“Sa Reina” nuorese. Maria Antonia Serra Sanna

A fine Ottocento il Nuorese era percorso da briganti i cui nomi evocavano puro terrore. Si tratta di Antonio Mulas, Giuseppe Pau, Tomaso Virdis,Vincenzo Fancello, Paolo Solinas e i temibili Serra Sanna: Giacomo, Elias e la sorella Mariantonia, detta “sa Reina”(la regina). Questi banditi, a capo di centinaia di uomini, spesso emanavano veri e propri “bandi” a cui la popolazione doveva sottostare, se non voleva incorrere in punizioni tremende ed esemplari. Nel 1899 il capitano Giuseppe Petella e il tenente Giulio Bechi sono accanitamente sulle loro tracce, in una “caccia grossa” come quelle che si facevano ai cinghiali; il presidente del Consiglio dell’epoca, Luigi Pelloux, invia in Sardegna truppe allo scopo di annientare definitivamente la piaga del brigantaggio e dei risultati si vedono già, nei primi mesi della “caccia”, con l’arresto di numerosi latitanti.

Si sa che dietro le azioni dei fratelli amatissimi Elias e Giacomo c’era lei, la mente organizzatrice di furti, omicidi, vendette. Nella fama popolare, tramandata anche da Grazia Deledda, viene descritta molto bella, alta e robusta, dai lineamenti fini, pallida, con due grandi occhi neri e due sopracciglia folte, spietata e diabolica. Quando incede per le vie con il ricchissimo costume tradizionale, accompagnata dalle serve, incute rispetto e timore. Qualcuno si inchina come merita una vera regina. La famiglia aveva fatto fortuna: il padre Giuseppe (detto Peppeddu, noto con il soprannome “Carta”) era stato un pastore poi diventato possidente, con case, vasti terreni, animali. Il patrimonio era gestito da Mariantonia che usava metodi infallibili per incrementarlo: visitava amici e conoscenti e chiedeva gentilmente a nome dei fratelli piccoli favori e doni concreti (armi, munizioni, soldi, bovini e ovini) che naturalmente non potevano essere rifiutati. Infine rilasciava regolare ricevuta. Fra il 1897 e il ’99 le visite di cortesia furono particolarmente frequenti e spesso “sa Reina” si faceva accompagnare da una amica, bella, istruita e ambiziosa: Giuseppa (Peppa) Lunesu. Si racconta che si fosse innamorata di un bandito piuttosto insignificante ma che per lei avesse perso la testa un carabiniere, trasferito in breve tempo nel continente per non portare disonore all’esercito regio.
Ufficialmente Mariantonia conduceva una vita regolare, non si era data alla macchia come i fratelli proprio per avere libertà di azione e poterli supportare nella latitanza. Si racconta che indossasse talvolta abiti maschili per raggiungerli a cavallo nei luoghi impervi del Supramonte dove si nascondevano. Una sola volta era stata arrestata ed era rimasta in carcere alcuni mesi, nel 1895, ma poi l’accusatore, terrorizzato dalle possibili conseguenze, aveva ritrattato e lei era stata rilasciata.
Nel 1899 la lotta al banditismo era animata da vero furore: il prefetto di Sassari, il conte Giovanni Battista Nepomuceno Cassis, voleva arrestare tutti i latitanti (ma solo a Nuoro se ne contavano circa 200) e procedeva con metodi ritenuti anche all’epoca discutibili, ma soprattutto inefficaci. Per ritorsione e minaccia arrestava i parenti dei ricercati, ritenendoli sempre dei fiancheggiatori. Le fonti informano che addirittura sul quotidiano “La nuova Sardegna” fu inserita una apposita rubrica dal titolo significativo “Testa di Cassis”.
La notte fra il 14 e il 15 maggio 1899 passò alla storia come la “notte di san Bartolomeo” sarda perché portò a circa 600 arresti, proseguiti anche nei giorni successivi. Tuttavia, almeno la metà degli imputati furono subito messi in libertà e gran parte dei rimanenti furono prosciolti per mancanza di prove. Mariantonia, che al momento aveva 33 anni, e il padre anziano furono catturati nella loro abitazione e portati via fra lo stupore generale. Poco tempo dopo l’azione si spostò nelle campagne e sui monti. A Morgogliai, a circa 30 km da Orgosolo, fra il 9 e il 10 luglio avvenne uno scontro epico in cui persero la vita sia Giacomo (di 34 anni) sia Elias (di 27). Per loro si mobilitarono delle forze ingenti: più di 200 fra carabinieri e soldati guidati dal capitano Petella e dal brigadiere Cau.
Mariantonia venne a sapere in carcere della morte dei fratelli e si chiuse nel suo immenso dolore. Fu condannata a 20 anni con la pena più dura fra tutte quelle comminate agli arrestati di maggio (rimasti circa 150), ma ne scontò 18 nella cupa prigione detta “la Rotonda” di Nuoro (oggi abbattuta). Si sa che, al suo rilascio, ormai cinquantenne, si sposò con un uomo di Orgosolo, fratello di una compagna di cella, e vissero insieme per un certo periodo a Nuoro. Poi, anche i familiari ne persero le tracce e di lei non seppero più nulla.

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Articolo di Laura Candiani

oON31UKhEx insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume e Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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