Rigoberta Menchù è stata la prima donna del Guatemala a ricevere il Nobel per la Pace nel 1992.
Il giorno dopo il prestigioso conferimento ha dichiarato: «Il mio Paese gronda sangue. In trenta anni di guerra ci sono stati più di 1.500 morti, 75.000 vedove, 439 esecuzioni senza processo, 15 massacri collettivi, oltre centomila esiliati. Una ferita profonda che deve essere rimarginata…la catena delle stragi deve spezzarsi definitivamente».
Rigoberta è nata a San Miguel Uspantàn, in Guatemala, il 9 gennaio del 1959.
Laura Candiani ne ha tracciato il profilo.
«Rigoberta è una contadina india, appartenente allo stesso gruppo Quiché decimato dal conquistatore Pedro de Alvarado su incarico di Cortés nel 1524. La sua vita di sofferenze, come quella dei fratelli e della intera comunità, comincia con la venuta a mondo: è la sesta figlia e nasce prematura mentre sua madre lavora nella “finca” a raccogliere caffè, sorte che toccherà anche a lei a partire dagli otto anni; non va mai a scuola e fin da bambina si rende conto della vita miserabile, della sporcizia, dell’ignoranza, dell’emarginazione, dello sfruttamento cui sono costrette le popolazioni di una qualsiasi delle 22 etnie del Guatemala. La terra su cui vivono e che lavorano viene via via sottratta loro dal governo, dai proprietari terrieri, da compagnie nazionali e internazionali con il pretesto dello sviluppo e del progresso. Suo padre, incarcerato due volte, uscito dalla clandestinità viene eletto portavoce dalla comunità; attivista del Comitato di Unità Contadina viene ucciso il 31 gennaio 1980, nella capitale, mentre insieme ad altri contadini protestava per ottenere una equa commissione che indagasse sui crimini commessi dall’esercito contro la loro comunità. Le repressioni sempre più feroci costrinsero la famiglia all’esilio, dopo la straziante morte per fame di un fratellino e per tortura di un altro, sedicenne, e il sequestro della madre violentata e uccisa a sua volta. Dall’esilio Rigoberta continua a lavorare per la sua terra e nel ’91 partecipa alla stesura della dichiarazione dei popoli indigeni presso le Nazioni Unite; nello stesso anno i rappresentanti di 49 etnie la propongono per il Nobel per la Pace e l’anno successivo il premio le viene assegnato. Nella motivazione è indicata quale “simbolo di pace e di libertà al di là delle frontiere e delle barriere etniche e culturali fra i popoli”.
Durante il suo esilio a Parigi, Rigoberta ha conosciuto l’antropologa franco-venezuelana Elisabeth Burgos cui decide di raccontare la propria vita; l’opera è stata pubblicata in francese nel 1983 (Moi, Rigoberta Menchú) e in Messico due anni dopo. L’opera in Italia è nota con il titolo Mi chiamo Rigoberta Menchú e ne sono apparse varie edizioni, anche commentate per la scuola. È un libro prezioso per vari motivi: innanzitutto perché fa entrare chi legge nella vita quotidiana di una india guatemalteca, una realtà altrimenti sconosciuta; poi perché crea un nuovo genere: non si tratta infatti di una biografia né di una autobiografia, non è un romanzo né un saggio, ma piuttosto l’opportunità di dar voce a chi normalmente non ne ha. Elisabeth Burgos si è messa totalmente al suo servizio, è un puro strumento di scrittura, ma la voce è quella di Rigoberta. Anche il linguaggio non appartiene alla scrittrice e alla sua elevata formazione culturale, ma è quello della contadina illetterata, quasi infantile, tipico della narrazione orale, con frequenti digressioni e inserimenti di vocaboli indios.
Rigoberta ha dovuto comunque imparare lo spagnolo, la lingua dei dominatori, per uscire dall’isolamento e far sentire la sua voce insieme a quella dei diseredati della sua comunità; così aveva fatto quattro secoli prima lo scrittore meticcio peruviano Garcilaso de la Vega el Inca, utilizzando lo spagnolo anziché il quechua, idioma destinato a scomparire, nella sua famosa opera I commentari reali degli Incas. Rigoberta però non ha rievocato un glorioso passato, ma ha riferito di un desolato presente. Nell’opera emerge forte la bella figura paterna, divenuto un eroe nazionale, ma ha un ruolo importante anche la madre, in cui Rigoberta si identifica: è donna, è indigena, è contadina, tre voci per indicare ancor di più l’emarginazione, la repressione, l’isolamento. Nel raccontare la sua vita Rigoberta non procede sempre in modo cronologico, spesso inserisce elementi di vita quotidiana, riti, usanze, miti, ricordi, descrizioni: “La mia terra è davvero quasi un paradiso, tanto è bella la natura in quei luoghi”. Nella sua presa di coscienza Rigoberta è consapevole della frattura fra i due mondi, rappresentati in due realtà ben definite: da un lato i bianchi sulla costa, proprietari delle “fincas” e residenti nelle città, dall’altro gli indios sull’altopiano, con minuscoli appezzamenti coltivati a mais (“milpa”) e residenti negli “aldea”, piccolissimi villaggi persi fra le montagne, dove si lavora il vimine. Due realtà inconciliabili, ma Rigoberta mantiene la narrazione su due piani: la denuncia va di pari passo con il rispetto e con l’amore, valori eticamente superiori a cui la cultura quiché non viene mai meno, nel suo armonioso rapporto con la natura e con i suoi simili».
Nel 1992 le è stata conferita la cittadinanza onoraria a Torino e in quell’occasione la città si è anche gemellata con Qutzaltenago, governata da un sindaco Maya. Sempre nel 1992, Rigoberta è diventata cittadina onoraria di Firenze e dell’Aquila e negli anni successivi di altre città italiane.
Nel 1998 ha ottenuto in Spagna il premio Principe delle Asturie per la cooperazione internazionale. Nel 1999 ha tentato, inutilmente, di far processare per crimini contro cittadini spagnoli e per genocidio l’ex dittatore Efraín Rios Montt.
Nel 2006 ha ricevuto il premio speciale Grinzane Cavour.
A lei sono intitolate alcune vie in Messico, in Spagna (tra cui Girona e Saragozza) ed in Francia (Avignone e Montpellier).
Articolo di Ester Rizzo
Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra editore ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo e di Le Ricamatrici.