Florence Nightingale. La donna con la lanterna

Dei passi che rimbombano. Dei passi che rimbombano e l’orlo di un vestito a stento sollevato. Dei passi che rimbombano, l’orlo di un vestito a stento sollevato e una lanterna. Soprattutto, una lanterna. Una lanterna che fa strada, una lanterna che fa storia. Una lanterna che illumina lineamenti austeri di occhi verdi e capelli castani, nella caina di una corsia di ospedale da campo, in tempo di guerra, nel tempo in cui gli uomini urlano, piangono e muoiono nel silenzio fragoroso e surreale dell’inferno sulla terra.

Nulla di angelico, in questa silhouette, nulla di arcano. Piuttosto, i tratti di una donna coraggiosa, brillante, ferrea e anticonformista, religiosa e rivoluzionaria, accogliente e schiva. Nulla di angelico. Perché gli angeli non possono essere lì, in Crimea, nell’inverno del 1855, dove non c’è spazio se non per il freddo, la fame, le malattie, le ferite e la disperazione; dove si muore per i cannoni, per i fucili e per le baionette, ma anche per il colera, per i vestiti stracciati, per i cibi avariati e per l’acqua avvelenata dai cadaveri.

Si muore in Crimea nell’inverno del 1855; si muore per una delle guerre più cruente mai combattute, iniziata con il romanticismo degli ufficiali e dei soldati che gridavano “gloria o morte” e ben presto continuata con i piedi di quegli stessi ufficiali e soldati che premevano il grilletto del proprio fucile per spararsi in volto, per sfuggire – almeno così – a un incubo che sembrava non potesse finire mai. Si muore, in Crimea. Ed ecco allora che quella lanterna, quell’orlo e quei passi, quei lineamenti austeri di occhi verdi e capelli castani, devono davvero sembrare paradiso e pace, una ricompensa inaspettata e benedetta, giunta da casa a portare aiuto, sollievo e dignità. Sembrano, sì. Sembrano ma non lo sono. Perché, a ben guardare, quella lanterna e quella donna hanno un nome, strano, eccentrico, evocativo – Florence, Firenze, la città dell’arte, della cultura e della rinascita – e un cognome, fiabesco, romantico, musicale – Nightingale, usignolo, l’animaletto che la poetessa Saffo ha descritto come amabile voce messaggero di primavera.

Florence Nightingale, trentaquattro anni, suddita di Sua Maestà, donna di epoca vittoriana, cresciuta in epoca vittoriana e educata secondo i canoni e le aspettative proprie dell’epoca vittoria. Eppure, Florence Nightingale, trentaquattro anni, suddita di Sua Maestà, donna di epoca vittoriana, ma – soprattutto – infermiera. Istruita, risoluta, preparata, combattiva. Infermiera che per essere tale ha dovuto affrontare la propria madre, la propria, amatissima, sorella, la società che le era contemporanea, l’età che la voleva – in quanto ricca e di famiglia alto-borghese – castigata, incontaminata, irreprensibile. Ed è davvero irreprensibile, Florence Nightingale, nel carattere e negli obiettivi, nel perseguire quella che lei definisce «una chiamata di Dio», nell’opporsi al ruolo che, sembra, dovesse per forza esserle proprio: quello di moglie e di madre.

Florence, detta Flo, nasce a Firenze – da qui il nome – il 12 maggio 1820, da William Edward Shore (che cambierà il cognome in Nightingale), un antesignano dell’epidemiologia, e da Frances Smith, donna di ottima famiglia britannica, durante il lungo viaggio di nozze della coppia. Rientrata in Inghilterra, insieme alla sorella Parthenope trascorre la sua infanzia e adolescenza nella lussuosa magione di famiglia, nell’Hampshire, ricevendo lezione di etichetta, di cucina, portamento e ricamo dalla propria madre, così da poter assolvere, nel migliore dei modi, al ruolo che le è predestinato. Flo, però, ha ben altre idee per la testa, ben altri obiettivi. Istruita dal padre in matematica, latino, greco, storia, filosofia, geografia, ella capisce che, no, la vita di donna che dovrebbe spettarle non fa per lei, che nel suo destino c’è qualcosa di più grande da realizzare, che, nelle strade già tracciate, il suo percorso non c’è, che il proprio sentiero è tutto da costruire.

E sicuramente, in questo sentiero, le nozze non sono contemplate. A ventiquattro anni, dopo aver rifiutato tre proposte di matrimonio, annuncia alla propria famiglia di voler diventare infermiera, di voler aiutare il prossimo, di voler studiare per raggiungere quello che sente essere l’obiettivo unico e principale della propria vita. Una notizia accolta come una tragedia dalla madre che, insieme alla sorella, tenterà in tutte le maniere di farle cambiare idea; il padre, invece, inizialmente titubante, deciderà alla fine di finanziare i desideri della figlia, elargendo una rendita annuale che le permetterà di trasferirsi in Germania, a Kaiserwerth. Qui, in un ospedale luterano, Flo prenderà il diploma di infermiera, apprendendo tutte le nozioni che le serviranno, una volta rientrata in patria, per fondare e organizzare un proprio istituto di assistenza. Questo sogno vedrà la luce nel 1852 quando, trentenne, ella verrà chiamata a dirigere e riorganizzare una clinica privata dedicata all’assistenza delle donne malate e prive di risorse economiche, al numero 1 di Upper Harley Street, a Londra. Grazie alle cinquecento sterline annue versatele dal padre, unite al contributo che “zia Mai”, la zia paterna, le dona, Florence rinnova questa clinica da cima a fondo: rifà gli impianti idraulici, acquista nuova biancheria, rivede il vitto e la contabilità, forma un personale dignitoso e qualificato.

Se fino a questo momento le infermiere provenivano tutte dalle classi popolari, donne per lo più povere ed emarginate che, costrette a vivere quotidianamente circondate da sporcizia, sofferenza e condizioni di lavoro al limite dell’umano, senza un’istruzione che permettesse loro di affrontare il tutto nella maniera migliore e più giusta possibile, finivano per darsi alla prostituzione e all’alcolismo, ora, grazie all’intransigenza, all’impegno e alle conoscenze di Flo, esse vengono preparate, educate e formate a una professione che, d’ora in avanti, acquisterà una dignità sempre maggiore, strappandosi allo stagnamento sociale e divenendo propria di qualsiasi donna volesse “servire l’umanità”. Un’opera enorme, questa fatta da Florence Nightingale, che in patria le porterà le prime attenzioni, le prime critiche e i primi successi.

Poi, nell’ottobre del 1853 scoppia la guerra. In Crimea s’inizia a sparare. Le immagini che giungono dal fronte sono quelle di ufficiali elegantissimi, nelle loro alte uniformi, in posa e sorridenti. La guerra sembra essere un’esperienza formativa; il fronte, un teatro di lustrini, galloni e medaglie. Questo è ciò che si crede in patria. Questo è ciò che credevano i soldati che partivano. Finché, penne coraggiose squarciano il velo di ipocrisia. William Russel, inviato del Times, racconta tutta un’altra storia, una storia fatta di sangue, piscio, cancrena, piaghe e amputazioni; una storia dove la terra non vede gloria e onore, ma “diventata friabile dai recenti scoppi, fu ovunque disseminata dai mutilati affusti, che schiacciavano i cadaveri dei russi e dei nemici, i pesanti cannoni in ghisa ammutoliti per sempre, scagliati nelle fosse con forza terrificante e a metà coperti di terra, le bombe, le palle di cannone, di nuovo cadaveri, le fosse, i pezzi dei tronchi di legno, i resti dei fortini, e di nuovo i silenziosi cadaveri nelle uniformi grigie o blu”, per usare le parole di un altro testimone diretto di quella mattanza, Lev Nikolaevič Tolstoj.

E in questa devastazione viene proposto a Florence di partire. Il ministro della guerra, Sydney Herbert, vecchia conoscenza della Nightingale (i due si erano conosciuto durante un soggiorno a Roma della giovane) le chiede di andare in Crimea a portare aiuto e sollievo ai soldati britannici. Flo non si fa pregare e, il 4 ottobre 1854, accompagnata da trentotto infermiere – tra cui “zia Mai” – sbarca a Scutari, quartiere di Istanbul, sede dell’ospedale militare britannico. La situazione che si trova davanti è a dir poco apocalittica: circa diecimila soldati sporchi, feriti e abbandonati a loro stessi, malattie che si trasmettono di brandina in brandina, cibi razionati, medicine e acqua potabile che scarseggiano. Con i regolamenti che gestiscono gli approvvigionamenti che rasentano il ridicolo – nel gennaio del 1855, mentre imperversa lo scorbuto, un carico di verdura e frutta fresca viene gettato in acqua solo perché le bolle di consegna non sono state compilate correttamente – e gli alti ufficiali che si disinteressano completamente del destino dei propri uomini, il lavoro che Flo e la sua squadra si trovano davanti è titanico. A questo, va aggiunta la ferrea opposizione e il boicottaggio dei dottori e degli inservienti già presenti sul campo.

Ma Flo non si ferma né si lascia intimidire. Allontana gli inservienti crudeli e fannulloni, migliora – a proprie spese – l’alimentazione e il vestiario dei soldati, assume un cuoco francese – tale Alexis Soyer – affinché prepari pasti sani, affitta una casa turca e la trasforma in una lavanderia. E, soprattutto, pulisce. Pulisce con maniacale precisione ambienti, pavimenti, pareti, degenti. Non crede nell’esistenza dei microbi (teoria all’epoca difficilmente accettata anche dai più insigni luminari), ma crede fortemente nella pulizia; e l’igiene, unito a cibi migliori, a cure mirate e a trattamenti umani, quando non medicalmente corretti, portano a un calo sostanziale della mortalità. Se di giorno gli ospedali sono un formicaio di attività, di notte l’alone di una lampada turca accompagna i passi di Flo tra le corsie dell’ospedale, a confortare gli uomini sofferenti.

E’ il Times a raccontare per primo della “Signora con la lanterna”, dell’angelo che conforta e accudisce i soldati di Sua Maestà anche dopo l’imbrunire, che non li lascia mai soli, andando a creare un vero e proprio personaggio da ammirare e osannare. Rientrata a Londra nel 1855, Florence Nightingale è ormai una celebrità. Pur rifuggendo la fama e il successo, ella usa la sua popolarità per tentare di migliorare l’assistenza medica militare, chiedendo, ad esempio, che venisse creata una commissione che indaghi lo stato attuale ed esigendo anche una totale riforma della sanità militare tutta, aiutata in questo da Harriet Martineu, affermata giornalista e scrittrice. Della sua esperienza in Crimea fa un testo, il Notes on Nursing, pubblicato a Londra nel 1859 e a Boston nel 1860, che diviene ben presto un libro fondamentale. Nel 1858 entra a far parte, prima donna della storia, della Royal Statistical Society: abilissima nella matematica e nei calcoli, si fa promotrice dell’uso dei cosiddetti grafici “a torta” nell’illustrare la situazione sanitaria di una data popolazione. Nel 1860, fonda la Nightingale Training School, oggi Florence Nightingale School of Nursing and Midwifery, richiamando donne della buona società, formandole in una professione che, oramai e grazie a lei, non è più sinonimo di povertà, prostituzione, miseria, diplomando la prima studentessa nel 1861. E queste sue ragazze faranno molta strada, dalla Crimea, alla Guerra di Secessione americana, fino in Giappone, a portare assistenza qualificata, conforto e dignità laddove sembra non esistere altro che il terrore della morte, della sofferenza e della solitudine. Lei stessa mantiene per moltissimi anni una fitta corrispondenza con diversi capi di stato stranieri, che le scrivono per ottenere suggerimenti e consigli: tra loro, Simone Cameron, ministro della guerra americano.

Ben presto di ammala di brucellosi e, pur non riprendendosi mai del tutto, continua a raccogliere attorno a sé giovani donne volenterose di dedicarsi alla cura del prossimo. E, con la sua attività, proseguono anche i riconoscimenti. Nel 1882 viene omaggiata da Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa, che si dice ispirato dalle sue idee; nel 1883 è insignita dalla regina Vittoria della Royal Red Cross. La sua salute precaria però degenera e, settantacinque anni, è ormai cieca e costretta a letto.

Flo muore il 13 agosto del 1910, verso mezzogiorno, nella sua casa di Londra, accompagnata, una settimana più tardi, nel suo ultimo viaggio, da una folla nutrita e variegata. Si spegne così la luce terrena della “donna della lanterna”, dell’angelo che la stampa dal fronte aveva così poeticamente descritto. Eppure, Florence Nightingale di angelico aveva ben poco. Ferma nei propri principi e saldamente legata alla realtà, pur divenendo una celebrità, è stata anche profondamente criticata, raccontata come una che avesse una “personalità divisa, che la spingeva a combattere, a imbrogliare, a prevaricare, a vantarsi e a salvare vite”. C’è chi la tratteggia come dotata di un carattere arido e meschino, duro e irascibile; chi ridimensiona enormemente – come Terry Brighton e Jane Robinson – la sua azione durante il conflitto di Crimea; c’è chi la accusa di aver respinto, a causa del colore della pelle, Mary Jane Seacole, un’imprenditrice scotto-giamaicana che legherà, anche lei, il proprio nome all’assistenza dei soldati al fronte.

Forse, a ben vedere, è anche giusto così. Flo, Florence Nightingale, è stata, prima di tutto, una donna, con tutti i pregi, i difetti, le qualità e le meschinità che sono proprie di ciascun essere umano. Anche se arida, a tratti infima, fredda e calcolatrice, ella è stata profondamente intelligente, volitiva, preparata e rivoluzionaria. Non si necessitava di un animo immacolato, bensì di una mente brillante, sveglia e coraggiosa. Se davvero è beato il popolo che non ha bisogno di eroi, benedetto è allora il popolo al quale non servono eroine ma donne algide, ciniche, coraggiose e sovversive. Donne accompagnate, nel loro cammino, dalla luce flebile di una lanterna.

Articolo di Sara Balzerano

FB_IMG_1554752429491.jpgLaureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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