«Il tempo andato non ritornerà». Gli ottant’anni di Francesco

Lo scorrere del tempo è uno dei temi più ricorrenti nell’opera gucciniana. Nell’album Radici, pubblicato nel 1972, si trova la Canzone dei dodici mesi, poema che descrive e accompagna l’anno solare, «diverso tutti gli anni ma tutti gli anni uguale».
«Gennaio silenzioso e lieve» è paragonato a «un fiume addormentato» in cui regna la malattia e la desolazione o quantomeno la stanchezza attraverso la triste figura delle sagome di «neri alberi stanchi» che stanno «come amanti dopo l’avventura». A febbraio «il mondo è a capo chino», provato dal freddo che impedisce le coltivazioni e gli spostamenti, ma il carnevale porta una risata e solleva gli animi. «L’inverno è lungo ancora ma nel cuore appare la speranza: nei primi giorni di malato sole la primavera danza».
Si ha qui una prospettiva più agricola che studentesca, sembrano avere più voce i nonni dell’autore sull’Appennino tosco-emiliano di Pavana che la Bologna universitaria; qui parla il Francesco bambino, «tirato su a castagne ed erba spagna», il nostalgico di Addio.  Lo sguardo rurale continua: «Cantando marzo porta le sue piogge», che per i campi sono la salvezza (raramente in città un diluvio è visto così bene); «con l’inverno butta la penitenza vana»: lo scioglimento delle nevi scioglie anche gli animi, cosa difficile da immaginare per chi è cresciuto in città con i termosifoni accesi e la frutta disponibile al supermercato.
Tutta la primavera è accolta con gioia. «Il dolce aprile» è un mese piacevole, cui Guccini dedica una delle sue frasi più belle: «nei tuoi giorni è bello addormentarsi dopo fatto l’amore come la terra dorme nella notte dopo un giorno di sole». Anche «il rimpianto di un aprile giocato all’ombra di un cortile» che accompagna con amarezza Il pescatore di De André associa questo mese al piacere giocoso e alla tristezza quando il gioco è mancato. «Il poeta che ti chiamò crudele» è Thomas Stearns Eliot che nella sua The Waste Land definisce aprile «the cruellest month».
«Ben venga maggio il gonfalone amico, ben venga primavera», una stagione che si conferma gioiosa e prospera, con riferimento ad Angelo Poliziano, che nella ballata Ben venga maggio,
 invita a godere dell’amore e della giovinezza.
La bella primavera è accolta con altre citazioni letterarie: «ben venga maggio, ben venga la rosa che dei poeti è il fiore, mentre la canto con la mia chitarra brindo a Cenne e a Folgore», riferimento a Folgore da San Gimignano e Cenne de la Chitarra, poeti toscani del XIV secolo, autori anche loro di componimenti poetici sui mesi dell’anno, probabilmente la fonte d’ispirazione per questo brano. Anche lo schema di rime della Canzone dei dodici mesi ricorda molto i sonetti medievali.
Altra fonte di ispirazione di questo brano è il Ciclo dei mesi raffigurato a rilievo sulla Porta delle Pescherie del Duomo di Modena, città natale del poeta: un racconto del lavoro contadino che si snoda, mese dopo mese, 
sulla faccia interna degli stipiti.

1. Duomo di Modena
Modena, Porta delle Pescherie del Duomo, Il Ciclo dei Mesi. Settembre pigia l’una, Ottobre riempie la botte

La rosa, fiore primaverile, simbolo della femminilità e della poesia stessa, compare in poesie e dipinti di tutti i Paesi e i periodi storici, da Saffo a Rilke passando per Ungaretti e per la Madonna della Rosa di Raffaello. Oltre ai rimatori toscani già citati, quest’allegria primaverile ricorda la poetica di Lorenzo de’ Medici, in cui ricorrono i temi gucciniani del vino dell’amore e della gioventù dando non a caso alla sua più celebre poesia il titolo di Trionfo di Bacco e Arianna.
«Giugno che sei maturità dell’anno, di te ringrazio Dio: in un tuo giorno sotto al sole caldo ci sono nato io». Nato il 14 giugno (ironia della sorte, lo stesso compleanno del Che Guevara!) del 1940 nella Piccola città di Modena, Francesco Guccini celebra quest’anno il suo ottantesimo compleanno. E dunque, tanti auguri maestro! «E con le messi che hai tra le tue mani ci porti il tuo tesoro»: il regalo del mese di giugno, fine della primavera e inizio dell’estate, è il grano maturo, spighe pane e oro, grande festa per l’Italia contadina.
L’estate che scorre rapida, tra le vacanze dalla scuola e le visite ai nonni a Pavana, come dice in Addio, «tra i saggi ignoranti di montagna che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia», è un mese di distacco per gli amori di città e di riposo per chi è al lavoro nei campi. Tanto rapida è quest’estate che a luglio «il leone» e ad agosto spetta un’unica strofa, stretta come un letto da condividere. Eppure sono mesi belli, «di vino e di calore», in cui «il mondo appare come in una visione». «Luglio il leone» è l’unico riferimento astrologico presente nel testo, che si accosta però alla «mano di tarocchi» ripetuta nel ritornello.
«Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’età», una sentenza valida sempre. Perplessità, identità, possibilità sono le parole d’ordine di questo mese impegnativo. Chi vive in città a settembre torna a lavorare e i bambini tornano a scuola: «ti siedi e pensi e ricominci il gioco…»
«Non so se tutti hanno capito ottobre la tua grande bellezza: nei tini grassi con le pance piene prepari mosto e ebbrezza». Per gli amanti del vino, Guccini in primis, ottobre è celebrato come il mese della vendemmia. Del resto, il vino è l’elemento che accomuna le pendici appenniniche alle osterie bolognesi. Ma in ottobre compare anche un elemento d’ombra, è l’autunno che incombe: «lungo i miei monti come uccelli tristi fuggono nubi pazze, lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse». Dopo i «giorni lunghi di colore chiaro» di luglio, il cielo di ottobre si fa grigio, con nubi che invece di scorrere «fumano».
Diversamente da aprile, novembre non «viene», novembre «cala», e le «nubi basse» di ottobre si trasformano in «inquietanti nebbie gravi». Siamo in autunno inoltrato. Insieme a novembre «cala la pioggia», percepita dal poeta come un pianto che «il tuo viso bagna di gocce di rugiada».
Dicembre è «come un letargo», un sonno tenebroso in cui la natura dorme e in campagna non c’è cibo, salvo quello raccolto in precedenza, tanto tetro che l’autore vi vede «tristi semi di morte». E infatti gennaio è proprio il difficile risveglio da questo letargo e la guarigione da questa morte. Anche «Cristo la tigre» è una citazione da Eliot.
Il ritornello di questo brano, un po’ ballata e un po’ sonetto, paragona la vita del poeta al contenuto del testo: «o giorni o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia, diverso tutti gli anni e tutti gli anni uguale».
Peccato che la Canzone dei dodici mesi passi in secondo piano nell’album Radici, schiacciata dal grande capolavoro che è La locomotiva.

Dopo una vita bolognese, Guccini oggi è tornato a Pavana, nella provincia di Pistoia, paese che ha sempre amato: in Addio ripete «io, sempre un momento fa campagnolo inurbato, […] ma sempre il pensiero a quel paese mai scordato dove ritrovo anche oggi quattro soldi di civiltà».

2.Guccini a Pavana
Francesco Guccini a Pavana (PT)
«Pavana, con le sue varie frazioncine che, dalla Porrettana che la divide in due, si innalza a gradini verso la sommità del monte a mille metri, coperto, quasi fino alla cima, da castagneti». Francesco Guccini, Non so che viso avesse, Mondadori 2010

La Canzone dei dodici mesi è l’unica poesia in cui il tempo ha un andamento ciclico. In tutti gli altri brani, composti dopo i trentacinque anni, Guccini parla del passato con nostalgia e con rimpianto. È emblematica a questo proposito l’ultima frase di Vorrei: «vorrei […] che l’oggi restasse oggi senza domani o il domani potesse tendere all’infinito».
Lo scrittore Erri De Luca nel libro Il giro dell’oca fa notare che la parola clessidra «viene dal verbo greco rubare», come se il tempo fosse il ladro per eccellenza. Per il modo di giocare con le parole e di comporre le frasi, Erri De Luca si potrebbe quasi considerare l’equivalente per la prosa e per Napoli di ciò che Francesco Guccini è per la poesia e per Bologna e Modena: entrambi quasi sempre autobiografici, affascinati in modi diversi dalle figure femminili (raramente le donne citate da Erri De Luca sono amanti carnali) e parte delle scosse politiche dei loro tempi, l’uno del sessantotto postuniversitario e l’altro del sessantanove operaio e dei turbolenti anni successivi.
I vent’anni in particolare sembrano essere per Guccini una magica età dell’oro che compare in numerose canzoni con un’aura quasi mitica. Farewell inizia proprio parlando dei vent’anni di una donna, i vent’anni portati «come si porta un maglione sformato su un paio di jeans» e addirittura «come si sente la voglia di vivere che scoppia un giorno e non chiedi il perché». In Piazza Alimonda, scritta in risposta a chi si è permesso di dire che un ragazzo di 23 anni ucciso a Genova dalle armi dello Stato doveva starsene a casa, la romantica frase di Guccini è
«uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo quasi un dovere,
piacere di incontri a grappoli ideali identici essere avere,
la grande folla chiama canti e colori grida ed avanza,
sfida il sole implacabile quasi incredibile passo di danza».
Non c’è nessuna giustificazione, a vent’anni a casa non ci si sta. E alla luce di questa frase comprendiamo anche la sofferenza e la frustrazione di tutti i giovani forzatamente chiusi in casa in questi ultimi mesi…

3. Piazza. Alimonda
Genova. Piazza Alimonda

Il mito gucciniano dei vent’anni trova il suo apice in Eskimo, con la celebre frase
«a vent’anni è tutto ancora intero,
a vent’anni è tutto chi lo sa,
a vent’anni si è stupidi davvero,
quante balle si ha in testa a quell’età»;
ma poi è lo stesso Guccini a dubitare e a rispondersi «oppure allora si era solo noi, non c’entra o meno quella gioventù», quasi a voler smentire questo mito anagrafico.
In molte canzoni il tema dell’amore e quello del tempo si fondono. Molto spesso le donne frequentate e amate da Francesco erano ben più giovani di lui, costringendolo quindi a ricordare se stesso com’era anni prima e quindi a riflettere su entrambi gli argomenti insieme.
Il rimpianto e la nostalgia sono dunque i tempi più ricorrenti nella discografia del cantautore emiliano. La nostalgia è la vera protagonista di Incontro, molto più della donna: «la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due», più che alla vecchia amica d’infanzia ritrovata, il poeta riflette sul tempo trascorso, su quei «dieci anni da narrare l’uno all’altra». «Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi. […] E le frasi quasi fossimo due vecchi rincorrevan solo il tempo dietro a noi». In quest’ottica Modena, già mai amata allora e poi rivista molti anni dopo, il «bastardo posto» cantato in Piccola città, diventa ora «la nostra città tanto triste», triste di nostalgia.
E un giorno…, pubblicata nell’album Stagioni del 2000, opera quindi di un Guccini ormai sessantenne, parla a una donna adulta che ricorda di quando era bambina.

4. Stagioni
Stagioni, 2000

«E un giorno ti svegli stupita e di colpo ti accorgi
che non sono più quei fantastici giorni all’asilo di giochi di amici.
[…]
E un giorno cammini per strada e ad un tratto comprendi
che non sei la stessa che andava al mattino alla scuola.
[…]
E un giorno ripensi alla casa e non è più la stessa
in cui lento il tempo sciupavi quand’eri bambina…»,
sono frasi struggenti, quelle che pensa ognuno di noi sfogliando gli album delle fotografie di quando era piccino, quando i genitori avevano ancora i capelli scuri e la forza nelle gambe e i nonni ora assenti ridevano e ci tenevano in braccio:
«e tuo padre ti sembra più vecchio, ogni giorno si fa più lontano,
non racconta più favole ormai non ti prende per mano
[…]
e tuo padre ti sembra annoiato e ogni volta si fa più distratto,
non inventa più giochi e con te sta perdendo il contatto;
e tua madre lontana e presente sui tuoi sogni ha da fare e da dire,
ma può darsi non riesca a sapere che sogni gestire».

Ma non c’è nulla da fare, «capendo che a battito a battito è l’età che s’invola».
E noi ripensiamo al passato, «sospesi tra voglie alternate di andare e restare».
E un giorno… è una poesia tristissima, piena di lacrime e di malinconia perché mostra «che non c’è solo il dolce ad attenderti ma molto d’amaro e non è senza un prezzo salato diventare grande». Ma poi, quando «i tuoi dischi e i tuoi poster saranno per sempre scordati», un nuovo coraggio prende il posto della nostalgia e della paura e «lascerai sorridendo svanire i tuoi miti felici, come oggetti di bimba lontani ed impolverati» e, una volta cresciuta, questa bimba, che potrebbe essere chiunque e in cui chiunque si può riconoscere, «troverai nuove strade, altri scopi ed avrai nuovi amici».

«Il tempo andato non ritornerà» è la frase più emblematica della canzone Un altro giorno è andato, incentrata proprio sulla gioventù che vola via: «le porte dell’estate dall’inverno son bagnate, fugge un cane come la tua giovinezza». Ma in questo brano alla crescita triste si accompagna quella costruttiva della maturità: è vero che «ti guardi nelle mani e stringi il vuoto», ma «se guardi nelle tasche troverai gli spiccioli che ieri non avevi». Pubblicata nel 1970 con l’album L’isola non trovata, Un altro giorno è andato è evidentemente opera di un Guccini trentenne, in piena forma, che l’età non ha ancora indebolito, lontano dalla malinconia di E un giorno… che sarà evidente trent’anni dopo.
La Canzone delle osterie di fuori porta parla dell’invecchiamento non tanto fisico quanto mentale e morale:
«qualcuno è andato per età,
qualcuno perché già dottore,
insegue una maturità,
si è sposato fa carriera ed è una morte un po’ peggiore».
Pubblicata nel 1974 nell’album Stanze di vita quotidiana, di cui lo stesso Guccini non è mai stato soddisfatto, il testo mostra anche un autore stufo e disilluso
(«stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta,
[…]
si alza sempre lenta come un tempo l’alba magica in collina
ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima,
[…]
il giorno è sempre un po’ più oscuro
sarà forse perché è storia sarà forse perché invecchio,
[…]
ho quasi chiuso tutti gli usci all’avventura,
non perché metterò la testa a posto ma per noia o per paura»)
che gli impegni editoriali hanno reso famoso ma al tempo stesso lo hanno più soffocato che gratificato
(«sono più famoso di quel tempo quando tu mi conoscevi,
non più amici ma un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi»):
la frase «son sempre qui a vivermi addosso» è proprio la critica, sempre più frequente con il crescere delle sua fama, di non essere abbastanza politicizzato. Questa canzone si svolge nell’osteria Da Vito, vicinissima alla casa di Guccini in via Paolo Fabbri, poco fuori la Porta San Vitale, che il poeta frequentava con una ragazza: la tristezza del testo è data dalla mancanza sia della ragazza in questione subito dopo la separazione, sia di gran parte dei vecchi amici che, fatta eccezione per Claudio Lolli e pochi altri, con il passare degli anni avevano scelto strade più comode e “borghesi”.

L’ultima volta, ricorda o immagina, appunto, l’ultima volta che si è compiuto o che si compirà un gesto.
«Quando è stata quell’ultima volta
che ti han preso quei sandali nuovi
al mercato coi calzoni corti
[…]
quando è stata quell’ultima volta
che han calzato il tuo piede bambino
lungo i valichi dell’Appennino»:
i sandali regalati al piccolo Francesco dai nonni di Pavana durante ogni estate
(«e quei sandali duravan tre mesi
poi distrutti in rincorse e cammino»),
fino a quando il Guccini cresciuto non ha smesso di recarsi al paese o non vi ha più trovato i nonni ad aspettarlo.
«Quando è stata quell’ultima volta che ti ho vista e poi forse baciata»: qui la frase non è riferita a una ragazza in particolare ma a un qualunque incontro poi svanito in meno di un’estate («ti sembrava durasse per sempre quell’amore […] non ha visto nemmeno settembre»).
«Quando è stata quell’ultima volta che hai sentito tua madre cantare, quando in casa leggendo il giornale hai veduto tuo padre fumare»: questa è un’ultima volta che ha accomunato o accomunerà qualsiasi persona, riprendendo il tema triste di E un giorno… Questa canzone viene dall’album più recente di Francesco Guccini, L’ultima Thule, edito nel 2012, con un cantante ormai ultrasettantenne, con i capelli bianchi e la pancia prorompente che immagina anche l’ultima volta in cui vedrà la moglie: «quando sarà quell’ultima volta che la vedi e la senti parlare».

5. L'ultima Thule, 2012
L’ultima Thule, 2012

In chiusura il nostro cantautore si pone anche l’ultimo degli interrogativi degli anziani:
«quando il giorno dell’ultima volta
che vedrai il sole nell’albeggiare
e la pioggia ed il vento soffiare
ed il ritmo del tuo respirare
che pian piano si ferma e scompare».

Questo disco non è stato per lui l’ultima volta.

6. Note di viaggio, 2019
Note di viaggio, 2019

 

 

Articolo di Andrea Zennaro

4sep3jNIAndrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

3 commenti

  1. Non si è mai sazi dei versi di Guuccini, si possono leggere e rileggere all’infinito senza esserne mai stanchi, anzi, al contrario, più si leggono/ascoltano più si apprezzano!

    "Mi piace"

Lascia un commento