Nel complesso il Sessantotto è stato una rivoluzione morbida ma riuscita su quella che Marx definiva «la sovrastruttura», ovvero i costumi la morale le abitudini la vita quotidiana delle persone, senza andare a intaccare «la struttura» economica della società. Alla fine degli anni Sessanta la contestazione si estende ai licei e alle fabbriche. Col passare del tempo il livello di tensione sale insieme alla forza del movimento: gli ultimi mesi del 1969 prendono il nome di “autunno caldo” per gli scontri sempre più frequenti tra operai e polizia. E stavolta non si può più sostenere che i ribelli siano figli di ricchi. Il Pci non sostiene le rivolte. La situazione diventa difficile da controllare e lo Stato si sente tremare la terra sotto i piedi. La conflittualità sociale è troppo alta e urge dare una risposta. Per i padroni è facile tollerare droghe, vestiti improbabili e sesso libero, purché la loro egemonia sociale non sia messa in discussione e il mercato vada avanti redditizio e produttivo. Quando le sfilate dei cosiddetti “figli dei fiori” si intrecciano alle lotte operaie e tutto il sistema inizia a vacillare, l’indignazione moralista cede il posto alla criminalizzazione mediatica e alla repressione militare. Gli anni Settanta iniziano così: assai conflittuali e turbolenti. Si può dire che il decennio successivo al 1968 sia il tentativo, drastico e fallito, di portare la Rivoluzione sessantottina nella struttura della società, di estendere le libertà ottenute nei costumi anche ai meccanismi di produzione del sistema per evitare che le conquiste sociali siano fagocitate dal capitale e che, di fatto, nulla cambi davvero. La reazione dello Stato e dei padroni sarà proporzionata al tentativo rivoluzionario.

Il 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano uccidendo sedici persone. La colpa dell’attentato è immediatamente attribuita agli anarchici, pur senza alcuna prova. Viene arrestato il ballerino anarchico Pietro Valpreda, che molto tempo dopo sarà riconosciuto innocente. La notte tra il 15 e il 16 dicembre il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, anche lui tardivamente riconosciuto come innocente, precipita misteriosamente dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.

Dopo alcune concessioni fatte alla classe operaia, la strategia della tensione è la risposta dello Stato a una mobilitazione troppo vasta e quindi pericolosa a cui bisogna togliere consensi. Pochi mesi dopo viene pubblicato un libro di controinchiesta che fa chiarezza sui fatti di piazza Fontana: già il titolo, La strage di Stato, è eloquente nell’attribuire le responsabilità. A gennaio del 1972 viene ucciso Luigi Calabresi, questore di Milano e quindi responsabile (anche se non esecutore materiale) della morte dell’anarchico Pinelli. Gli autori dell’omicidio sono di fatto ignoti, ma la magistratura condanna senza prove i vertici di Lotta Continua (tra questi Adriano Sofri rimasto 22 anni in carcere). Lotta Continua è il principale giornale e gruppo politico della sinistra extraparlamentare, molto meno ortodosso e rigido del Pci e fuori dai giochi di governo.

Nello stesso anno, alla segreteria del Pci viene eletto Enrico Berlinguer, con cui il Partito cambia totalmente volto. In uno dei suoi primi discorsi da segretario, Berlinguer dichiara che la spinta propulsiva data dalla Rivoluzione del lontano ottobre 1917 è ormai esaurita e che c’è bisogno dunque di un’energia nuova. Il Pci, ancora filosovietico ma non più antagonista al sistema liberale, apre le trattative con il governo: il comunismo è di fatto messo in soffitta optando piuttosto per una socialdemocrazia. La Cgil, sindacato fedele al Pci, preme per calmare le spinte rivoluzionarie ancora presenti nelle fabbriche, smettendo di fatto di guidare le lotte.
Nell’autunno del 1973, presso la fabbrica Fiat di Mirafiori a Torino, gli operai scioperano non solo contro i padroni ma anche contro il sindacato, considerato non un aiuto alla lotta di classe ma un contentino concesso dall’alto per evitare il trionfo del proletariato. È qui che nasce l’Autonomia Operaia: forse un gruppo, forse un partito, forse una banda, difficile da definire, vi confluiscono intellettuali e operai con idee diverse. Alla base del pensiero degli “autonomi” vi è la lotta diretta, senza alcuna delega, costante e incessante. L’Autonomia si colloca fin da subito al di fuori della legalità statale, facendo largo uso della violenza in piazza. Uno dei concetti più spesso ripetuti negli anni Settanta è il rifiuto del lavoro salariato che pretende di mettere in vendita i corpi umani: invece di farsi sfruttare, tantissime donne e uomini, prevalentemente autonomi ma non solo, vivono praticando quotidianamente espropri di beni alimentari, occupazioni a scopo abitativo di edifici abbandonati e autoriduzioni delle bollette, quindi l’illegalità di massa è la condizione per rendere effettivo questo rifiuto. All’Autonomia Operaia più o meno organizzata si affianca l’autonomia diffusa, un numero sempre più vasto di persone che praticano lo stesso stile di vita senza riconoscersi in gruppi o partiti o collettivi. L’autonomia diventa un modo di vivere. Fa parte dell’autonomia diffusa anche un sempre più largo gruppo di persone che, senza spinte ideologiche o politiche, pratica furti e violenze comuni, per lo più giovani provenienti dal sottoproletariato delle periferie delle grandi città. La diffusione di autonomi nelle fabbriche aumenta l’assenteismo, rallenta la produzione e danneggia il profitto dei padroni. Il tutto si accompagna alla crisi economica scoppiata nel 1973 che mette in difficoltà l’economia neoliberista e incrina la fiducia nel sistema, che fino a quel momento era stata alta. Una delle principali nuove idee che circolano in questi anni è quella del cosiddetto «operaio-massa» (o «operaio sociale»): tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori di qualsiasi categoria, nonostante le differenze specifiche, sono ugualmente sfruttati dallo stesso sistema produttivo, qualunque sia la loro funzione; anche chi paga per andare al cinema sta alimentando un sistema malato. La «catena di montaggio sociale» non è più solo all’interno della fabbrica ma è l’intera società. Questo determina l’unione di tantissime persone diverse in un unico fronte di lotta antagonista che mai era stato così vasto e così ostile verso tutto il mondo della politica e dell’imprenditoria.

Tra il 1975 e il 1978 una parte di comunisti antisovietici e ostili al Pci (non riconosciuto come comunista dai gruppi extraparlamentari) riesce a entrare in Parlamento con il cartello chiamato Democrazia Proletaria (Dp), in cui confluiscono i gruppi comunisti, i sindacati di base e anche il manifesto. Dp continuerà a esistere come realtà extraparlamentare fino al 1991.
La grande Rivoluzione degli anni Settanta è data dall’irruzione nella Storia di soggetti nuovi, prima relegati ai margini della società. In particolare, in tutti i gruppi, partiti, collettivi, assemblee, feste, cortei e quant’altro, è fondamentale la partecipazione delle donne, ancora più forte che nel decennio precedente. Femministe e lesbiche prendono la parola, combattono il maschilismo radicato nella società e spesso anche nello stesso movimento, chiedono la parità di salari, l’abolizione del diritto di famiglia patriarcale, il sesso libero senza essere giudicate. Una importante rivendicazione femminista è il riconoscimento del lavoro domestico come un vero e proprio impiego: la donna casalinga non va in fabbrica ma non per questo è una nullafacente, e la fatica di gestire una casa e accudire la prole (quella che Marx chiamava «la riproduzione del lavoro») andrebbe retribuita alla pari di quella del marito operaio. Nonostante la propaganda contraria della Chiesa e della Democrazia Cristiana, nel 1974 si ottiene una delle più grandi vittorie femminili in Italia: con un referendum abrogativo viene mantenuto il diritto al divorzio (prima era soltanto il marito che aveva diritto di ripudiare unilateralmente la moglie). L’anno successivo al referendum, il nuovo diritto di famiglia istituisce la parità formale tra i coniugi, depenalizza l’adulterio femminile e abolisce l’imposizione alla donna di acquisire il cognome del marito: d’ora in avanti l’uomo che picchia la moglie è riconosciuto come violento e perseguibile legalmente in quanto la donna non è più considerata una proprietà maschile. Nel 1981 un altro referendum legalizzerà la possibilità per le donne di interrompere una gravidanza indesiderata, facendo passare il concetto che la maternità sia una scelta e non un obbligo, concetto anche questo che vede l’ostilità del mondo cattolico. La presenza di così tante donne in piazza costringe la società a farci i conti e accettarle e, lentamente e gradualmente, le rivendicazioni femministe si diffondono e si normalizzano, anche se la violenza privata maschile non è finita. A decenni di distanza, che una ragazza esca la sera è un fatto normale mentre negli anni Cinquanta sarebbe stato scandaloso.
Mentre nel Sessantotto si puntava solo a un egualitarismo di matrice operaia e al soddisfacimento dei bisogni primari, il movimento degli anni Settanta, e in particolare la sua componente femminista, esalta ed esaspera le differenze individuali e non si accontenta più di soddisfare i bisogni ma esige di realizzare anche i desideri: non ci si limita ad espropriare il pane e il latte nei supermercati, si prendono anche cibi costosi, si va senza pagare al cinema e a cena nei ristoranti di lusso, si diffonde la moda di viaggiare gratis non solo in autostop ma anche non pagando i treni e gli autobus.

Una parte nuova e interessante del movimento romano è costituita dai cosiddetti “indiani metropolitani“: ragazze e ragazzi con i volti truccati e vestiti da indios, ecologisti quasi sempre scalzi, armati di finte asce e pieni di umorismo e sarcasmo, sono il soggetto più stravagante che popoli le piazze italiane, spesso radunandosi per la festa della primavera o chiedendo ironicamente al governo di imporre più sacrifici.

In seguito alla liberalizzazione legale delle frequenze dell’etere, nascono varie emittenti radiofoniche indipendenti (prima erano ammessi solo i canali militari e quelli pubblicitari), di cui le più famose sono Radio Alice a Bologna e Radio Onda Rossa a Roma, che trasmettono musica e danno informazioni sulla vita libera e sulle iniziative militanti. Queste radio sono molto eterogenee, non c’è una linea rigida da seguire e chiunque può prendere la parola.
Intorno al 1975 a Milano nascono i Circoli del proletariato giovanile, spazi abbandonati che vengono occupati da ragazze e ragazzi giovanissimi, stufi di avere il bar del quartiere come unico luogo di aggregazione. Insieme si improvvisano manifestazioni e feste non autorizzate, si saccheggiano i supermercati, si viaggia, si va al cinema e ai concerti senza biglietto, si cacciano a bastonate gli spacciatori di eroina. Non si tratta di gruppi rivoluzionari strutturati ma di bande che sorgono come funghi sparse per la metropoli e da Milano si diffondono per tutta la penisola. Con questi fenomeni l’autonomia si radica nella società e l’assalto alla vita capitalista si fa sempre più capillare. Negli anni e nei decenni successivi, la versione organizzata di questi circoli darà vita ai centri sociali.

Dal 1974 al 1976, le giovani generazioni ribelli danno vita a un esperimento: ritrovandosi ogni estate a Milano nel Parco Lambro, cercano di creare una vita in comune riprendendo l’esperienza americana di Woodstock dell’agosto 1969. Ma a Woodstock la musica era slegata dalla militanza politica. A Milano sorgono continui conflitti insanabili interni ai gruppi, fino a portare alla chiusura di quest’esperienza. Anche a Parco Lambro iniziano gli espropri verso i banchetti alimentari, che arrivano ad avere prezzi simili a quelli dei bar del centro.
Nel 1975, vista la crescente insubordinazione studentesca e operaia e gli scontri di piazza sempre più frequenti, viene varata una legislazione “d’emergenza” estremamente repressiva, che aumenta smisuratamente i poteri di polizia e carabinieri a discapito delle garanzie e dei diritti di cittadini e cittadine. Si tratta della legge Reale, dal nome del deputato del Partito Repubblicano che l’ha proposta, approvata anche grazie ai voti dell’Msi (partito neofascista guidato da Giorgio Almirante), nonostante questo non appartenga alla coalizione di governo, mentre il Pci in un primo momento vota contro. La norma inasprisce la precedente Legge Tambroni del 1956 che reinseriva nel codice penale repubblicano il confino (usato con frequenza durante il fascismo) con il nuovo nome di «obbligo di soggiorno» o «obbligo di dimora», non sulla base di una condanna penale ma di un semplice sospetto della questura. La nuova legge prevede il divieto di indossare in luogo pubblico caschi o indumenti che coprano il volto, il diritto delle forze armate, non solo militari, di perquisire chiunque indiscriminatamente anche in assenza di un mandato della magistratura (violando l’articolo 13 della Costituzione del 1948) e di usare armi da fuoco anche in assenza di atti di violenza o resistenza nei loro confronti e, cosa ancora più eclatante, il fermo preventivo (che non si vedeva in Italia dai tempi del fascismo) di 96 ore anche in assenza della cosiddetta flagranza di reato.
La situazione nelle fabbriche, nei quartieri, nelle strade, nelle scuole e nelle università è ingestibile. I nuovi diritti sanciti dallo Statuto dei Lavoratori valgono solo per chi ha un contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le nuove forme di lavoro sempre più frequenti nella società italiana e non riconosciute dai sindacati, impassibili davanti ai nuovi contratti quasi senza diritti proposti dalla classe imprenditoriale. Le precarie e i precari, i disoccupati e le disoccupate, di conseguenza, non si sentono più tutelate dai sindacati in cui invece avevano creduto le generazioni precedenti.

L’estensione della scuola dell’obbligo e l’apertura dell’università a chiunque indipendentemente dalla scuola superiore frequentata fanno sì che l’università prima riservata a un’élite diventi ora di massa. Questo esaspera l’agitazione studentesca: ora gli atenei non raccolgono più i figli della ricca e media borghesia, ma l’intera società giovanile con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, diventando così il luogo di raccolta di disagi ben più grandi. Inoltre, le facoltà si ritrovano a essere di fatto la sede di preparazione al lavoro salariato e precario, non solo sfruttato ma anche estraneo alla rappresentanza sindacale. E, per le istituzioni, chi non è rappresentato costituisce un problema non politico ma di ordine pubblico. Diversamente dal Sessantotto, ora non sono intellettuali e studenti privilegiati a criticare la società ma è la parte più disagiata e meno riconosciuta, tagliata fuori dalla società stessa, ad assaltare i centri della cultura: la fantasia del decennio precedente ora lascia spazio a frustrazione e rabbia. Le facoltà non sono più la culla della rivolta ma il luogo di raduno di problemi nati altrove. L’altro fattore di novità rispetto al movimento precedente è che le prime agitazioni studentesche scoppiano al Sud.
Gli scioperi e i cortei sono sempre più frequenti, l’assenteismo sul lavoro è ai massimi storici, occupazioni ed espropri sono all’ordine del giorno e la polizia non è più la più forte, lo Stato ha perso il monopolio della violenza legittima e i padroni vedono i loro profitti gravemente minacciati.

Ma i giovani hanno fatto i conti senza l’oste. In questi anni il Pci di Berlinguer si sta avvicinando sempre di più al governo democristiano. Eppure, nonostante l’ostilità dei movimenti, continua a crescere nei sondaggi elettorali. Il cosiddetto compromesso storico (noto anche come «governo della non-sfiducia» o «delle astensioni») consiste in un esecutivo “monocolore” (cioè monopartito) della Dc reso possibile grazie all’astensione del Pci per garantirsi un maggior peso istituzionale. L’avvicinamento del Pci al mondo cattolico è giustificato con la scusa del timore di un colpo di Stato in Italia, unico Paese liberale dell’Europa meridionale, nonostante proprio in questi anni vedano la fine i regimi autoritari in Portogallo, Spagna e Grecia simili al fascismo. È chiaro che il Pci è ormai una forza conservatrice ed è l’acerrimo nemico dei movimenti, troppo forti e fastidiosi. Serve un pretesto per rimetterli a tacere.
Quando la riforma Malfatti diminuisce la possibilità di ripetere gli appelli d’esame e pone forti restrizioni al diritto degli studenti di scegliere liberamente quali corsi inserire nel piano di studi, le università già in fermento esplodono. La circolare Malfatti non è la causa determinante delle lotte, ma solo la goccia che fa traboccare il vaso, la scintilla su una polveriera già da tempo pronta ad incendiarsi. All’inizio del 1977 le università di Palermo, Napoli, Roma, Bologna, Torino e Milano sono occupate dagli studenti. Salvo una microscopica minoranza, gli occupanti sono ostili, o quantomeno estranei, al Pci e alla Cgil.

Il segretario generale della Cgil Luciano Lama annuncia un comizio che terrà dentro la Sapienza. Per gli occupanti è una provocazione, ed è lo stesso Lama ad ammettere che il suo intervento serve a «riportare l’ordine e mettere fine alle agitazioni per ripristinare la vita democratica e legalitaria all’interno dell’Ateneo». Il Pci, scavalcato da sinistra da questo nuovo movimento incontrollabile che non riesce a imbrigliare, non manca mai occasione di ripetere che chi occupa l’università (e l’Autonomia in particolare) è «estraneo alla legalità e quindi alla democrazia» e che i raduni di giovani militanti sono solo «covi» di violenza, delinquenza comune e addirittura squadrismo quasi fascista.
La mattina del 17 febbraio i giovani del Pci forzano i picchetti ai cancelli dell’università, dove la maggioranza degli occupanti viene dall’area di Lotta Continua e in parte anche dall’Autonomia. Lama si presenta su un camion scortato da un enorme servizio d’ordine del sindacato di oltre mille persone armate di estintori e bastoni; gli indiani metropolitani lanciano slogan ironici, chiedono più sacrifici e austerità, sbeffeggiano il sindacalista rappresentato da un pupazzo e lasciano sul muro dell’università la scritta «I Lama stanno in Tibet». Lama inizia il comizio parlando di calma e legalità, interrotto da urla e fischi, ad ascoltarlo non uno studente, solo membri del Pci e della Cgil. Poi partono alcune spinte. Gli occupanti rispondono alla provocazione con sassate e lanci di sedie, Lama corre giù dal camion e scappa. Il Pci sostiene che le prime aggressioni siano partite dagli autonomi, invece secondo gli studenti è stato un ragazzo del servizio d’ordine del Partito e del sindacato ad attaccare per primo con un estintore. Ma non ha molto senso discutere su chi abbia tirato la prima pietra: quel giorno lo scontro lo hanno voluto tutti. A questo punto l’ostilità tra Partito e movimento è insanabile. Quando i carabinieri sfondano i cancelli dell’università per sgomberarla con le armi, la solidarietà del Pci va a loro. L’apice di questo scontro avviene a Bologna in quanto storico baluardo del Pci e al tempo stesso città universitaria, quindi teatro della più grande incompatibilità sociale e generazionale.

Per il 12 marzo è indetta a Roma una manifestazione nazionale del movimento con tutte le sue componenti. Il giorno prima, nell’università di Bologna, un piccolo tafferuglio tra studenti comunisti e cattolici (legati gli uni a Lotta Continua e gli altri a Comunione e Liberazione) scatena l’intervento dei carabinieri richiesto dal rettore. La prima carica non basta a disperdere gli studenti: un agente estrae la pistola e uccide Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua di 25 anni. La risposta del movimento è furiosa: insieme uomini e donne, indiani e autonomi, comunisti e anarchici, pacifisti e bellicosi, rompono le strade e saccheggiano le armerie per procurarsi le pietre e le armi, il centro storico di Bologna è sede di scontri senza precedenti, il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga usa i carri armati per sgomberare la città. L’indomani, a Roma, centomila persone a volto coperto invadono il centro con molotov in mano, lo Stato risponde attaccando subito il corteo, le armi da fuoco sono usate da entrambe le parti ma l’Autonomia riesce a danneggiare la sede centrale della Democrazia Cristiana. Il Ministero dell’interno vieta tutte le manifestazioni nelle città. Ad applicare il divieto a Roma è il sindaco Giulio Carlo Argan, eletto nelle file del Pci. Lo stesso Cossiga, Ministro dell’interno, definisce «illegale ed extra legem» il divieto in quanto proveniente dal codice penale fascista, incostituzionale nell’Italia repubblicana. Il 12 maggio, mentre è ancora in vigore l’ordinanza che vieta di manifestare, il Partito Radicale sfida il divieto e indice un presidio femminista e un concerto in piazza Navona a Roma per firmare dei referendum dopo aver già vinto quello sul divorzio. Anche questa giornata, totalmente all’insegna della nonviolenza, finisce nel sangue. La polizia spara e uccide una ragazza di 19 anni, Giorgiana Masi. Cossiga dà tutta la colpa all’Autonomia e dichiara di non aver mandato agenti in borghese, ma vari scatti del fotografo Tano D’Amico lo smentiscono palesemente.
Il Pci si schiera contro la riforma carceraria e a favore della politica di austerità (contenimento dei consumi, aiuti statali alla grande industria e aumento della produttività con un limite ai salari).

In generale si potrebbe dire che la forma-Partito nata in Italia all’inizio degli anni Venti, egemone durante la Resistenza e ancora funzionante negli anni Cinquanta, dopo il Sessantotto abbia smesso di funzionare e negli anni Settanta si sia ritrovata ad essere come una scarpa troppo stretta rispetto ai piedi cresciuti di una società che si evolve rapidamente. Gli studenti e futuri precari, in gran parte provenienti dal Sud Italia, non si sentono più rappresentati dal Partito e dal sindacato in cui le persone più anziane hanno creduto: nasce così un conflitto senza precedenti, in cui la generazione che ha fatto la Resistenza si sente tradita da quella successiva, che invece si vede tagliata fuori da istituzioni vecchie. Non c’è da stupirsi quindi se il Partito dia del delinquente e dello squadrista a chi non crede nella legalità dello Stato repubblicano, mentre i ragazzi e le ragazze abbandonano le sezioni di partito per cercare rifugio altrove. Del resto le protagoniste e i protagonisti della guerriglia partigiana, cresciuti sotto il fascismo ed educati nella scuola della riforma Gentile, ben lontani quindi dal disdegnare le figure autoritarie, vedono molto più di buon occhio il rigore del Partito che la stravagante libertà del movimento. E il principale cavallo di battaglia della retorica vicina al Pci è sempre stato il mito dell’epopea partigiana. Quando a Bologna i carabinieri uccidono Francesco Lorusso, il Pci indice un presidio sotto il monumento ai caduti della Resistenza per celebrare non un ragazzo ucciso ma la legalità dello Stato sorto dalla Resistenza; quando gli studenti occupano l’università di Roma, è proprio il segretario della Cgil, legata al Pci, a dar vita alla provocazione che conduce allo sgombero dell’università e quando gli studenti reagiscono alla provocazione e lo cacciano, i mezzi d’informazione legati al Partito non fanno che sottolineare che, oltre trent’anni prima, Luciano Lama era stato partigiano.

Tra i giovani quello che non ha fatto lo Stato attraverso la polizia lo ha fatto un mostro ancora più spaventoso, l’eroina, che ha finito per divorare quasi intere generazioni in una lenta autodistruzione spesso scambiata per piacere. Questa droga, diversamente da molte altre, porta le persone a richiudersi nella vita privata e abbandonare la voglia di cambiare il mondo dando a chi la assume una pesantissima apatia. Anche per questo lo Stato non l’ha ostacolata, se non con blandi tentativi solo formali che quasi sempre colpivano i consumatori e non gli spacciatori e i loro fornitori.
Contemporaneamente al movimento, entra in scena il nucleo armato delle Brigate Rosse (Br), fondate nel 1970 da Renato Curcio. Secondo molte persone, le Br sono costituite in gran parte da compagni e compagne in buona fede, eppure hanno sempre collaborato con la mafia e i servizi segreti dello Stato. Nonostante si proclamino altrettanto comuniste e antistataliste, le Br remano di fatto contro il movimento: praticando il terrorismo e la lotta armata, portano il conflitto sociale a raggiungere livelli di violenza troppo alti, che il movimento non è in grado di sostenere. Peraltro le persone colpite dalle Br non sono solo poliziotti e carabinieri, braccio armato dello Stato, ma anche magistrati giornalisti economisti e vari altri esponenti dell’alta borghesia: se l’uso di pietre e molotov nei cortei mette in difficoltà la repressione poliziesca, le uccisioni a freddo invece non fanno che giustificarla agli occhi dell’opinione pubblica.
Di pari passo con gli atti delle Brigate Rosse, la strategia della tensione è alimentata anche dal terrorismo nero di matrice neofascista, anche questo non estraneo ai servizi segreti dello Stato. Ma i due tipi di terrorismo hanno modalità diverse e quindi riconoscibili: mentre le Br colpiscono obiettivi mirati e specifici con un alto valore simbolico come magistrati, giornalisti e politici, il terrorismo fascista colpisce a caso e chiunque con atti come le bombe sui treni o nelle stazioni, causando un numero di vittime molto maggiore.
Dopo l’apice di forza del movimento, segue un periodo di riflusso: molte persone sono spaventate dall’alzarsi di livello degli scontri del 1977, altre sono uccise o comunque annientate dall’eroina, altre ancora sono vittime di misure restrittive. Il 16 marzo 1978 accade un episodio che toglie all’antagonismo molti più consensi di quanti non ne abbiano fatti perdere gli scontri dell’anno precedente: in via Fani a Roma un gruppo di brigatisti rapisce Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e uccide gli uomini della sua scorta. Al momento del rapimento, Moro si sta recando in Parlamento in cui si vota la fiducia al governo Andreotti, ottenuta grazie all’astensione del Pci, che rende effettivo il compromesso storico. Per cinquantacinque giorni i partiti si interrogano se trattare o meno con i terroristi, ma nessun accordo viene raggiunto. Il 9 maggio il corpo senza vita di Aldo Moro viene ritrovato in un’automobile in via Caetani, luogo simbolico in quanto a metà strada tra la sede centrale del Pci (in via delle Botteghe Oscure) e quella della DC (in piazza del Gesù). La notizia fa tanto scalpore da far passare sotto silenzio l’omicidio del candidato di Democrazia Proletaria Peppino Impastato, compiuto a Cinisi (vicino Palermo) per conto della mafia: il tempismo è tale da far sospettare che la sincronicità dei fatti non sia casuale. Il Pci durante i giorni del sequestro di Moro è stato fermamente contrario ad aprire trattative tra lo Stato e i terroristi. Il rapimento e l’uccisione di Moro danneggiano pesantemente la credibilità del movimento ostile al Pci, tanto da rafforzare i consensi del partito di Berlinguer.
A giugno del 1978, a poco più di un mese di distanza dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro che colpisce profondamente l’opinione pubblica italiana, si tiene un referendum abrogativo sulla Legge Reale indetto dal Partito Radicale. Su pressione di tutti i partiti di governo, tra cui lo stesso Pci, la maggioranza delle persone votanti si schiera contro l’abrogazione della legge e quindi per il mantenimento dello stato di polizia. L’Msi, prima favorevole alla legge, stavolta vota per l’abrogazione in quanto l’aumento dei poteri di polizia danneggia anche le violenze fasciste.

Il 7 aprile 1979 la repressione si abbatte sugli anarchici e soprattutto sull’Autonomia: tutti i suoi leader sono incarcerati in base al cosiddetto “Teorema Calogero“, dal nome del magistrato vicino al Pci secondo cui movimento e terrorismo sono alleati, come due facce di un’unica realtà la cui intenzione è sabotare lo Stato democratico nato dalla Resistenza e gettare il Paese nel terrore e nel caos. Alcuni militanti sconteranno decenni di carcere, altri troveranno asilo all’estero dove saranno accolti come rifugiati politici e rispettati in quanto intellettuali e alcuni di questi (come ad esempio Antonio Negri in Francia) avranno anche prestigiose cattedre come docenti universitari. Solo dopo la distruzione dell’Autonomia lo Stato inizierà la battaglia contro le Brigate Rosse.
Finito il movimento, gli indiani metropolitani e i gruppi pacifisti rimasti riprenderanno le stravaganti pratiche sessantottine, stavolta concentrandosi sulla difesa dell’ambiente con manifestazioni di massa contro le centrali nucleari in Italia.

Il 2 agosto 1980 una bomba distrugge la stazione di Bologna uccidendo ottantacinque persone e ferendone altre duecento. L’attentato è opera di gruppi terroristici dell’estrema destra. È l’ultimo atto della strategia della tensione. Il movimento è ai suoi ultimi spasmi e non reagisce.
Nell’autunno dello stesso anno il movimento sta esalando l’ultimo respiro e la classe operaia italiana subisce la sua definitiva sconfitta. L’occupazione della fabbrica Fiat di Mirafiori non riesce a impedire decine di migliaia di licenziamenti. Il 14 ottobre 1980, a Torino, si tiene la marcia dei quarantamila: il ceto medio dell’industria, non operai salariati né padroni ma quadri intermedi, colletti bianchi, impiegati e funzionari, manifestano contro gli scioperi operai in nome del lavoro sicuro e della stabilità sociale. Sono solo quindicimila, ma La Stampa, il giornale della Fiat, scrive quarantamila, e quarantamila passano alla Storia. Questo schiaffo alla classe operaia delegittima agli occhi dell’opinione pubblica i decenni di lotte precedenti: così i crumiri regalano ai padroni una grandissima vittoria. È il gesto simbolico che apre gli anni Ottanta, il decennio del riflusso.
In copertina. Roma 1977. Ragazza e carabinieri. Foto di Tano D’Amico (particolare)
Articolo di Andrea Zennaro
Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.