Carmen de Burgos

L’odore di una tipografia sale su per le narici e si attacca prepotente alla mente, alla memoria delle emozioni. Il primo approccio con il mondo dell’editoria venne, per Carmen, proprio da quelle macchine di proprietà del suocero, governatore d’Almeria. In quel capannone si stampava ogni giono il più importante quotidiano della capitale.

Giornalismo e politica, insomma, li aveva sempre respirati in casa. In quella paterna prima, col padre viceconsole del Portogallo; in quella coniugale, poi, non solo col suocero e la sua tipografia ma anche col marito Arturo Alvarez Bustos, giornalista e poeta, sposato — contro il volere dei suoi genitori — a sedici anni e di quindici anni più grande di lei.

A dirla tutta, il matrimonio si era rivelato fin da subito una strada infelice. Tradimenti e alcool non avevano certo aiutato e dopo la morte di Arturo, uno dei quattro figli della coppia, la scelta di andare a vivere a Madrid, portando con sè la figlia Maria, sembrò il naturale passaggio verso quel processo di indipendenza che maturava in lei già da tempo.

Con alloggio provvisorio la casa del vecchio zio Agustin de Burgos Cañizares, Carmen decise che sarebbero vissute con quello che avrebbe guadagnato da sola e cominciò lavorando come insegnante, titolo che aveva preso proprio l’anno del terribile lutto. Quella conquistata autosufficienza economica era il primo passo dell’attività a tutto campo che avrebbe portato Carmen De Burgos ad essere quella che era: scrittrice, giornalista, biografa, redattrice, convegnista, opinionista. Ad affermarsi come Colombine prima, e a riaffermare poi anni dopo, con rinvigorita energia, il suo nome di battesimo.

Carmen de Burgos y Seguí era nata il 10 dicembre del 1867 ad Almeria da mamma Nicosia Segui Nieto e da papà Jose de Burgos Cañizares, prima di dieci tra fratelli e sorelle, ed era cresciuta a qualche decina di chilometri da lì, a Rodalquilar, villaggio nel comune spagnolo di Níjar nella provincia di Almeria, all’interno di quella grande vallata che è il parco naturale Cabo de Gata, tra i possedimenti e le miniere di proprietà del papà. Una terra feconda, di stratificazioni minerarie e culturali che spesso riaffioreranno nelle sue opere. 

Ritratto di Carmen de Burgos

A meno di quarant’anni, un matrimonio archiviato alle spalle e la voglia di ricominciare, a Madrid Carmen iniziò presto a sperimentare la sua capacità di leggere i fatti del tempo e di scriverne con arguzia. A pochi mesi dal suo arrivo, nel dicembre del 1901, metteva piede nel mondo del giornalismo con la rubrica “Notas Femeneninas”, ospitata dal giornale “El Glogo”.

Colombine arrivò l’anno dopo ancora, nel 1903: Augusto Suárez de Figueroa stava fondando il “Diario Universal” e le propose di collaborare al nuovo progetto editoriale con una rubrica quotidiana intitolata “Lecturas para lamujer”. Si sarebbe occupata di questioni femminili: sostanzialmente, almeno questa era l’intenzione, moda, cucina, arte e bellezza. Fu proprio il direttore a proporle di usare uno pseudonimo francese. Nasceva così Colombine. Quel contratto di assunzione era il punto di  svolta: per la prima volta in Spagna una donna veniva riconosciuta come giornalista professionista.

Nell’aprile del 1904 partecipò in qualità di giornalista alla delegazione che accompagnava il re Alfonso XIII nel suo viaggio ad Almería. Tornava così a casa, nella città conservatrice e cattolica che aveva dovuto lasciare all’indomani della separazione dal marito. Fece visita ai suoi familiari ma visitò soprattutto la School of Arts, l’Hospice e la Prigione e al suo ritorno a Madrid pubblicava due articoli che raccontavano l’esperienza.

Carmen ebbe l’intuizione e la capacità di far breccia nel cuore delle donne passando dai trucchi di bellezza alla politica, non smise — anche per ragioni economiche — di scrivere finanche ricette di cucina, ma non rinunciò all’impegno per una società migliore. Buttò giù, così, articoli come La moglie e il suffragio o L’ispezione delle fabbriche operaie dando fin da subito un taglio chiaro al suo lavoro. «Sono favorevole a istruire le donne e fornire loro i mezzi per lavorare, come unico modo per dar loro dignità, rendendole indipendenti e capaci di prendersi cura da sole dei loro bisogni», scriveva.

Nasceva così, tra quelle pagine e quelle giornate, anche il suo impegno per l’affermazione del divorzio in Spagna. Tutto cominciò quasi per caso, quando, cercando un tema da trattare nella sua rubrica del “Diario Universal”, lo sguardo ed il pensiero di soffermarono su una lettera inviatale dallo scrittore Vicente Casanova. Quest’ultimo voleva informarla dell’esistenza di un “Club de matrimonios mal avenidos”. La curiosità si trasformò presto in una convinta campagna di sensibilizzazione. Da una semplice riflessione per una rubrica a vera e propria mobilitazione civile il passo fu breve. E non indolore. La penna di Colombine chiamava a raccolta intellettuali, politici, società civile. Era arrivato il momento, ne era convinta, che la Spagna si dotasse di una legge che consentisse, anche formalmente, la rottura di un matrimonio fallito. Il divorzio era «conveniente alla società e alla morale», avrebbe dimostrato, e chiedeva anche agli/lle altri/e di esprimersi, di prendere posizione. Il tema era ormai sul tavolo e per quanto la politica nicchiasse, tante persone erano con Colombine. Importanti intellettuali dell’epoca risposero alla sua “chiamata” rifacendosi all’articolo a sua firma da cui era partito quello che sembrava quasi un sondaggio dalla domanda netta: chi è a favore di una legge sul divorzio? Troppo netta per la politica, che per lo più scelse di non esporsi. Ma chiara per le donne e gli uomini che risposero convintamente. Si alternarono i favorevoli e i contrari, ciascuno argomentando per il sì o per il no. Furono tanti i nomi della cultura che non si sottrassero al dibattito scrivendo lettere a Colombine, spiegando le ragioni del divorzio o della sua opposizione. Non bastò la rivista ad accogliere questa riflessione collettiva e d’altro canto il livello del dibattito era diventato troppo politicamente impegnativo per una rivista che in fondo le aveva chiesto solo di scrivere di temi femminili. Perciò, nel 1904 Carmen De Burgos pubblicò il volume intitolato El divorcio en España. Decise di dividere il lavoro in due parti: la prima raccoglieva le lettere inviate dalle personalità più illustri, mentre la seconda era formata dalle risposte di lettori e lettrici del giornale. Due parti distinte ma con pari dignità e un’unica conclusione: grazie al sondaggio da lei avviato e sviluppato, aveva confrontato i risultati e aveva verificato che la maggioranza del Paese era a favore del divorzio. La campagna non risparmiava accostamenti arditi: argomentando con la possibilità concessa alle suore di interrompere la clausura, provocatoriamente definito «el divorcio de las monjas», ci si arrivava a chiedere: se possono divorziare le monache, perché non può divorziare una moglie dal marito?

La grande esposizione sul tema le aveva fatto ottenere l’ammirazione di persone in vista come Giner de los Ríos e Blasco Ibáñez, ma le aveva anche procurato aspre critiche da parte del mondo ecclesiastico e dei settori conservatori del Paese e quando qualche anno dopo, nel 1907, salì al governo il conservatore Antonio Maura, il ministro della Istruzione Pubblica Rodríguez-San Pedro la trasferì a Toledo per allontanarla da Madrid.

Oltre alla questione divorzio, d’altronde, Carmen si era subito cimentata su un altro terreno, non meno inviso ad una certa scuola di pensiero. Nel 1906 aveva cominciato a collaborare con un’altra testata,“El Heraldo de Madrid” e da queste pagine, con una nuova rubrica dal titolo eloquente “El voto de lamujier”, aveva avviato una campagna a favore del suffragio femminile. «È veramente assurdo che le persone ignoranti abbiano il diritto di votare solo perché sono uomini, e che alle donne istruite questo diritto venga negato solo perché sono donne», scriveva.

E poi, ancora, gli articoli sulla istruzione della donna, sul lavoro, il tema, così avanti, del trattamento economico della lavoratrice e la questione della parità di retribuzione uomo-donna. Si schierò a favore dei sefarditi (gli ebrei della penisola iberica), contro la pena di morte e in difesa dell’infanzia e di una nuova impostazione didattica. Il mondo progressista era con lei, aumentavano gli inviti a convegni e dibattiti. Sempre più invisa, invece, a quelle forze che stavano andando al potere in Spagna. E peggio sarebbe stato anche più in là, in epoca franchista quando, benché non più in vita, Carmen de Burgos fu condannata all’oblio assieme alle sue opere, molte delle quali, secondo diverse ricostruzioni storiche, andarono distrutte. Questo però sarebbe stato di là da venire.

Ora il trasferimento a Toledo della scrittrice e docente, fortemente voluto dal governo, si rivelò un tentativo infruttuoso di allontanarla dal centro del dibattito. Carmen, d’altronde, si era già allontanata fisicamente dalla città madrilena: nel 1905 aveva infatti ottenuto una borsa di studio del Ministero dell’Istruzione Pubblica per analizzare i sistemi di insegnamento di altri Paesi e ne aveva approfittato per girare per quasi un anno in Francia, Italia, Inghilterra e Monaco. Un’esperienza che l’aveva arricchita e l’aveva spinta, appena rientrata dalla Francia, a fondare “La tertulia modernista”, il circolo letterario che Carmen continuò ad alimentare anche da Toledo.

Così, senza indugio, ogni settimana continuò instancabile a rientrare a Madrid per ospitare al circolo scrittori, giornalisti/e, artisti/e , musicisti, poeti stranieri di passaggio in città. Si stavano gettando i semi per la nascita della “Revista Critica”, ma anche per grandi legami: fu al circolo che conobbe Ramón Gómez de la Serna, allora sconosciuto studente di diciotto anni, e fu così che partì un rapporto, sentimentale ed epistolare, che durò per oltre vent’anni. Un affetto sincero, che non le risparmiò le critiche per quell’amore con un uomo tanto più giovane, né dolore e amarezza per una breve relazione stretta tra lo stesso Ramón e sua figlia Maria in occasione della partecipazione della giovane ad una commedia scritta da Gómez. Fu un duro colpo per Carmen che però perdonò entrambi. Così scriveva anni dopo lo scrittore nel suo Automoribundia del suo rapporto con Catmen: «Lei da una parte e io dall’altra da un tavolo stretto abbiamo scritto e scritto lunghe ore e letto capitoli, cronache, racconti, poesie in prosa». Proprio a de la Serna si deve anche uno dei pochi ritratti che restituivano a Carmen la dignità di donna e scrittrice. Fu lui a ricordare i suoi primi anni a Madrid «con un cappellino triste» e «la figlia in braccio» a scrivere, scrivere e scrivere, per passione ma anche per guadagnarsi da vivere. D’altronde, Carmen fu la prima donna a vivere della sua scrittura, fu la prima redattrice e fu anche la prima giornalista ad essere inviata di guerra. 

Venne, infatti, anche il tempo della guerra e la penna di Colombine non rimase sul tavolo.

ll 9 luglio 1909 i rifeños delle alture del Riff attaccarono un gruppo di operai spagnoli che stavano costruendo un ponte per la ferrovia mineraria a circa tre chilometri da Melilla, la città spagnola ancora oggi enclave in territorio marocchino.

Con i soldati spagnoli a Melilla

Alla grande indignazione del popolo spagnolo seguì la rappresaglia durissima del governo presieduto da Maura. Due giorni dopo l’attacco le truppe militari spagnole partirono alla volta della regione marocchina. Era, di fatto, l’inizio della guerra del Riff, a cui venivano chiamati anche i riservisti. Il 27 luglio 1909, durante quella che fu ribattezzata dalla storia la “settimana tragica”, si consumò la terribile sconfitta del Barranco del Lobo. I rifeños si rifugiarono sulla vetta del Gurugú e la scelta delle truppe spagnole si rivelò un fatale massacro. Carmen de Burgos, ospite presso l’ospedale da campo allestito dalla Croce Rossa, decise così di avvicinarsi alle truppe spagnole che lottavano attorno a Melilla per vedere e capire direttamente dal fronte. Da lì le sue corrispondenze di guerra per il quotidiano “El Heraldo” di Malaga; poi, una volta tornata a Madrid, pubblicò l’articolo Guerra a la guerra, nel quale difendeva i pionieri dell’obiezione di coscienza. «Il mondo civilizzato – si leggeva nell’articolo – mette il fucile in mano all’uomo, gli dà l’ordine di uccidere, e se l’uomo lancia la pistola e rifiuta di essere un assassino, viene trattato come un criminale. Ogni uomo deve, prima di tutto, e qualunque sia il costo, rifiutare tale servitù». Qualche settimana dopo il suo rientro, l’esperienza in territorio di guerra diventa anche En la guerra, una novella che tiene dentro tutte le emozioni registrate sul campo. Carmen De Burgos aveva ascoltato e toccato le sofferenze, la paura, la violenza, era stata “dentro” la guerra, in mezzo ai soldati. E doveva raccontarlo come solo lei sapeva fare. L’esperienza marocchina, peraltro, si arricchì nell’opera En la guerra anche delle cronache della Prima guerra mondiale che Carmen ebbe modo di incontrare nel suo viaggio nei Paesi nordici: viaggio che dovette interrompere prima di arrivare in Russia proprio perché finita suo malgrado per essere sospettata di essere una spia,  perquisita e fatta scendere su un treno verso la Scandinavia.

Il 1909 fu anche l’anno del suo primo romanzo: Los misadaptados, genere che continuò poi a coltivare negli anni che seguirono con La rampa

(1917), Gli antiquari (1919), Gli spiriti(1923), La donna fantastica (1924), Voglio vivere la mia vita (1931). Nello stesso anno Carmen veniva  nominata professoressa presso la Central Normal School di Madrid, dopo aver anche frequentato il corso di Metodologia per l’insegnamento dei sordomuti e dei ciechi. Nel 1911 fu nominata professoressa alla Scuola di Arti e Mestieri di Madrid. Por Europa, pubblicato nel 1910, fu il frutto del suo lungo e appassionato viaggiare nel Vecchio Continente, ma non mancarono resoconti di viaggi in America e in Argentina. Ogni viaggio era occasione per conoscere e confrontarsi con movimenti progressisti e femministi.

Mai archiviato infatti, nel frattempo, l’impegno sui temi della condizione femminile, sebbene sempre con poca affezione al concetto di femminismo. Nel 1915 nasceva una grande amicizia, che sarebbe stata destinata a durare una vita intera: quella con Ana de Castro Osorio, che personificava la battaglia per i diritti delle donne raggiunti in Portogallo e che avrebbe influenzato la nascita della crociata spagnola che avvenne nel 1921. Nel 1922, la crociata delle donne spagnole organizzò una manifestazione per consegnare tutte le loro richieste in Parlamento: l’introduzione del divorzio, la possibilità di indagine sulla paternità, uguali diritti per bambine e bambini legittimi e illegittimi, la riforma delle norme che discriminavano le donne. Nel 1921 scriveva, per la serie “Novela Corta”, Articolo 438. Il codice penale approvato nel 1870, ancora vigente cinquant’anni dopo, disciplinava di fatto una sorta di delitto d’onore: il marito che uccideva la moglie colta in flagranza di adulterio era punito con il divieto di avvicinarsi al luogo da cui era bandito per circa 25 chilometri. La regola si applicava anche ai genitori che avessero trovato una figlia minorenne (quindi di età inferiore ai 23 anni) con un amante ma non valeva, invece, se a scoprire il marito infedele fosse stata la moglie. Con il suo racconto, Carmen chiedeva l’abrogazione della norma avviando una battaglia che era giuridica e culturale assieme. Nel frattempo presiedeva l’associazione crociata delle donne spagnole, guidava la prima manifestazione di protesta delle suffragette in Spagna e iniziava ad argomentare le sue idee in manifestazioni e tribune pubbliche a cui veniva invitata sempre più spesso. Nel 1923 Carmen pubblicò Malcasada (mal sposata), ambientato completamente ad Almeria e dalle cui righe trapelava autobiografica l’amarezza di una società che impediva ad una donna di sottrarsi ad un matrimonio infelice.

Furono anche gli anni in cui si avvicinò al Partito socialista radicale repubblicano, dopo aver lasciato il Partito socialista spagnolo dei lavoratori in polemica con la ritrosia interna di quest’ultimo rispetto alla richiesta femminista di suffragio universale.

Nella sua opera La mujer moderna y sus derechos (1927), firmata non più Colombine, tornava il tema della parità e del femminismo, che, scriveva Carmen De Burgos, rappresenterebbe «Non la lotta dei sessi, nemmeno l’inimicizia con l’uomo, ma al contrario indica che la donna intende collaborare con lui e al suo fianco».

L’opera era intrisa delle esperienze di viaggio in altri Paesi, ne metteva a confronto condizione sociale e giuridica della donna. Ma al di là delle etichette, quello era il suo manifesto di impegno per le donne. «Puoi impedire alle donne di votare, ma non puoi impedire loro di pensare. Le donne sono ritenute adatte a modellare il carattere dei propri figli e ad educare intere generazioni, perché generalmente le donne si occupano della prima infanzia; e neghiamo loro il diritto primario di instillare un’istruzione e un senso di civiltà», scriveva. E ancora: «La donna è qualcosa di più della femmina, come l’uomo è qualcosa di più del maschio, dal momento in cui l’intelligenza permette loro di non ridursi al ruolo di semplici riproduttori della specie. Uno sguardo, per quanto lieve, dedicato allo studio del sesso femminile, ci mostra che la subordinazione della donna non è opera della natura». Censurato anni dopo dal governo di Franco e inserito tra le prime nove opere nell’elenco dei libri proibiti dall’Inquisizione Cattolica Nazionale, il libro fu presto definito la “bibbia del femminismo spagnolo”. C’erano dentro i viaggi, gli articoli, i confronti con le tante personalità e le tante storie semplici che aveva incontrato negli ultimi anni.

Non si interrompeva, intanto, la sua vena di scrittrice mandando in stampa decine di racconti, molti dei quali pubblicati a puntate su “El Cuento Semanal”. Tra i più importanti verranno ricordati: Il tesoro del castello (1907), Sentieri della vita (1908), L’uomo nero (1916), Il miglior film (1918), Gli uomini d’affari della Puerta del Sol (1919), La “Misericordia” ( 1927), Quando la legge lo richiede (1932).

Amica di Blasco Ibáñez, era una stretta collaboratrice della casa editrice Sempere da lui diretta e per lungo tempo scrisse, con lo pseudonimo di Gabriel Luna, per il quotidiano valenciano “El Pueblo”, fondato proprio da Ibáñez. Nella sua prolifica attività di scrittrice non mancarono anche le traduzioni di opere di autori come Max Nordau, Ruskin, Renán. Carmen scriveva di tutto, per passione, per impegno civile e anche solo per arrotondare lo stipendio di insegnante, forte della sua conquistata e rivendicata indipendenza economica. Non si definì mai una femminista, così come d’altronde respinse ogni altra etichetta. 
Nel 1931 tutto quello per cui Carmen si era battuta vedeva la luce assieme alla Seconda Repubblica spagnola che riconobbe il matrimonio civile, il divorzio e il suffragio femminile. Fu una gioia, ma fu anche motivo per continuare di più e meglio l’assiduo impegno  in diverse organizzazioni, anche a discapito della sempre più provata salute. 

Intitolazioni e targhe spagnole a Madrid (a sinistra e in centro) e a  Guadalajara in Castiglia-La Mancha (a destra)

Nel 1932, durante una conferenza sull’educazione sessuale, Carmen si accasciò a terra a seguito di un malore che la portò alla morte, nella propria abitazione, all’alba del giorno dopo. Si racconta che avrebbe proferito queste parole: «Muoio felice perché muoio nel trionfo repubblicano! Lunga vita alla Repubblica!». Di certo fu donna libera, senza pregiudizi, coraggiosa, tenace. Il suo nome rimane legato a tante battaglie, a tanta importante produzione letteraria e al mondo del giornalismo. Segno che la damnatio memoriae tentata da Franco finanche dopo la sua morte non è riuscita a scalfirla. Così si consegnò ai posteri, nella sua autobiografia: «Detesto l’ipocrisia e siccome sono indipendente, libera e non voglio essere amata per qualità che non ho, dico sempre tutto quello che sento e sento. Quindi quelli che mi amano mi amano davvero. Chi mi distoglie da dietro si toglie il cappello davanti a me. Non ho mai pensato alla crescita personale a scapito della mia libertà o alla rinuncia alle mie convinzioni».

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Articolo di Antonella Palermo

Segretaria comunale, giornalista e autrice del romanzo Veronica, solo l’amore non basta sui temi del femminicidio e dell’educazione di genere, vive tra la Campania e la Sicilia. Ama il mare, la scrittura e l’impegno civile.

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