Winnipeg

Sono qui, al porto, a guardare lontano. L’aldilà dell’orizzonte è un mondo altro, una storia altra, aliena.
Ci hanno detto che ci aspetta una nuova vita, che il peggio è passato. Ci crediamo. O, forse, fingiamo di crederci. Abbiamo visto troppo, patito troppo, per sentirci realmente al sicuro. Soprattutto, lontano da casa, a un oceano di distanza da tutto ciò che abbiamo sempre pensato come nostro. Ma non avevamo alternative: o si scappava o si moriva. E quando il forse è tutto ciò che hai, ti muovi, provi, speri di arrivare.
Siamo partiti. Sono partita anche io: in tutto duemiladuecento. Duemiladuecento scritto a lettera, tutto attaccato: perché si parla di persone e, se si parla di persone, si parla anche di sogni, speranze, paure, destini, e le cifre non bastano, sanno di calcolo e percentuale, statistiche che non significano nulla, e vanno usate le lettere attaccate, a indicare un respiro che non dovrebbe spezzarsi mai.
Siamo partiti. Era il 4 agosto del 1939, un venerdì. Le condizioni climatiche c’erano tutte, tutte insieme: il sole di chi vede davvero l’opportunità dietro le onde, la pioggia di chi – comunque – preferirebbe non andarsene, il vento di chi ha fretta, ovunque si vada, ché la strada è lunga e fermarsi non è nei piani.
Il porto da cui siamo salpati si chiama Trompeloup, in Francia. Ma questa, per gli altri, è stata solo l’ultima tappa prima dell’arrivo. Io no, io sono francese di nascita. Qui ho sempre lavorato e il viaggio, proprio il viaggio, è stato il mio mestiere. I miei compagni, invece, sono spagnoli. Nomadi, fuggiaschi, clandestini. Gente che aveva una patria ma che, da quella stessa patria, è stata costretta a scappare. Durante i preparativi ho ascoltato i loro racconti, diversi e così terribilmente uguali.
La Spagna bruciava, nera di fumo e di odio. Francisco Franco aveva vinto. La Repubblica non esisteva più e chi aveva combattuto per essa doveva sparire allo stesso modo. Guardavo i loro visi e pensavo a quanto potesse essere terribile una guerra civile: combatti per una terra che consideri tua ma che non senti più come tale. Improvvisamente, sei senza identità. Hai un nome, hai un cognome, una storia, un passato, ma tutto deve sparire se non vuoi, tu stesso, cadere nel nulla. La guerra uccide. La guerra civile cancella. Questo ho imparato ascoltando, defilata, i racconti di chi mi stava intorno.
Non è stato facile, per loro, arrivare in Francia. I Pirenei sono alti, freddi, la strada lunga, e le spalle… beh, le spalle sono cariche del vuoto di ciò che lasci dall’altra parte. Quando arrivi, poi, è come non giungere mai. Se scappi, non ti vogliono. E non importa che tu sia uomo, donna, bambino. La fuga non è un dato anagrafico, né di genere. Allo stesso modo, non guarda all’anagrafe neppure l’accoglienza. Quando passi i confini sei un nemico.
E in Francia, nemici lo erano per davvero. A sud si sarebbe ben presto istituito il Governo di Vichy, e i repubblicani spagnoli non avrebbero conosciuto pace, finendo nei campi di concentramento. Poi, se andava peggio e scoprivano che qualcuno era comunista o socialista o anarchico, il viaggio ricominciava, questa volta con destinazione Auschwitz, Treblinka, Buchenwald. In seguito, si è capito che posti fossero. La loro eco è arrivata fino a qui, alla fine del mondo. E credo che ancora oggi, tra i miei compagni, ci sia qualcuno che, incassando le spalle, ringrazi chi di dovere per essere riuscito a scappare.
E chi di dovere, io, me lo ricordo nitidamente. Mi chiamava la sua “poesia più bella”. Lo vedevo spesso, durante i preparativi concitati prima della partenza. Solo dopo ho scoperto che il suo nome era Ricardo, Ricardo Reyes, Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto. Non credo si sia girato mai, al porto, nel sentirsi chiamare così. Preferiva Pablo, Pablo Neruda. E io me lo ricordo bene, Pablo Neruda. Mi ricordo i discorsi che faceva. Mi ricordo la sua frenesia, le lettere che spediva e riceveva e il lavoro, incessante, testardo, continuo. Mi sono sempre chiesta perché avesse fatto tutto questo.
Neruda era console a Madrid. Aveva un amore assoluto per la Spagna e assistere al bombardamento della capitale, credo, debba averlo sconvolto in maniera inesorabile. C’era un nome però, in particolare, che ripeteva sempre, sottovoce, soprattutto quando pensava di non essere ascoltato. Ripeteva questo nome con le lacrime agli occhi, come fosse una promessa o un rimpianto. Federico, diceva. Federico. Io non l’ho conosciuto, questo Federico, ma mi hanno detto che era un poeta, anche lui, e che venne fucilato il 19 agosto del 1936, e che il suo corpo non fu più ritrovato. Federico, si chiamava. Federico Garcia Lorca. Mi piacerebbe leggere le sue opere, un giorno.
Fu così che Neruda fece un giuramento. A se stesso, forse. A Madrid, a Federico Garcia Lorca, alla Spagna. Fece il giuramento di difendere ciò che era stato perduto, cancellato, fucilato e bombardato: il diritto alla felicità. Scrisse in patria, al suo presidente, Pedro Aguirre Cerda. Lui, no, non era un poeta. Era un maestro elementare, un insegnante. Un lavoro altrettanto prezioso, a ben vedere, ché se non si fa bene questo, il secondo non potrebbe esistere. «È gente come noi, siamo così simili in tante cose. Porta con te tutta la gente che è possibile salvare». E Neruda, il console, il poeta, si mise a lavoro. Chiese fondi in Cile, in Spagna e in Francia. Al suo appello risposero in tanti e in tanti provarono a sabotarlo. Rispose, tra gli altri, Pablo Picasso. A sabotarlo, di contro, pensarono politici e burocrati.
Andarono avanti. Neruda, Picasso, Aguirre Cerda, il SERE, il Servicio de Evacuación de Refugiados Españoles, non si fermarono e organizzarono l’impresa. Anche io presi parte a questa missione, cambiando, travestendomi. Però, fin da subito, capii che si trattava di un qualcosa di troppo importante per non stare al gioco.
Partimmo. La mattina del 4 agosto del 1939, partimmo. Io e duemiladuecento fuggitivi spagnoli. L’ultima immagine che ho impressa nella mente è quella di Neruda e di sua moglie, fermi sulla banchina. Non vennero con noi. Loro, cui tutto si deve, decisero di rimanere in Francia per non togliere posti utili a chi stava scappando.
Rimanemmo in mare trenta giorni, e gli ultimi sempre sotto costa, muovendoci di notte, per non essere individuati dai sottomarini tedeschi. Nel frattempo, eravamo aumentati: duemiladuecentodue. Due figli del mare, figli della fuga. Due figli della fratellanza che aveva permesso loro di nascere. Un po’ due figli anche miei, che a questa venuta al mondo avevo assistito e, in parte, contribuito.
E alla fine approdammo: era il 2 settembre del 1939, davanti a noi il porto di Valparaiso. Eravamo in Cile, eravamo a casa. Scoprimmo, però, che non tutti erano contenti del nostro arrivo, che c’erano state delle proteste. I nazionalisti, la destra, i simpatizzanti nazisti dicevano di noi che avremmo rubato i posti di lavoro dei cileni, che avremmo sovvertito le loro tradizioni, violentato le loro donne e rapito i loro bambini. Tutto questo, solo perché eravamo gli stranieri, gli altri, i diversi. Eppure, io so che gli occhi hanno sempre l’abitudine di viaggiare in coppia, i nasi sono sempre brutti, le bocche piangono e urlano tutte allo stesso modo. Sono mute, tutte, allo stesso modo. Gioco strano, il terrore storce sempre i lineamenti, svuota lo sguardo, secca la parola, sempre alla stessa maniera. Non so dove vedano il diverso. Non l’ho mai capito.
Quel giorno, comunque, sul molo c’era una gran festa: canti, applausi, fiori e cibo. Personaggi politici importanti erano lì ad accoglierci. Tra loro, ne ricordo uno in particolare, un giovane dottore, ministro della sanità, arrivato per organizzare la vaccinazione contro il Tifo. Si chiamava Salvador Allende.
I miei compagni sbarcarono e si divisero. Alcuni rimasero a Valparaiso, altri presero il treno per Santiago, tutti però ospitati nelle case dei cileni, perché, come ebbero a dire: «I nostri fratelli che hanno attraversato l’oceano non finiranno in un centro di accoglienza». Che gioia, leggere finalmente un po’ di sollievo su quei volti stanchi, spaventati, a tratti – forse – anche rassegnati! E quei visi io me li ricordo, uno per uno. Mi ricordo quelle labbra, aperte a formare la parola “grazie” talmente tante volte da non volersi chiudere mai.
Oggi, ferma al porto a guardare l’oceano, so che tutti quei grazie sono stati restituiti e ripagati. Perché i miei compagni di viaggio hanno reso grande la terra che si è fatta chiamare casa. Penso a Roser Blu, che ha fondato la facoltà di Arte Contemporanea; penso a Fernando Velet, che ha fondato l’Istituto cileno di cinematografia; penso a Arturo Soria, che ha creato tre facoltà di architettura; penso a Isidro Corbinos, che diverrà giornalista; penso a Luis Fernández Turbica, che sarà drammaturgo; penso a Diana e Victor Pey, la prima pianista e compositrice, il secondo ingegnere e professore. Penso a tutti loro, mentre guardo l’oceano, e in me si fa grande la certezza che la felicità arriva quando felicità si crea.
E posso dire, alla fine di questi miei ricordi, che felice lo sono un po’ anche io.
Lasciate che mi presenti. Io sono Winnipeg, la nave di questo viaggio straordinario.

COPERTINA WINNIPEG

Articolo di Sara Balzerano

FB_IMG_1554752429491.jpgLaureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

4 commenti

  1. WINNIPEG! Ricordo tanti anni fa di avere assistito ad una rappresentazione teatrale su questo episodio. Il regista era un cileno, di cui ora mi sfugge il nome, e partecipavano all’allestimento dello spettacolo degli studenti spagnoli e greci. Teniamo alta la guardia, ragazzi…non si sa mai!!!

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