
Introduzione
La tesi qui proposta ha come maggiore obiettivo lo svisceramento del controverso dibattito su che cosa si è inteso e che cosa si intende tutt’ora per società matriarcali.
Quando nel 2013 iniziai a scrivere questa ricerca, di tipo compilativo, avevo 20 anni e mi ritenevo una studente fortunata.
Fortunata perché a parlarmi di matriarcato per la prima volta erano state Yase Daba e Najin Lacong,due rappresentati del popolo matriarcale Mosuo, della regione dello Yunnan in Cina. A questo incontro, seguirono le parole di Bernedette Muthien, ricercatrice e promotrice dei diritti delle popolazioni KhoeSan, a cui lei stessa appartiene. La studiosa, invitata a parlare al Convegno Internazionale “Culture Indigene di Pace” di Torino nel 2012, racconta di come il suo popolo si sia preso l’impegno consapevole di “rimatrizzare” la realtà. Vivere in cultura matriarcale, per i Khoe San, vuol dire vivere in un clima di fiducia, di dono inteso come reciprocità, cooperazione e condivisione dei beni, di spiritualità, rispetto e compassione.
In tutta la mia vita, e in quella delle generazioni precedenti alla mia, nessuna e nessuno mi aveva parlato di queste società, non così caratterizzate, non così autodeterminate.
Le idee circa l’esistenza di una società matriarcale e quindi di forme di governo “al femminile”, dall’antichità a oggi, sono state in diverso modo esorcizzate, come per esempio attraverso gli immaginari mitici e le leggende come quella delle Amazzoni o delle Lemnie, società di donne dalle caratteristiche mostruose, selvagge e crudeli (Giallongo, 2012).
Ancora oggi si verificano atteggiamenti difensivi quando si cerca di avviare delle semplici riflessioni sull’argomento, dovuti anch’essi ad ansie e paure inconsce di un “predominio delle donne”, che trova le sue radici nella letteratura e nella narrazione della storia presso le società occidentali, lasciando una porta aperta alle insinuazioni emotive e ideologiche.
Mentre i matriarcati sono esistiti ed esistono ancora e,seppur confinati in condizioni periferiche dalle epistemologie dominanti, coinvolgono anche un numero piuttosto alto di popolazione globale.
È il caso dei Minangkabau in Indonesia: il popolo matriarcale più numeroso al mondo, 6 milioni, e anche il più studiato (Reeves Sanday, 2002).La maggior parte della ricerca attuale ha finora descritto questa etnia definendola solamente come una società matrilineare; mentre loro stessi, animati dalla consapevolezza di possedere una organizzazione sociale unica, chiamano con orgoglio il loro modo di vivere “matriarcato”. I Minangkabau sono impegnati negli affari, nella politica e nelle attività culturali. Non vi sono professioni “moderne” che non abbiano intrapreso. In Indonesia sono considerate persone cosmopolite e dall’alto livello culturale (Ibid.).

Il tipo di società in cui siamo nate/i e cresciute/i, porta la maggior parte di noi a interiorizzare determinati modi di leggere il mondo: l’impegno di discutere del matriarcato, parlare di matriarcato oggi, mi apparse come segnale della necessità di voler superare e rivoluzionare in maniera intenzionale il mondo patriarcale distruttivo nel quale stiamo vivendo e decostruirne le strutture sociali ed economiche, dalle dubbie ed evidenti problematiche; dimostrando infine che il sistema in cui viviamo non è eterno e universale. Come scrisse Bachofen, questi studi non solo possono apportare sguardi retrospettivi nella ricostruzione del sapere sul mondo antico, ma «potrebbero anche riuscire assai utili a coloro
che si sforzano di scoprire il vero volto dei tempi presenti e di formulare una diagnosi e una prognosi dell’intera società occidentale.» (Bachofen 1990).
La difficoltà di una terminologia appropriata
Riscontrai una diffusa reticenza all’utilizzo del termine “matriarcato”, supportata dalla paura di evocare, così come successe con il movimento femminista, non una vera alternativa ma “un altro patriarcato”.
Il termine matriarcato è caduto in disuso nel linguaggio scientifico e bibliografico e anche nei corsi universitari, quando è utilizzato perlopiù in veste critica o ridicolizzata. In questi luoghi vengono preferiti termini quali: matrilinearità, matrilocalità, matrifocalità; spesso usati erroneamente come sostituti o interscambiabili tra loro.
I suddetti termini non sono di per sé scorretti, ma, se usati singolarmente e intesi come capaci di descrivere la complessità delle società non patriarcali. Tale utilizzo rischia di creare errori di rappresentazione perché non sufficiente a mostrare l’intricata rete di relazioni e di intrecci sociali che caratterizzato queste culture, dandone una visione riduttiva e di conseguenza politicamente meno rilevante. Fino ad ora però, continuano a essere assunti come descrittivi di queste società.
Osservando la parola da un punto etimologico, elaboriamo istintivamente il termine arché con il significato più vicino alla nostra lettura del mondo, cioè quella di “dominio”.
La parola arché però significa anche “origine” e ritrova nel termine matriarcato la sua accezione positiva divergendo dal significato comunemente attribuitole, diventando la risposta alle domande sull’origine della vita di molte comunità: in origine, le madri.
Nonostante il matriarcato abbia una storia plurimillenaria alle spalle, in una società patriarcale come quella in cui siamo cresciute/i, abbiamo la possibilità di discutere dell’argomento con una quantità relativamente ristretta di documentazione, materiale perlopiù mai messo a sistema o disciplinato accademicamente.
Da Bachofen (Bachofen, 1865) a Malinowski (Malinowski, 1922), fino a riemergere anche all’interno dei dibattiti marxisti attraverso gli studi di Babel (Babel, 1883), le epistemologie di partenza utilizzate per descrivere il matriarcato erano quelle delle culture dominanti: non si tennero in considerazione le posizioni delle società indigene. Le teorie scientifiche finivano per essere funzionali agli interessi coloniali e razzisti e caricate di un enorme investimento emotivo e ideologico dal mondo accademico, poiché a interrogarsene erano in maggioranza uomini.
Seppure riconoscendo il valore e il consenso scientifico intorno a questi grandi autori, non si può non tenere in considerazione che le loro analisi siano nutrite dalle premesse ideologiche dei paradigmi dell’epoca, il cui sguardo sulle società matriarcali è in parte distorto da metodi scientifici speculativi.
In cerca di una definizione
“Gli studi matriarcali moderni non devono porsi come obiettivo definire se quella società sia matriarcale o meno, o quanto lo sia, ma se, utilizzando la lente matriarcale, le conoscenze e informazioni su queste società aumentino”. Veronika Bernthold-Thomson
(Colombini, Di Bernardo 2012)

Un contributo innovativo è stato portato dalle ricercatrici e dai ricercatori provenienti dalle numerose società matriarcali ancora esistenti, come Barbara Mann, donna irochese; Usria Dhavid, per i Minangkabau; Savithri de Tourreil, popoli Nayar; Patricia Mukhim, con i Khasi; Lamu Gatusa, etnia Mosuo; Malika Grasshoff, comunità Kabylin; Wilhelmina Donkoh, degli Akan, e tante altre e altri.
Per comprendere nel modo migliore possibile la loro storia occorre che vengano interpellate le loro storie. Ritengo, inoltre, che l’atto di ricostruzione storica libera e autodeterminata porterebbe queste società a uscire dalla condizione di lontananza cognitiva e culturale a cui sono state poste attraverso le narrazioni di esse come luoghi esotici e surreali.
Le società matriarcali sono passate attraverso molti cambiamenti a causa delle lotte in difesa delle loro terre e tradizioni e le pressioni economiche e sociali del modello capitalistico sono riuscite a modificarle sotto molti aspetti. Anche prima del contatto coloniale le loro storie hanno comunque seguito percorsi diversi a seconda delle aree ecologiche abitate e tradizioni diffuse. Per questo motivo è necessario, quando si parla di matriarcato, utilizzare il plurale. Non è possibile creare intorno a esse degli “ideal-tipi” poiché esistono una grande varietà di matriarcati e ognuno di essi vive questo modello nella maniera più vicina alle esigenze uniche e particolari dell’ambiente in cui vivono.
Per tentare di definire il matriarcato potremmo iniziare descrivendolo come una forma di governo, nel quale il potere politico-economico viene gestito diversamente rispetto alle forme cui siamo abituate e abituati.
Per comodità di narrazione, si inizierà a dire che generalmente questo potere è demandato alla madre più anziana della comunità e per estensione a tutte le altre donne, senza però estinguersi in esse; ma, nel parlare di questo potere bisognerà ragionare attraverso categorie completamente differenti.
Il concetto matriarcale di “madre” non contempla un materno associato a mere questioni sentimentali e/o di debolezza emotiva, tipico invece delle società occidentali, dove le madri vivono condizioni di solitudine e fragilità emotiva oltre che fisica. Questa è un’immagine veicolata da una cultura profondamente patriarcale,funzionale a screditare i valori materni per sostituirli con gli altri che sono più funzionali alla sua esistenza, come quelli dell’individualismo, della competizione e della lotta per il potere.


Considerazioni in ambito internazionale
Nel settore della cooperazione internazionale, almeno formalmente, è ormai da molto tempo (UNDP, 1995, 2003; UN, 2000) che è condivisa l’idea che una “logica materna” è fondamentale per il benessere di un territorio e delle persone che ci abitano; poiché essa non prevede atteggiamenti centrati sul proprio ego e si basa invece sui valori della redistribuzione della ricchezza, della cura, mutuo aiuto e altruismo. (Goettner-Abendroth 2012). Nonostante i nuovi paradigmi di cui sono portatrici le società matriarcali siano quasi gli stessi che si interpellano nei numerosi dibattiti dell’attuale cambiamento sociale, il riconoscimento stesso di queste società non è stato ancora raggiunto.
L’incoerenza di fondo della comunità internazionale (governativa e non governativa) sta, da una parte, nell’aver messo in evidenza che un empowerment delle donne potrebbe fornire risposta ad alcuni reali bisogni delle persone, mentre dall’altra perpetua nei suoi schemi, delle politiche e degli atteggiamenti che spingono gli Stati alla continua conquista della quota di potere; in un perfetto e immutato regime patriarcale di valori, come ad esempio l’individualismo, la competizione e la paura verso il prossimo.
Un sistema come quello androcratico, che tende all’oppressione sociale, politica economica e culturale delle donne, è un modello di esistenza che in generale ferisce tutti, poiché non volge le sue cure verso l’orientamento positivo della sussistenza umana. Il patriarcato si è basato sull’accumulo di ricchezze, sui pochi che comandano i molti, sullo sfruttamento incontrollato della natura, sulla corruzione, sul perdurare della concezione del più forte fisicamente che sottomette il debole. Questo ha comportato, fino almeno alla Storia più recente, all’estromissione delle donne dai luoghi di creazione di cultura e saperi e alla loro sottomissione al genere maschile, oltre che la costituzione di ceti sociali molto distanti tra loro economicamente, la schiavitù e al razzismo che ancora continua a perdurare nelle società cosiddette avanzate.
I matriarcati nel mondo hanno, invece, avuto una esplicitazione storica diversa, caratterizzata da una politica prevalentemente pacifica e lontana dalla politica di potenza degli stati occidentali moderni che competono tra loro in un’ottica di dominio globale.
La corretta definizione del matriarcato può essere utilizzata come strumento scientifico per una rivisitazione della storia culturale del genere umano, che vada al di là delle attività imperialistiche, delle guerre e della più recente economia di tipo capitalistico, oltre che offrire nuove opzione e una nuova interpretazione delle relazioni tra gli uomini e le donne.
L’esistenza stessa di questi esempi di vita dimostra che il patriarcato non ha potuto diffondersi ovunque e quindi che non è universale ed eterno; e ci dona una realtà alternativa e visibile dei dibattiti critici già esistenti.
Una società che si fondi sulla centralità della donna e della natura attuerebbe l’auspicata crisi del potere delle multinazionali, evidenziandone la totale improduttività e la perniciosa attitudine al solo sfruttamento delle risorse e degli umani. (Shiva 2002).

Conclusioni
Lontane dal poter essere considerate società perfette, le società matriarcali vanno studiate come culture aperte e creative (Favole, 2010), senza adottare categorie inconfutabili come quelle che appartengono ad alcuni approcci di stampo patriarcale. Si auspica che la futura ricerca in questo ambito si astenga da una discriminazione a priori di questo termine già a lungo oscurato, e che si impegni per la creazione di significati chiari e ridefiniti del termine.
Lo studio del matriarcato, a differenza di come il comune sentire lo descrive, non circoscrive il suo sguardo alla condizione delle donne, ma si interessa alla struttura complessiva delle società. Essendo l’obiettivo ultimo quello di studiare società egalitarie e pacifiche, bisogna cercare di utilizzare postulati che non alimentino gli antagonismi tra uomini e donne, in un mondo dove il rapporto tra i due generi vive già complicate situazioni.
Innegabile è però l’assunto da cui partono: che una società basata sulla partnership e il rispetto tra i generi potrebbe essere la risposta allo sfruttamento della terra e dei popoli, alla guerra e alla malattia, alla violenza e all’oppressione non solo di un genere, ma di interi continenti.
Molte delle teorie antagoniste sono rimaste incompiute, o con il lungo tempo il raggiungimento di risultati e obiettivi è stato disatteso o spostato sempre un po’ più avanti, come è avvenuto per esempio alle teorie sulla sostenibilità ambientale, mano a mano diventate sempre meno radicali e anche meno in contrapposizione rispetto al sistema economico liberista e capitalistico.
Le società matriarcali possono essere un punto di partenza, per superare la fase dell’immaginazione di nuove realtà di vita e osservare concrete condizioni familiari, educative, politiche ambientali alternative, da cui poter trarre eventuali suggerimenti o suggestioni per individuare nuove visioni. Una divulgazione su larga scala degli studi matriarcali, ad esempio attraverso i libri di testo, e poi nella vita pubblica, fino a quella politica, è necessaria.
Il silenzio è l’arma del genocidio, delle distruzioni, della violazione dei corpi e delle menti. Rompere il silenzio sulla storia di queste società, anche grazie agli studi matriarcali, significa colpire nel cuore le strutture del sistema malsano in cui viviamo.
Prendere coscienza che non era così all’origine delle interazioni umane sul pianeta, che ci sono già state e che ci sono tuttora altre possibilità e altri modi di vivere, ci aiuterebbe a muoverci verso un futuro migliore. Liberarci diventerebbe allora meno utopico.
La tesi integrale è disponibile al link: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/67_Leonelli.pdf
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Articolo di Irene Leonelli
Laureata in Scienze Internazionali della Cooperazione e dello Sviluppo, prosegue gli studi magistrali nel campo dell’Antropologia, approfondendo gli approcci della cooperazione internazionale, e in particolare la tematica di genere. Nel 2020 consegue il Master di Gender Equality and Diversity Management. Filo rosso della sua storia accademica e professionale è il lavoro di audit, supporto e potenziamento di comunità.