il suo primo modellino di forcola al maestro questi saltò su tutte le furie e lo cacciò. Fine della storia zen.
I decenni seguenti sono stati pieni d’impegni e di cambiamenti e le botteghe di Saverio si sono succedute fino ad approdare, diciassette anni fa, a questa, “in quel de San Gregorio”, dove lavora con il suo collaboratore Pietro Meneghini. Ora Saverio ha sessantun anni ed è il decano dei remeri veneziani, i quali sono in tutto cinque.
Solo cinque? «C’erano anche altri, diciamo così, abusivi, ma adesso sono invecchiati anche loro e sono diminuiti. Il problema è che sono diminuiti anche i veneziani e quindi il lavoro. Con meno residenti c’è meno gente che voga. Quando mi sono messo in proprio, una quarantina d’anni fa, qui c’erano centomila abitanti, ora cinquantamila. E di quei centomila, trentamila avevano il piede marino, adesso sì e no cinquemila, perché nel frattempo si è trasformata anche, diciamo, la composizione antropologica veneziana.» Segue una lunga pausa, qualcosa del remo che sta lavorando sembra non convincerlo. Poi riprende: «Molta gente che si è trasferita qui – studenti fuori sede che hanno scelto di restare, per esempio – ama molto la città e la rispetta anche più degli altri, ma non ha confidenza con l’acqua e non voga. Insomma, soffriamo della mancanza del mercato di elezione. Per fortuna, però, la passione della voga alla veneta è espatriata. Negli Stati Uniti, per esempio, è abbastanza diffusa: ci sono circa centocinquanta gondolieri, in una ventina di stati, che vogano su vecchie barche nostrane, o su similgondole o similsandoli costruiti laggiù, e portano a spasso la gente. Un paio di loro è arrivato qua a far la Vogalonga una trentina d’anni fa, si sono innamorati della voga e l’hanno portata e diffusa a casa loro. E poi ci sono anche appassionati in diverse città d’Europa. Quest’anno ho spedito trentacinque remi negli Stati Uniti, sei a Praga, quattro in Francia. E poi forcole. Alcuni hanno imparato a vogare qui e poi hanno insegnato nel loro paese». Insomma, questo artigianato così tipicamente veneziano, che non riesco a immaginare da nessun’altra parte al mondo, ha un mercato estero. «Sì. Se non ci fosse andremmo a remengo. È una cosa che le nostre amministrazioni dovrebbero tener presente con attenzione perché potrebbe essere preziosa per il futuro di questa città».
Come scrive Salvatore Settis, «Lo spazio di Venezia era, ed è ancora, tutt’uno non solo con la sua storia e con la sua lingua, ma con l’aria che vi si respira, con l’ambiente della sua laguna, con la vita e la memoria dei singoli e delle famiglie, con le sue acque, con la sua vita culturale, artistica, religiosa, economica». Dimenticare la vocazione di Venezia e trasformarla in un parco a tema è distruggerla, così come tumularla in un passato goldoniano in polpe e crinoline significa sommergerla di muffa. L’equilibrio tra vecchio e nuovo – perché un nuovo c’è sempre ed è indispensabile – deve partire dall’acqua, e quindi dalla voga e dall’artigianato a essa legato.
Ma la voga, a Venezia, è promossa in qualche modo, specialmente presso i giovani? «No, la voga non è promossa. C’era la regata fra le scuole che non si fa più, perché per il provveditorato e per i presidi è una seccatura. Io ci ho provato, col provveditorato, ma fanno mille difficoltà. Poi ti passa la fantasia. Bisogna ritrovare la cultura dell’acqua, che è la cultura di questa città, ma ci vorrebbe una specie di rivoluzione culturale. Ritrovare i valori che caratterizzano Venezia significherebbe ritrovare anche un nuovo equilibrio nella vita dei suoi cittadini, si avrebbe una maggior sensibilità anche per quanto riguarda il traffico e la movimentazione delle merci». Sarebbe possibile evitare il motore? «No, ma il moto ondoso aggressivo sì. Se, per esempio, i traghetti da parada, ovvero quelle grosse gondole a due vogatori dette “barchette”, che a un costo bassissimo portano la gente da una riva all’altra del Canal Grande, fossero incentivati anziché dimenticati, il traffico dovrebbe per forza moderare la velocità con conseguente riduzione del moto ondoso, che causa danni gravi agli edifici. Una volta i traghetti erano una dozzina, oggi tre. Una barzelletta».
Una bottega artigiana a Venezia non ha una vita facile. La parola “gentrificazione” viene subito in mente, ma l’esempio di Venezia è estremo in quanto tutto il centro storico, ovvero l’intera città insulare e non solo alcune zone, è sottoposto a un repentino e drastico mutamento economico e sociale. Come ha detto Saverio, la popolazione è ridotta ormai a circa cinquantamila residenti a cui la città, meta privilegiata di turismo di massa, non riesce a offrire il lavoro e i servizi necessari.
Torniamo all’acqua e al degrado turistico: «Io proprio non capisco, l’altro giorno hanno beccato un francese che faceva il bagno davanti a piazza San Marco, in mezzo alle gondole. Intendiamoci, a Venezia i bambini hanno sempre fatto il bagno» e mi cita il bellissimo documentario del 1950 I nua (Nuotano) di Enzo Lucarelli, con testo poetico di Domenico Varagnolo letto da Cesco Baseggio, premiato alla IX Mostra del cinema di Venezia, «ma tanto per cominciare era vietato anche allora, e poi i bambini si tuffavano nelle zone più popolari, come Castello o Santa Marta, dove comunque c’era il controllo sociale. Adesso rischia di diventare un fenomeno turistico di massa, da baraccone».
Tutto, ma proprio tutto, sembra essere dedicato al consumo immediato, le attività produttive e commerciali cedono i locali a chi può permettersi affitti esorbitanti – souvenir-spazzatura, fast-food e fast-tutto – e sempre più gente se ne va. «Ma il Comune», gli chiedo, «non interviene? Non dà spazi per agevolare il lavoro artigianale?». «No». «No? In nessun modo?». «No». Passa il pennello su e giù sul remo, con delicatezza, avvicina la testa e lo guarda per il lungo, critico. «Il Comune, per esempio, ha dato l’area della Giudecca alle imprese artigiane della cantieristica minore in cambio del restauro, ma il problema è proprio restaurarli. Quei capannoni, come tutti gli edifici veneziani, sono vecchi e malmessi, per restaurarli e metterli a norma occorrono milioni. Si tratta di sforzi enormi che nessun artigiano potrà mai permettersi. E le attività artigiane veneziane servono non solo per dare qualità alla vita cittadina ma anche per realizzare restauri a regola d’arte del patrimonio edilizio. Questo bisogna dirlo». A Venezia, effettivamente, tutto è molto vecchio e il restauro è sempre un’operazione costosa, specialmente se si tratta di adattare edifici a vocazione manifatturiera rinnovandoli e mettendoli a norma con le necessità moderne. Ed è qui che si concentra tutta la contraddizione veneziana: chi ci vive vorrebbe essere gente normale, che lavora in luoghi sicuri, ben collegati, e non un fenomeno da baraccone che serve per fare colore locale a uso e consumo del turismo. Il fatto di vivere a Venezia comporta attività, quali camminare, andare in barca e salire e scendere sui ponti, che qui sono ovvie perché connaturate con la scala urbana e la prospettiva non è la stessa che nelle altre città. Ma è proprio tale natura a rendere Venezia la città più moderna del mondo, perché è l’unica in cui il traffico pedonale e quello veicolare sono drasticamente separati in quanto i pedoni si muovono su un altro livello, più alto, dei veicoli e non esistono incroci di livelli diversi: nessuno attraversa un canale a nuoto.
Venezia, nata così, è il sogno di ogni urbanista, mai realizzato da nessun’altra parte del mondo.
Il documentario I nua, di Enzo Lucarelli:
https://www.youtube.com/watch?v=AIioCEea1Mg
Fotografie:
1. Saverio Pastor e Mick Jagger.
2. La rifinitura di una forcola da poppa per gondola. Foto di Adrian Smith
3. Forcole da gondola. A sinistra, da poppa; a destra, da prua. Foto di Sergio Sutto
Articolo di Mauro Zennaro
Mauro Zennaro è grafico e insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e la chitarra in una blues band.