Quello di “Walking Stories for Walking Women” è stato un viaggio lungo, che per tre settimane – sul profilo Instagram di Wher e grazie al supporto di Toponomastica femminile – ci ha portato tra le vie dedicate a grandi scienziate, scrittrici e sportive, ma anche alla scoperta delle storie di quelle donne che ancora non vedono il proprio contributo riconosciuto nelle strade e nelle piazze italiane.
Prima di fare un bilancio, però, c’è ancora un’ultima tappa da percorrere. È quella che ci porta a conoscere le storie di due rivoluzionarie: Maria Goia e Alma Sabatini.
Difficile assegnare un significato univoco al termine “rivoluzione”. La rivoluzione può assumere facce diverse, può essere dirompente come silenziosa, si manifesta nelle azioni, ma anche nell’intuito di chi riesce a guardare oltre la propria persona e oltre il proprio tempo.
Abitudini, diritti e tutele che oggi consideriamo la norma sono stati rivoluzione.
Ce lo insegna Maria Goia, alla cui voce, che si unisce a quella di tante altre donne che hanno avuto il coraggio di opporsi e di lottare per ciò che ritenevano giusto, dobbiamo oggi tanto.
Maria è una delle prime sindacaliste in Italia, ma soprattutto una delle prime a raccogliere le rivendicazioni dei movimenti femministi – che a cavallo tra ‘800 e ‘900 conoscevano un momento di grande vigore – e a tradurle concretamente sul piano economico, sociale e politico. L’uguaglianza, per Maria, non è solo una questione etica: si deve manifestare concretamente, attraverso la parità salariale, l’emancipazione mediante il lavoro, il diritto al voto per le donne.
Il suo temperamento è evidente già durante gli anni della scuola: nonostante venga da una famiglia molto umile – la madre è una lavandaia, mentre il padre lavora nelle saline di Cervia – Maria riesce a iscriversi alla Regia Scuola Normale femminile di Ravenna e sin da subito ottiene risultati brillanti. L’unica materia in cui vacilla è “Lavori donneschi”: non ci viene difficile credere che non si tratti di una coincidenza, ma del chiaro segno che, già da giovanissima, Maria abbia scelto di non adeguarsi a una mentalità discriminatoria, che assegnava automaticamente a ogni donna il solo ruolo di moglie e di madre.
Nel 1901 si iscrive al Partito socialista italiano e si distingue come brillante oratrice e propagandista. Alla tensione politica di quegli anni si somma però anche la discriminazione: ancora oggi, a oltre un secolo di distanza, il fatto che un uomo si trovi a rivestire un ruolo di potere è considerato la norma, mentre per una donna spesso non si applica lo stesso schema. Una donna al potere è vista come un’anomalia, dietro cui si celano manie di grandezza, sete di fama. Se un uomo al potere è deciso, una donna al potere è aggressiva.
Ecco quindi che la passione politica e l’impegno sociale di Maria non sono visti di buon occhio e, in alcune note prefettizie, di lei si legge che «ha tenuto diverse conferenze di propaganda socialista spinta principalmente a ciò dal desiderio di emergere e di essere applaudita dalla folla».
Ma Maria non si lascia scoraggiare e continua a lavorare nei sindacati, assumendo l’incarico di segretaria della Camera del Lavoro. Si occupa della creazione dei primi sistemi cooperativi italiani e di leghe che riuniscono le lavoratrici, diventando luoghi di tutela per i loro diritti, ma anche centri di riflessione e di educazione. In una parola, spazi di emancipazione.
Un’emancipazione che però non potrà mai realizzarsi totalmente senza il diritto al voto, senza che anche alle donne sia data la possibilità di far valere le proprie idee sul piano politico: Maria fa sua questa battaglia, prestando la sua voce a numerose conferenze e la sua penna ad articoli che sono pubblicati su “La difesa delle lavoratrici”, periodico socialista fondato a Milano nel 1912 da Anna Kuliscioff, Linda Malnati e Griselda Brebbia.
Gli attacchi degli avversari politici continuano però ad arrivare: nel 1916, la sua propaganda contro la guerra le costa l’allontanamento da Suzzara, centro della provincia di Mantova dove si è trasferita nel 1906, mentre negli ultimi anni della sua vita è la nascita del fascismo a cercare di metterle i bastoni tra le ruote, tanto che nel 1921 scampa per miracolo ad un incendio doloso che colpisce la sede della Camera del Lavoro di Ravenna.
Oggi a Maria Goia sono intitolate varie vie: a Ravenna, a Mantova, a Villareia (PE), a Porto Fuori (RA), a Cervia, dove prende il suo nome anche la biblioteca comunale, che nasce come “biblioteca popolare circolante” proprio grazie al suo impegno.
Nessuna via porta invece il nome di Alma Sabatini, anche lei attivista a tutto tondo, una delle protagoniste di quel femminismo che – a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del ‘900 – si preoccupa di mettere in luce quanta strada ancora ci sia da fare perché la parità, oltre a essere ricercata come traguardo sociale e politico, si innesti a livello culturale, entri a far parte delle famiglie, permetta alle donne di vivere liberamente il corpo e la sessualità.
Alma – classe 1922, laureata in lettere moderne e insegnante di lingua inglese – si avvicina alla politica quando è già una donna matura: entra a far parte del Partito radicale negli anni Sessanta e, sensibile alla causa antirazzista e anticolonialista, fa presto sua la battaglia per il divorzio.
È solo l’inizio di un lungo percorso di riflessione e di lotta, che presto si estende fino a coinvolgere una vasta serie di tematiche legate alla repressione sessuale e che porta Alma, nel 1970, a fondare il Movimento di Liberazione della Donna, di cui diventa anche la prima presidente. È però un’unione destinata a non durare: Alma infatti si dimette dopo pochi mesi, davanti all’opposizione del partito alla sua scelta di creare dei gruppi di autocoscienza, spazi riservati alle donne in cui discutere di tematiche legate alla sessualità.
Porta avanti il suo progetto in autonomia e da alcuni degli incontri, che vedono tra le partecipanti anche la scrittrice Gabriella Parca, nasce “Effe”, il primo rotocalco femminista italiano, dalle cui pagine Alma esprime la propria posizione su temi come aborto, matrimonio e maternità.
Ma non manca di far sentire la sua voce anche in piazza: nel 1972 è tra le organizzatrici, insieme al gruppo Lotta Femminista, di una delle prime manifestazioni pubbliche del femminismo italiano. Il corteo si scontra con la polizia e Alma viene ferita alla testa. E dimostra ancora un grande coraggio quando, nel 1973, si autodenuncia: pur non avendo mai abortito, come gesto di solidarietà e sostegno alla causa di Gigliola Pierobon, contadina veneta allora sotto processo perché accusata di aborto clandestino, si fa carico di quello che all’epoca era ancora considerato un reato.
Ben presto, l’impegno femminista di Alma investe anche la sua passione per lo studio della lingua italiana. Lingua che – per dirla con le sue stesse parole- «non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l’immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale»: per questo Alma si occupa di mettere in luce come secoli di pregiudizi e di retaggi culturali, solidificatisi nel parlato e nella parola scritta, contribuiscano ad accentuare un divario che ancora oggi non si può dire del tutto sanato.
Dopo aver pubblicato Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, nel 1986 Alma redige – per conto della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna – delle linee guida, rivolte soprattutto alle scuole e all’editoria scolastica, affinché le nuove generazioni possano crescere libere da insidiosi stereotipi linguistici. Soprattutto mette in evidenza come l’utilizzo del maschile – impiegato nella lingua italiana come “maschile neutro”, con doppia valenza – sia un retaggio che condanna le donne all’invisibilità, prima sul piano simbolico, poi sul piano sociale, economico e politico.
Proprio per questo, è un triste paradosso il fatto che proprio a lei nessuna via sia stata ancora intitolata: il suo impegno ci ricorda come la rappresentazione femminile sia estremamente importante, perché il piano simbolico non è mai solo tale.
I simboli, come le parole della lingua italiana o i nomi a cui sono intitolate le nostre strade e le nostre piazze, sono influenzati e a loro volta influenzano gli schemi della società. L’assenza di riconoscimento è una condanna all’invisibilità, perché quei nomi non sono solo nomi: sono storie, sono moniti, sono ispirazioni.
Così si conclude il nostro percorso “Walking Stories for Walking Women”: è stato un viaggio importante, grazie di aver camminato insieme a noi.
Articolo di Giorgia Cino
Nata a Lecce, studia Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione al Politecnico di Torino. Da sempre appassionata di comunicazione, in ogni sua forma, collabora con l’Ortometraggi Film Festival e con la web radio OndeQuadre.