Niente, non riusciva a ricordarlo. Il principio dei vasi comunicanti. Com’è che era? O si trattava forse di una teoria? Principio o teoria? Vi era differenza? Non le veniva in mente nulla. L’unica cosa di cui era certa è che riguardava i vasi. Per il resto, vuoto. Sarebbe dovuto importarle? Forse sì, se fosse stata un vaso. Ma di certo un vaso non era. Proprio no. E il problema era tutto qui. Seduta sul pullman che la stava riportando a casa, Chiara teneva lo sguardo fisso sulla corsa di due gocce d’acqua che si erano sfidate alla fermata precedente. Fosse stata più ferrata in fisica, avrebbe forse potuto scommettere, con la propria immagine riflessa, quale delle due piccole sfere sarebbe arrivata per prima. Ma calcolo di direzioni, velocità e probabilità non erano mai stati il suo forte. La geografia, quella sì che le era sempre piaciuta. Se quelle particelle fossero state frazioni di fiume, ne avrebbe tracciato il prima e il dopo, a memoria, la nervosa nascita rocciosa e la placida e salata dipartita. Amava questa materia perché era priva di retorica e di sensazionalismi, senza semplificazioni o generalizzazioni. Si parlava di quello che si vedeva. In fisica, invece, era sempre stata un disastro. La goccia alla sua destra prese un’accelerazione improvvisa, sterzò e tagliò la strada alla propria concorrente. Sorrise. Avrebbe perso la scommessa.
Chiara guardò l’orologio: il pullman era in ritardo anche quella sera. Con gli occhi chiusi e la testa reclinata sul finestrino, continuò a pensare. I vasi, il liquido, qualcosa che riguardava lo scambio. Niente, la memoria non le restituiva niente. Si raddrizzò. L’indomani sarebbe stata una settimana dal suo intervento di interruzione volontaria di gravidanza, sette giorni trascorsi in una quasi quotidiana normalità, a parte qualche fastidio inevitabile legato alla piccola operazione subita. Per il resto, si sentiva bene. Bene fisicamente. Bene moralmente. Aveva preso la decisione giusta, Chiara lo sapeva. E nessuno strazio, senso di colpa o rimpianto la stava rodendo. Non voleva essere madre, e tanto bastava, almeno per lei. Eppure, il suo sentire non sarebbe mai potuto essere sufficiente. Se sei donna, devi comunque sempre dare una spiegazione. Ti viene imposta una omologazione dell’essere e del provare, del dolore e del piacere, come se si stesse parlando di vasi, messi in comunicazione tra loro dal canale del patriarcato più o meno latente, che fa sì che ognuna abbia lo stesso livello di pensiero, imposto, con il quale giudicare sé stessa e le altre.
Chiara ebbe un guizzo di memoria. In un sistema di vasi comunicanti, il fluido contenuto raggiunge la stessa quota indipendentemente dalla forma dei recipienti. Ecco com’era. Vasi. Stessa quota. Indipendentemente dalla forma. Donne. Stesso pensiero. Indipendentemente da… Indipendentemente. Le uscì un sospiro.
Essere donna pareva essere uno stereotipo. Nel pacchetto servito alla nascita, grande peso aveva il senso di colpa. Senza possibilità di alternative. Nonostante l’aborto sia un diritto garantito dalla legge di uno Stato laico, esso è seguito da condanna e — nel migliore dei casi — dallo stigma di sofferenza che, giocoforza, la donna deve provare. Nel sistema patriarcale dei vasi comunicanti, gravidanza uguale bello, aborto uguale brutto. E che possa esistere il contrario non è preventivato. Sembra che la proprietà commutativa dei numeri non debba essere applicata alla donna: meno di un numero, nel quale anche lo zero ha un valore; meno di un vaso, che piace per l’aspetto e la forma, ma i cui pezzi rotti vengono dimenticati in un angolo del pavimento a favore del contenuto, qualunque esso sia. E se anche quei frammenti sono riattaccati in una posticcia parvenza di normalità, il vaso è comunque visto con pena e acredine e risentimento. Non può essere accettato un aspetto che non sia quello convenzionale e originale, quasi che la colpa della caduta, delle crepe, degli spazi aperti dai quali tutto esce, sia una cosa cercata e voluta.
Alla donna è richiesto equilibrio, un camminare a mezza costa, nel centro di un compromesso perenne. E il compromesso per aver scelto di abortire, Chiara lo aveva letto negli occhi della sua amica Giulia: sofferenza e pietà. Se decidi di interrompere la gravidanza, allora devi sentirti lacerata, piegata, in colpa. Per molte donne era esattamente così. Per molte altre assolutamente no. Semplice.
Eppure ci si è sempre focalizzati sulla sofferenza, perché deve passare il messaggio che abortire sia una cosa sbagliata. La gravidanza di una donna pare essere un affare pubblico; dell’aborto, invece, è meglio non parlare. Esso deve rimanere segreto, perché il segreto sa di vergogna, di ombre e di male. La calma della verità è vista come un’ammissione. E “ammissione” è parola legata al peccato.
Questo ha fatto soffrire Chiara, non la scelta di abortire, né il dolore dell’operazione, ma il non poter parlare, il non essere ascoltata e compresa, il dare per scontato un sentire che pure non esisteva. Aveva provato a spiegarsi, Chiara. E credeva che Giulia, donna indipendente, atea, con profondo valore di laicità, avrebbe potuto capirla. Alla sua confidenza, l’amica l’aveva abbracciata e le aveva chiesto come si sentiva. «Bene». «Non è possibile. Dimmi la verità. Con me puoi confidarti». E invece no, non poteva. Perché lei stava davvero bene, ma tra il reale e il dovere c’era di mezzo una familiarità che non era assolutamente voluta. O richiesta. E così, alla sua seconda interruzione, Chiara non disse niente a nessuno.
Il pullman rallentò. Era la sua fermata. Si alzò e attese che l’autista aprisse le porte. Lo sguardo le cadde su un giornale abbandonato sul sedile di fianco, ultimo indizio di una giornata lavorativa ormai al termine. Si ricordò così di quel noto scrittore che poco tempo prima aveva scritto in difesa della legge 194: «L’aborto è un passo doloroso». Chiara ghignò amareggiata. Non sarebbe finita mai, se ciò che era un diritto veniva fatto passare per concessione. E a questa concessione doveva d’ufficio seguire un commento inevitabile, utile a quietare il collettivo senso di morale. Eppure, l’aborto non era un “sia! Però… ”. È un “È tuo. Ti spetta.” E non deve per forza esserci un seguito avversativo. È tuo. Punto. Ti spetta. Punto. Il punto è parte integrante del diritto. È un fermarsi prima di prendersi una confidenza con la vita che non è concessa a nessuno/a.
Il pullman si arrestò e le porte si aprirono. Scese. Nella strada che la stava portando verso casa, capì perché aveva avuto così grande difficoltà a ricordare il principio dei vasi comunicanti. Purtroppo, se una cosa non le interessava, o se la reputava inutile, tendeva a dimenticarla. Chiara non era un vaso. Non voleva avere lo stesso livello di ciò che le stava intorno. Chiara odiava la fisica, ma amava la geografia, perché i fiumi, i laghi e le montagne scorrono, stanno, svettano comunque, sempre. Nonostante ciò che si creda o si pensi di loro. E se una comunicazione veniva loro imposta, avevano la possibilità — e il diritto — di sbarazzarsene immediatamente.
Articolo di Sara Balzerano
Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.
Voglio congratularmi con Sara, perché ha scritto con delicatezza ed essenzialità su un argomento ancora oggi messo sotto un velo e di cui si parla quasi sottobanco, almeno nei paesi di provincia, dove le donne, in molti settori, pensano ancora che convenga tenere la bocca chiusa. Grazie.
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