Fantascienza, un genere (femminile). Italia, anni Sessanta e oltre. Seconda parte

Diciotto romanzi, diciassette racconti, centocinquantuno scritti (contributi, editoriali, interventi, presentazioni, rubriche) riconducibili a saggistica, oltre duemilaseicento traduzioni soltanto in area science fiction e dintorni, nove pseudonimi (o modalità di firmarsi), sia femminili sia maschili. E nessuna fotografia in rete. È Roberta Rambelli, la «primadonna della fantascienza», della quale, a dispetto della produzione sconfinata, non molto è noto. Soccorre, ancora una volta, l’ineguagliato Giuseppe Lippi, nella postfazione alla ristampa (in «Urania» Collezione, numero 051 del 2007) del primo romanzo dell’autrice, I creatori di mostri, edito nel 1959.

Jole Rambelli (Roberta è nome scelto e consolidato in ambito letterario) nasce a Cremona nel 1928 e inizia a operare nell’editoria italiana come traduttrice dall’angloamericano, di science fiction e non solo. Si afferma anche come saggista e antologista: Fantascienza: terrore o verità? (con Andrea Canal, 1962) e Fantascienza: guerra sociale? (1965) rappresentano due raccolte significative, che aprono il genere a un pubblico colto, rivendicandone la dignità anche attraverso l’edizione integrale dei testi e l’accuratezza delle traduzioni (dall’originale, senza mediazioni di altre lingue), differenziandosi così dalle scelte commerciali operate in Italia negli anni Cinquanta. La fantascienza è dunque «quel ramo della letteratura che costituisce la risposta degli esseri umani alle proposte della scienza e della tecnologia» (Rambelli condivide la definizione di Isaac Asimov), che rappresenta una «specie di immagine speculare […] della letteratura tradizionale» e sotto il profilo contenutistico risulta «ancorata soprattutto alla satira sociologica». A queste due antologie se ne aggiunge una terza, Fantascienza della crudeltà (pure 1965), presentata da Gillo Dorfles ma da lei curata con competenza.

Non solo Roberta Rambelli è una traduttrice leggendaria per rapidità e accuratezza, un’antologista dal gusto sicuro, una scrittrice prolifica (di cui sono prese in esame in questa sede alcune poche opere esemplari): è anche un’esperta conoscitrice del mercato librario. Sua è l’idea, realizzata dall’editore Mario Vitali, di creare uno Science Fiction Book Club italiano che, sul modello statunitense, introduce nelle biblioteche private volumi di fantascienza pregevoli, ben tradotti, in edizione integrale, dalla veste tipografica rispettabile (bandite le “copertine provolone” si commissionano opere astratte); a lei, inoltre, è affidata la direzione di «Galassia», nonché il successo della collana popolare «I romanzi del cosmo», per la quale ne scrive ben tredici tra il 1959 e il 1961 (il primo è proprio I creatori di mostri), a un ritmo vertiginoso che non può non influire sulla qualità delle opere.




Roberta Rambelli ritratta da Giuseppe Festino, storico illustratore di fantascienza (per gentile concessione dell’autore): il disegno, dei primi anni Duemila, rappresentano la scrittrice negli anni Sessanta

I creatori di mostri è un romanzo ben scritto, gradevole, dallo sviluppo convincente (non a caso Giuseppe Lippi lo ha scelto per la ristampa); è una prova di science fiction avventurosa ma con attenzione alla dimensione interiore dei personaggi, per primi lo psicologo Krishna Singh, protagonista della vicenda, il comandante Vial e il suo vice Géza Kovács; l’equipaggio della Spedizione Kappa si avvale poi, tra gli altri, di uno zooantropologo, un geologo, un tecnologo, un astrofisico, un botanico. Agli uomini della missione è chiesto di far luce sul mistero dei «mostri purpurei», responsabili dello stato di prostrazione mentale che evolve in allucinata psicosi di alcuni compagni in viaggio nello spazio. Nella ricerca, la Kappa incontra mondi alieni che hanno scelto o subito differenti percorsi di evoluzione: dai grandi felini bisessuali e filosofi, che hanno instaurato una proficua simbiosi con i tarsi, piccoli primati dall’intelligenza limitata ma dalla sviluppata capacità manuale (indimenticabile la figura del saggio Waugh, che chiede il dono dell’oblio per mantenere in pace il proprio pianeta); ai trogloditi (pericolosamente) telepati, che vivono in gruppi tribali, ignari gli uni degli altri, minacciati da una natura ostile e memori di un’antica sciagura per mano dei «Nemici»; fino all’origine del male, il corpo celeste che fu abitato da «uomini, uomini simili a noi». Questi mondi “altri” rappresentano proiezioni o estremizzazioni dell’umano, alternative possibili a quella che è stata l’evoluzione sulla Terra, in spregio alla centralità che l’uomo rivendica per sé nell’universo. Umanissimi, dunque, i «Nemici» che nel loro agire hanno radicalizzato il male e il dolore degli altri, «antropofagi, assassini, genocidi, tossicomani» che incarnano il lato oscuro che è in ogni individuo. Roberta Rambelli firma il romanzo con lo pseudonimo maschile di Robert Rainbell: la scrittura è rigidamente maschile, e anche l’opera è forse pensata per un pubblico maschile; il femminile è del tutto assente nella vicenda, accettando il presupposto di certa fantascienza secondo cui la conquista dello spazio è questione troppo importante per lasciarla alle donne.

Sono uomini anche il chirurgo Persio Alemtejo e lo psicoanalista Erlend Thorsen, i due protagonisti del bel racconto Parricidio (apparso sul numero 9 di «Galassia» del 15 settembre / 15 ottobre 1961), giocato sull’ambivalente amicizia tra i due e sulla loro rivalità, prima latente, poi dichiarata, per arrivare a un finale aperto, che esprime l’impossibilità di controllare razionalmente la dimensione psichica interiore. L’unico personaggio femminile della vicenda è un’icona del dolore, evocata dalla memoria, vittima senza possibilità di fuga (elemento questo di sorprendente attualità) della violenza maschile. Pure una questione di uomini è Il libro di Fars (apparso sul numero 11 di «Galassia» del 15 novembre / 15 dicembre 1961): riscrittura in chiave fantascientifica, non senza banalizzazioni, dell’Epopea di Gilgamesh, il più antico poema eroico della storia umana, a partire dal 2000 avanti Cristo tramandato e rielaborato in Mesopotamia e nell’intero Medio Oriente. Alle donne, del resto, non è lasciato spazio neppure nell’Epopea, centrata sull’amicizia tra il dio-re Gilgamesh ed Enkidu, così come il romanzo di Rambelli, ove tuttavia la sofferta ricerca dell’immortalità da parte del protagonista è dettata non dal desiderio struggente di riportare in vita l’amico, ma dalla volontà di operare per la salvezza dei mondi e dei popoli dell’impero galattico.

La dea antico babilonese Ishtar, regina della notte, rappresentata in un pannello di argilla risalente al XIX – XVIII secolo avanti Cristo, conservato al British Museum di Londra. Alla dea, figura centrale nell’epos di Gilgameš, è ispirata la crudele sacerdotessa Aserat di Thoras, personaggio del romanzo Il libro di Fars di Roberta Rambelli

Il ministero della felicità è, forse a ragione, l’opera più celebre della scrittrice: edito nel 1972 nell’ambito della collana «Galassia», presenta una convincente ambientazione italiana (nella città padana in cui si svolge la vicenda si riconosce Cremona, città di origine di Roberta) in un futuro prossimo venturo distante appena una trentina d’anni dall’epoca della redazione del romanzo.

Rambelli riconosce nella società a lei contemporanea i «vizi di forma» che la trasformeranno in distopia: il «lavaggio del cervello» (come si diceva allora) operato dalla pubblicità, gli stereotipi di genere imposti da mode mutevoli ma funzionali ai consumi, il divario sempre maggiore (misurabile in termini di dimensioni delle automobili) tra ceti privilegiati e persone ordinarie, l’alienazione del lavoro e il conformismo delle relazioni, il rito collettivo della partita di calcio domenicale, l’impossibilità di compiere una scelta, quale che sia, in modo autonomo, senza essere considerato un «disadattato» e senza considerarsi tale. «Questa società non può ammettere che esista qualcosa in grado di fermarla», così, in uno dei passaggi chiave del romanzo, il dottor Franco a Nino: il primo è il personaggio che rappresenta il pensiero divergente, la via di fuga dall’ordine costituito, e che, non a caso, considera il continente africano luogo possibile di una vita autentica; il secondo è il protagonista senza qualità, già appassionato di musica neomelodica divenuto ribelle proprio malgrado, incapace di trovare soddisfazione per quanto il Ministero della Pubblica Felicità si ostini a voler esaudire i suoi (presunti) desideri. Punto di forza del romanzo è la lingua, strumento di un’ironia dal gusto amaro, tra gli estremi del registro burocratico e della deformazione grottesca, in un crescendo di situazioni paradossali cui l’«impiegato di terza categoria, grado decimo» Nino – novello Winston Smith – non può che soccombere.

Copertine dei romanzi di Roberta Rambelli qui principalmente trattati; da sinistra: I creatori di mostri (ristampa dell’edizione del 1959), Il libro di Fars (1961), Il ministero della felicità (1974)

«Roberta Rambelli – scrive Giuseppe Lippi – era una bella ragazza milanese, poi una bella signora, che lavorava moltissimo, entrava e usciva dalle case editrici come un espresso, sempre ricca di idee e proposte ma anche di pacchi di lavoro da fare». Dopo il matrimonio con Alfredo Pollini e la nascita del figlio, Roberta, che si è trasferita nei dintorni di Roma, intensifica l’attività di traduttrice: Philip Dick, Ray Bradbury, Theodore Sturgeon, Walter Miller, Philip Farmer sono soltanto alcuni dei grandi da lei proposti, tradotti e resi celebri in Italia. Fino alla morte, anzitempo, il 6 gennaio 1996.

Negli stessi anni in cui Roberta Rambelli dirige «Galassia», Anna Rinonapoli scrive per la concorrente «Futuro» – rivista di promozione di una via italiana alla fantascienza, dalla durata effimera – di cui è una delle firme di punta. Vi pubblica tre racconti in tre numeri consecutivi: Ministro notturno (n. 2 del luglio/agosto 1963), Libicocco (n. 3 del settembre/ottobre 1963), Il contrordine (n. 4 del novembre/dicembre 1963), racconti che uniscono gusto fantastico e fantascientifico e che costituiscono il suo esordio narrativo.

Anna Rinonapoli sorride dalla quarta di copertina del suo libro Sfida al pianeta (1973), in una fotografia di autore non noto

L’autrice ha quasi quarant’anni: Anna Maria Volpe Rinonapoli (che sceglie poi di abbandonare il secondo nome e il primo cognome) nasce infatti ad Agordo, nel Bellunese, il 29 febbraio 1924. È figlia di Ezel (classe 1896), noto studioso di letteratura greca e latina, docente e successivamente preside in diversi ginnasi e licei classici, prima del Regno, poi della Repubblica, che conclude la sua carriera al Giosuè Carducci di Milano nel 1958. Dal padre, Anna mutua la formazione umanistica; con lui tradurrà dal greco Storia vera di Luciano di Samosata: ed è forse grazie a questa celebre opera che si innamora della letteratura fantastica e ne fa propria la vena satirica. Dopo la guerra, si laurea in lettere presso l’Università Statale di Milano, nel 1948: «Di Milano visse l’atmosfera artistica degli anni Cinquanta che le permise, come lei stessa dichiarò, di entrare in una dimensione europea e di trovare la propria identità intellettuale attraverso la varietà di esperienze e di novità culturali» (Elda Belsito). Rinonapoli è anche insegnante, in scuole milanesi fino al 1966, poi a La Spezia, ove è titolare della cattedra di materie letterarie presso l’Istituto professionale cittadino Luigi Einaudi e ove vive fino alla morte, avvenuta nell’Ospedale Civile di Parma l’8 ottobre 1986. Le scarne notizie relative alla sua vita si devono alla bella presentazione di Vittorio Catani premessa alla ristampa del racconto Gita al pianeta madre («Robot» nuova serie n. 50, primavera 2007), nonché alla biografia presente sul sito della casa editrice Tabula Fati, che nel 2005 ne pubblica il romanzo postumo La crociata dei bambini, epilogo del ciclo Cavalieri del Tau, ascrivibile al genere fantasy e ambientato nell’Italia dell’anno Mille.

Anna Rinonapoli è autrice di trentasette racconti e di otto romanzi (due riconducibili alla fantascienza), e ancora molti sono gli inediti: così come per altre scrittrici italiane di science fiction degli anni Sessanta e Settanta, i suoi testi, soprattutto i racconti editi in riviste differenti per impostazione e diffusione, non sono di facile reperibilità: la scelta degli approfondimenti qui operata risulta perciò in parte dettata da un criterio di necessità. Con commozione, si segnala però il carattere storico e documentario della sua prima pubblicazione: Fuoco sulla Versilia, del 1961, uno dei primi studi sulla strage di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944), che contiene testimonianze dei sopravvissuti e che ha costituito una fonte documentaria per il Tribunale Militare di La Spezia che ha condotto il procedimento giudiziario contro i criminali nazisti che ne furono responsabili (impuniti).

Ecco, dunque, le tre short stories apparse su «Futuro» nel 1963. Ministro notturno è un racconto che ha goduto di grande fortuna (è stato tradotto in cinque lingue: russo, ungherese, bulgaro, francese, tedesco); qui la fantascienza diviene occasione per un apologo sui meccanismi aberranti e devianti di una burocrazia divorante e ottusa: impossibile per il lettore o lettrice nell’Italia degli anni Sessanta (ma anche degli anni Duemila) non riconoscersi nelle disavventure del capitano Vladimir Clarcke (significativamente, il nome ha eco sovietica, il cognome statunitense), che per una questione di massima sicurezza, svelata soltanto nel finale, si addentra nel Ministero degli Affari Interplanetari, la cui vitale importanza impone l’avvicendarsi su due turni di un Ministro diurno e, appunto, un Ministro notturno. Il registro è quello della satira, un po’ kafkiana e un po’ pirandelliana: «Da quando nel lontano 1960 il cervello elettronico aveva dimostrato di poter eseguire in quattro giorni il lavoro che ottocento contabili compiono in un mese, la burocrazia, nell’inconscio terrore di essere distrutta, si era impadronita pian piano delle macchine ed aveva creato intorno ad esse una tale attività, che il numero degli impiegati si era dovuto raddoppiare». Il protagonista percorre scale, corridoi, stanze in susseguirsi labirintico; compila forsennatamente (e inutilmente) formulari, schede, test; ritrova in modo fortunoso il secondo e il terzo di bordo che si sono perduti nei meandri dell’edificio, fino all’epilogo, prevedibile ma gustoso.

Libicocco desume titolo e nome dall’Inferno (XXI, 121): Dante, infatti, annovera Libicocco nella «decina» di demoni «malebranche» che faranno da scorta non richiesta a Virgilio e a lui stesso nel passaggio dalla quinta alla sesta bolgia; Rinonapoli ne fa il protagonista nascosto di un racconto assai ben costruito, nella tradizione del miglior Dino Buzzati (i Sessanta racconti sono pubblicati cinque anni prima). Non un testo di fantascienza, ma fantastico, dal finale inquietante, sullo sgretolarsi delle certezze quotidiane e sull’apertura di scenari che sembrano provenire da un altrove implacabile e diabolico.

William Blake, illustrazione per il canto XXI dell’Inferno di Dante, realizzata tra 1824 e 1827 (dal volume William Blake. La Divina Commedia di Dante, a cura di Sebastian Schütze, Maria Antonietta Terzoli, Taschen 2017). Sono qui rappresentati Malacoda e Ciriatto, due dei dieci diavoli – tra questi è Libicocco, il cui nome dà titolo a un racconto di Anna Rinonapoli – che accompagneranno Dante e Virgilio per breve tratto nel loro viaggio

Un protagonista maschile, il «tecnarca» Riccardo, ha anche Contrordine, che affronta il tema della deresponsabilizzazione umana in una società futura e altamente tecnologizzata, dominata da robot e macchine cui le persone hanno demandato non soltanto le mansioni più pesanti, ma anche le decisioni che le riguardano, perché gli algoritmi, pardon, i calcolatori non commettono errori e risultano assai più affidabili rispetto a uomini e donne. Divinizzato dopo il risveglio da una lunga ibernazione, Riccardo comprende che il «Logico», il cervello elettronico cui è demandata la pubblica felicità, non ha colpa nell’aver creato un mondo impoetico e vacuo, uno «stupido, innocuo mondo di pessimo gusto», perché «l’uomo si evolve solo se prende la responsabilità di se stesso», se si eleva grazie alla consapevolezza, ovvero alla storia, e alla bellezza, ovvero all’arte.

Silenzio su Terra, pubblicato su «Interplanet Europa» n. 5 del 1964 è un racconto bellissimo, un capolavoro. Si legge d’un fiato e lascia senza respiro. Protagonista questa volta è una donna, Gina: non un astronauta, non un ingegnere, non un tecnico, ma una donna di servizio in una ricca casa borghese, che ha come sola ricchezza Dino, il proprio bimbo senza padre. È scritto in una prosa incalzante, con sintassi paratattica e ampio uso dell’indiretto libero, in un crescendo di tensione che accompagna la protagonista fino al folgorante finale, all’illuminazione di Gina, che intuisce e comprende il senso dello sbarco alieno perché madre, perché donna. In questo racconto, piuttosto che in altri – pure molto belli – centrati sulla filosofia dell’esistere, sulle storture del potere, sull’omologazione della società, si impone Anna Rinonapoli come donna e come scrittrice, grandi entrambe.

Meno riuscito, rispetto ai racconti che le sono più congeniali per misura, il romanzo Sfida al pianeta, edito da Dall’Oglio nel 1973. Poco convincenti gli abitanti di Phraill, umani alati grazie a un delicato innesto, capaci di ringiovanirsi fino a cinque volte per irrefrenabile vanità, convinti di essere «l’unica razza intelligente del cosmo». L’astronave che fa loro da base su un pianeta ancora senza nome, destinato all’esplorazione, ricorda, per dissolutezze e veleni, una corte italiana del tardo Rinascimento; i personaggi (in particolare quelli femminili) si polarizzano in positivo (Frial) o in negativo (Harista) con eccessiva rigidità; piuttosto scontata anche la palingenesi che conclude la vicenda. Le pagine più interessanti, notevolmente interessanti, sono quelle in cui il comandante Shilvyn, «plebeo» di origine, si interroga sui meccanismi della violenza contro gli inermi (gli ominidi sterminati in «genocidi spaziali» sui pianeti Herle, Paxte, Horola), che lui stesso ha praticato come sottoposto (ma «ubbidire significa approvare un ordine»); sulla crudeltà e la banalità del male; sull’insostenibilità dello sguardo delle vittime agonizzanti.

Fotografia della famiglia Pardini di Sant’Anna di Stazzema, scattata qualche tempo prima dell’estate 1944. Nella strage morirono la madre Bruna e due figlie, Maria e la piccola Anna, di soli venti giorni; sopravvissero il padre e i due figli maschi, al lavoro nei campi, mentre la figlia maggiore Cesira, ferita, riuscì a portare in salvo le sorelle Lilia e Adele

«La femmina di Herle rantolava. Shilvyn si avvicinò. Incontrò lo sguardo di quegli occhi rossi che chiedevano una morte rapida. La mano gli si contrasse sull’arma: poteva spingere il paralizzatore al massimo e l’agonia della creatura sarebbe finita. Si accorse che Vharady lo stava osservando con malignità. Non osò fare di testa sua. Rimase immobile. […] La creatura sopportò in silenzio i colpi dei pesanti stivali. Fissava Vharady con gli occhi rossi, nei quali il comandante credette di leggere un profondo disprezzo. […] Corse a prendere i cuccioli. Erano rinvenuti e stavano strisciando sull’erba, perché non sapevano ancora camminare. La peluria verde li copriva appena. Li afferrò per i piedi e andò a mostrarli all’alien. Li teneva per le zampette, con le braccia tese, e loro pendevano dalle sue mani, con la testa in giù, strillando e dibattendosi. “Sono i tuoi figli, vero?”, gli disse. “Guarda che cosa ne faccio”».

No, questa sequenza non si svolge sul pianeta Herle in un futuro lontano: si è svolta a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, Grizzana, Monzuno, ovunque si sia perpetrata una strage nazista e fascista nell’estate di sangue del 1944.

Tra i racconti di fantascienza degli anni Settanta e Ottanta, si segnalano Requiem per un soldato (apparso nel 1972 sulla rivista spezzina «Critica d’arte-oggi»), Gita al pianeta madre (in «Robot» n. 15 del giugno 1977) e Messaggio non ricevuto (in appendice, con altri nove, al romanzo TV-Serial nel cosmo del 1986): il primo è un apologo dolorosamente antimilitarista, celebre e tradotto in diverse lingue (francese, tedesco, romeno, ceco); il secondo un’anticipazione ironica, con risvolti di riuscita comicità, della vita in una città metropolitana del futuro (Milano), ove dominano inquinamento e controllo sociale; il terzo una parabola sull’insensatezza del razzismo e della guerra, affidata ai bimbi terrestri Paul e Sam e alla giovanissima voce aliena di Lus, «cara Anna Frank del cosmo».

Copertine di una rivista e dei romanzi di Anna Rinonapoli qui principalmente trattati: «Interplanet Europa» n. 5 del 1964 accoglie il racconto Silenzio su Terra, vi sono poi Sfida al pianeta (1973) e TV-Serial nel cosmo (1986)

L’ultima opera pubblicata da Rinonapoli, qualche mese prima della morte, è, appunto, TV-Serial nel cosmo, una satira graffiante del potere pervasivo della società dell’immagine: «Una teleprotesta, un teleaffamato, un telemassacro si trasformano sempre e in ogni caso nel teleromanzo su cui sentirsi buoni», su Terra e non solo.

Presentando un frammento di Luciano di Samosata sul n. 4 di «Robot», all’inizio della propria attività di narratrice, Anna Rinonapoli rivela l’ispirazione e il carattere della propria scrittura, capace di unire umanesimo e fantascienza: «Le vicende fantastiche sono narrate in tono serio e con precisi particolari di usi, costumi e fenomeni scientifici, e quindi la satira nasce dalla stessa situazione, fantascientifica. Ed in ciò, a mio parere, è il punto di contatto tra La storia vera e la SF».

In copertina: La nebulosa della Carena, parte dell’antica costellazione Argo, fotografata da Hubble Space Telescope (in https://www.astronomia.com/wp-content/uploads/2011/06/nebulosadellacarena-big.jpg). La costellazione fu punto di riferimento nel cielo dell’antichità: il mito, ripreso da Luciano di Samosata in Storia vera, vuole che Argo, la nave con cui gli Argonauti solcarono il mare greco fino alla Colchide, fosse assunta in cielo al termine del suo viaggio, per orientare i naviganti.

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Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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