Dal letame nascono i fior. Gli ultimi nell’opera di Fabrizio De André 

Se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo

Tutta l’opera di Fabrizio De André è dedicata agli ultimi, poveri emarginati sbandati, ladri assassini prostitute poco di buono, tutti coloro che la società benestante e benpensante rifiuta. Quanti Geordie, Michè, Bocca di Rosa si incontrano nelle sue canzoni, gli stessi volti che si vedono perdendosi la sera nei vicoli genovesi.

Scritta nel 1960 ispirandosi a Le bistrot di Georges Brassens e all’omonima poesia di Umberto Saba, La città vecchia è un’antologia umana dei personaggi preferiti dall’autore. La canzone è ambientata «nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi», i carruggi del centro storico del capoluogo ligure, frequentati da disperati ubriachi tossicodipendenti prostitute ladri spacciatori immigrati. Nelle parole di De André non c’è critica, c’è anzi una forte vicinanza a queste persone, quasi stima: una prostituta tanto disprezzata da un professore è l’unica che può dargli una lezione, e non una lezione qualunque, da lei egli impara l’umiltà. L’ultimo verso del brano, «se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo», riassume il pensiero sociale e morale del poeta: ladri e assassini, presuntuosamente giudicati e condannati dai buoni borghesi, sono in realtà le vere vittime della società che li ha emarginati in quanto “non produttivi”.

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Con la canzone La ballata del Michè, la morale corrente viene rovesciata: quello che per tutti è il colpevole diventa la vittima. Un assassino si suicida in carcere. Chi è la vittima e chi il carnefice? «Vent’anni gli avevano dato, la corte decise così, perché un giorno lui aveva ammazzato chi voleva rubargli Marì». Non c’è condanna, solo comprensione umana: «io so che Michè ha voluto morire perché ti restasse il ricordo del bene profondo che aveva per te». «Lo avevan perciò condannato vent’anni in prigione a marcir»: inumana è la corte, che non lo conosce e si prende il diritto di giudicarlo. «Però adesso che lui s’è ammazzato, la porta gli devono aprir»: anziché un ulteriore peccato, qui il suicidio diventa una sorta di riscatto. Non è così per la legge, scritta e non: Michè sarà sepolto in una fossa comune «senza il prete e la messa perché di un suicida non hanno pietà», ulteriore polemica dell’autore verso la morale ufficiale.

Un personaggio interessante, cantato nell’omonimo brano, è Geordie, un ragazzo giovanissimo («non ha vent’anni ancora») portato sulla forca perché «rubò sei cervi nel parco del Re vendendoli per denaro». La canzone, ripresa da una ballata inglese del XVI secolo, porta chi l’ascolta ad empatizzare con quest’uomo accusato di furto e a condannare l’uso della pena di morte. Ma Geordie non è un ladro. La sua donna (compagna moglie o amante, questo non si sa) aggiunge che «Geordie non rubò mai neppure per me un frutto o un fiore raro». Anzi, Geordie è un uomo rispettato e stimato, tanto da essere impiccato «con una corda d’oro, un privilegio raro». Dunque perché ha compiuto questo gesto? La risposta si trova nella storia moderna, che ha visto cambiare l’economia europea. Fino al XVI secolo, l’Inghilterra era piena di commons, terre e boschi non appartenenti a nessuno che i nullatenenti usavano liberamente per procurarsi frutta legna e cacciagione; a partire da allora, grazie a numerosi Enclosure Acts emanati dal Parlamento (decreti che autorizzano la recinzione di queste aree), gli ex commons sono diventati terreni privati e l’atto naturale di raccogliere legna o cibo da quel momento è stato chiamato “furto”. Inoltre la caccia, da fonte di sussistenza che era, è stata elevata a “sport” e riservata ai nobili e alla famiglia reale. Cambiamenti simili sono avvenuti anche in Francia dopo la Rivoluzione e in Italia dopo la conquista sabauda della penisola (nella Francia monarchica dove la proprietà privata era poco diffusa e nel Sud Italia borbonico i commons, seppur con altri nomi, erano presenti ovunque). Oggi la proprietà privata è la base della società e i reati contro la proprietà (come il furto) sono puniti. Geordie, abituato a cacciare in un parco, ripete il suo gesto abituale, senza sapere che il parco è diventato «del Re» e che la caccia non è più libera. Ma tutti sanno che Geordie non è un ladro, ma la corda d’oro è una ben misera consolazione per la donna che va a Londra a implorare per lui. Gli ultimi versi descrivono una realtà britannica molto legalitaria ma poco attenta alle persone: «né il cuore degli inglesi né lo scettro del Re Geordie potran salvare, anche se piangeranno con te la legge non può cambiare».

Nella canzone La guerra di Piero la comprensione umana viene estesa persino al soldato, la figura in assoluto più lontana dall’umanità che De André descrive. Piero ha la colpa di non aver ascoltato il vento che porta la voce dei morti in battaglia, di non aver capito che non vale la pena sacrificare la vita in cambio di una croce piantata in terra: non voleva la guerra ma non l’ha nemmeno rifiutata. Eppure non è cattivo, è solo un povero ingenuo coinvolto in vicende più grandi di lui. Nell’incontro tra i due soldati nemici si vede l’umanità che la divisa non è riuscita a cancellare. I due hanno lo «stesso identico umore ma la divisa di un altro colore», sono simili, potrebbero essere fratelli. Sono entrambe persone. Qualcuno, forse un superiore, ordina a Piero di sparare all’altro uomo. Piero sente queste fratellanza e disobbedisce, decide di non sparare. È un gesto di grande valore. Nemmeno l’altro è cattivo, ma «ha paura», un sentimento umano e comprensibile, ma molto pericoloso, «ed imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia». Piero, colpevole e vittima al tempo stesso (vittima di umanità non ricambiata ma responsabile della guerra per non aver disertato) e quindi impossibile da giudicare, muore nel peggiore dei modi: senza poter salutare la propria amata e senza aver perdonato il suo assassino, stringendo in bocca «parole troppo gelate per sciogliersi al sole».

De André ci invita sempre a mettere tutto in discussione e a non fidarci delle risposte pronte, delle morali precostituite, a ricordarci che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».

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L’ultimo album composto da De André prima di morire, intitolato Anime Salve e datato 1996, è in gran parte dedicato al tema degli ultimi.

La prima canzone, Prinçesa, tocca senza mezzi termini uno dei temi più scandalosi secondo la morale tradizionale. Protagonista è una transessuale. Fernanda è una donna brasiliana, ma è nata nel corpo di un uomo con il nome di Fernandinho. Proprio da questa canzone prende il nome l’associazione che raccoglie le donne transessuali che “lavorano” nei vicoli genovesi, con sede in una piccola piazza dietro via del Campo oggi nota come piazza Don Andrea Gallo (anche se la volontà del prete di strada era intitolarla proprio piazza Prinçesa).

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Va ricordato che le transessuali hanno voluto proprio don Gallo come presidente onorario dell’associazione. Secondo alcune fonti, anche la «bambina» o la «puttana» che in Via del Campo «vende a tutti la stessa rosa» era in origine un uomo, morto, stando alle voci dei vicoli, di dolore pochi mesi dopo la scomparsa del suo carissimo amico poeta.

La frase che chiude il brano Via del Campo, «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori», scritta anche sul retro della chiesa di San Benedetto al Porto a Genova, è da considerarsi la massima che più rappresenta e sintetizza il pensiero morale e sociale del poeta.

La seconda canzone di Anime Salve è dedicata a un’altra categoria pesantemente denigrata dalla società dei ricchi, forse quella che più in assoluto è vittima di razzismo (particolarmente in Italia ma non solo): si tratta del popolo Rom, persone dalla pelle scura di cui non sappiamo nulla ma che volgarmente chiamiamo “zingari”. Già dalle note che aprono Khorakhanè si percepisce la tristezza passiva di questa gente di fede cristiana, l’unica che non ha mai combattuto una guerra eppure da sempre odiata e ovunque perseguitata. «Jugoslavia Polonia Ungheria, i soldati prendevano tutti e tutti buttavano via»: oggi quasi nessuno ricorda la massiccia presenza di Rom, Sinti e nomadi in generale nei lager nazisti. Ai bigotti che obiettano con luoghi comuni come «gli zingari rubano», De André risponde «anche oggi si va a caritare, e se questo vuol dire rubare questo filo di pane tra miseria e fortuna…».

Anime Salve si conclude con una poesia bellissima, una sorta di invocazione a Dio (non necessariamente il Dio cristiano ma una divinità qualsiasi) in difesa degli ultimi e in particolare delle minoranze. Smisurata preghiera si chiama così perché non pretende di “contarsi”, di avere “ragione” in nome della maggioranza. «Alta sui naufragi […] china e distante sugli elementi del disastro […] lungo un facile vento di sazietà e di impunità […] sullo scandalo metallico di armi in uso e in disuso […] la maggioranza sta.» Inizia così la preghiera. E continua: «coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta». La maggioranza per De André non ha ragione, ma è «come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia, come un’abitudine». Smisurata preghiera non è scritta per chiunque, ha una dedica specifica: «per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi». È un atto d’accusa verso le prevaricazioni commesse dalle maggioranze in nome del loro numero, un’invocazione che chiede al Dio «ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco», le minoranze da sempre schiacciate «che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti».

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Articolo di Andrea Zennaro

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Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

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