La donna greca. L’amore saffico

C’è in tutta la ricchissima mitologia greca un solo racconto lesbico, l’amore tra Diana e Callisto. Nel II libro delle Metamorfosi, Ovidio narra come Callisto viene sedotta da Giove sotto le sembianze di Diana. Dopo aver fatto l’amore col dio, Callisto, convinta di aver goduto con una donna, torna nel corteo delle ninfe vergini di Diana. Di lì a nove mesi, dopo una battuta di caccia con la dea e le altre ancelle, si rifiuta di spogliarsi e fare il bagno presso una fonte per non far notare che è incinta. Le ninfe si insospettiscono e, sfilatale la veste, le mettono a nudo il ventre. Così Diana la scaccia. 

Diana e Callisto, Pieter Paul Rubens, Madrid,
Museo del Prado, 1635 ca. 

La letteratura e la storiografia greca ci mettono davanti agli occhi un intero popolo di donne cacciatrici, forse l’unica intera popolazione di lesbiche che sia mai esistita da che mondo è mondo, ovvero le Amazzoni, vissute nell’epoca più arcaica della storia dell’Ellade, prima della guerra di Troia. Nemiche mortali del popolo greco, provenienti dalle steppe eurasiatiche, dalla Scizia o dal Caucaso e poi migrate verso l’Anatolia, l’attuale Turchia, oppure, secondo Ippocrate, le femmine dei Sarmati, popolo vivente lungo le coste del Mar d’Azov: muscolose e atletiche, formidabili combattenti a cavallo che hanno nell’arco la loro arma infallibile.  

«Queste donne si uniscono due volte all’anno con gli uomini di una popolazione vicina, allo scopo di restare incinte e generare dei figli. Allevano i bambini maschi fino a sette anni, poi li restituiscono ai loro padri. Se invece partoriscono una femmina, la tengono con loro, per educarla nell’arte della caccia e della guerra, e ciascuna adotta la bambina come sua figlia», riferisce Strabone.  

Perennemente sul piede di guerra, le Amazzoni si imprimono nell’immaginario comune come delle femministe ante litteram, lesbiche perfette, che usano gli uomini solo per procreare ma preferiscono fare l’amore tra loro. Si tatuano, sono le prime al mondo a indossare i pantaloni, cavalcano e alle loro figlie, da piccolissime, bruciano la mammella destra perché, una volta cresciute, possano tirare meglio con l’arco. Secondo gli scrittori classici, il nome “amazzone” sarebbe composto dalla lettera alfa privativa e dal vocabolo greco mazos che significa “seno”, quindi la traduzione letterale sarebbe “priva di seno”.  

E sicuramente pensa a loro, alle mitiche eroine dei tempi che furono, Cassandra Clare quando ammonisce: «Chiunque dice che le donne sono deboli ha paura della loro forza». 

Scena di combattimento tra i Greci e le Amazzoni su un sarcofago, da Tessalonica (oggi Salonicco), 180 d.C. 

Saffo, l’immortale poeta di Mitilene, è divenuta l’icona universale dell’amore tra donne. Restano il suo nome (saffismo) e quello della sua terra (lesbismo) per indicare donne che amano altre donne.  

Il tiaso che Saffo dirige a Mitilene nell’isola di Lesbo fra il VII e il VI secolo a.C. è un hortus conclusus, un collegio esclusivo ed elitario per ragazze di nobile famiglia. Appare come un microcosmo autonomo, un ambiente ovattato e isolato dal mondo, nel quale le fanciulle vengono preparate al matrimonio, che rappresenta il loro ingresso nella vita sociale. Non c’è la filosofia tra le materie di studio, ma, oltre al canto, alla danza e alla musica, assumono importanza la ricerca della bellezza, la raffinatezza e l’amore. Tra Saffo e le ragazze si instaura un rapporto di complicità, non come tra maestra e allieve ma piuttosto come tra amiche intime su un piano di assoluta parità. Saffo e le sue compagne sperimentano una dimensione psicologica in cui sono frequenti le esperienze estatiche.

Saffo, seduta, legge una delle sue poesie a tre amiche, vaso attico di Vari, gruppo di Polygnotos, Atene, Museo Archeologico Nazionale di Atene, 440-430 a.C.

Sono comuni i rapporti omosessuali sia tra le allieve del tiaso sia tra le singole ragazze e la maestra. Àttide, Gòngila, Mnasìdaca, Girìnno, Dica, Anattòria, Gorgòne: ecco alcune delle giovani per le quali Saffo arde di desiderio e per le quali è divorata dalla gelosia. L’omoerotismo è incoraggiato nella società della Grecia arcaica e in particolare a Lesbo, in quanto ritenuto propedeutico all’amore eterosessuale del matrimonio. Alle ragazze viene insegnato sin dalla più tenera infanzia che è loro peculiare dovere concedere il proprio cuore e il proprio corpo solo a quegli uomini che diverranno un giorno i loro mariti. L’amore è il fulcro della vita delle fanciulle nel tiaso, e la stessa Saffo, nella sua sublime poesia, ne fa una sorta di “filosofia dell’esistenza”. L’eros è però anche un codice di comportamento collettivo, che ha regole e divieti ben precisi su cui veglia Afrodite. Il sesso, pulsione istintiva e naturale, non è fine a sé stesso, in quanto piacere fisico e temporaneo, ma inseparabile dallo spirito. I rapporti omoerotici sono quindi un tutt’uno con il godimento interiore e arricchiscono l’anima con la vasta gamma di emozioni, vibrazioni e sfumature psicologiche che recano con sé. Strettamente legata all’amore è la bellezza. Nessun autore greco usa tanto la parola “bello” come Saffo: «Chi è bello è bello solo in quanto lo si vede: chi è buono rimarrà sempre, per ciò stesso, anche bello». Per lei, che scioglie la sua filosofia di vita in versi immortali, l’importante è lo spirito.   

Imerio, autore del IV secolo d.C., vede nei carmi di Saffo un preciso rituale che si svolge all’interno delle comunità. Saffo, la caposcuola che funge da pronuba, entra nel talamo, prepara il letto nuziale, fa entrare le ragazze nel nymphaion, conduce simbolicamente sul carro le Grazie, Afrodite e il suo corteo di Amorini e forma una processione con la fiaccola nuziale.  

All’interno delle comunità femminili di Lesbo si creano unioni “ufficiali” tra le ragazze, dei matrimoni temporanei che le tengono unite sotto lo stesso giogo. 

A molte delle sue fanciulle la poeta dedica versi di fuoco che evidenziano un forte, insopprimibile desiderio a cui è vano resistere: 

«Sei giunta, hai fatto bene, io ti bramavo. 
All’animo mio che brucia di passione  
hai dato refrigerio».  

La nostalgia di una ragazza partita per andare sposa in terre lontane accende la sua ispirazione:  

«Ora ella risplende tra le donne di Lidia 
come talora, tramontato il sole,  
la luna dalle dita di rosa  
vince tutte le stelle. 
La sua luce sfiora il mare salato 
e i campi screziati di fiori».  

Quando una giovinetta, ormai da marito, lascia il tiaso, le compagne ne soffrono il distacco. La stessa Saffo sospira: «Io dico che qualcuno di me si ricorderà». Ed esprime tutta la sua inguaribile disperazione:  

«Avrei davvero voluto morire 
quando lei mi lasciò tra le lacrime 
e mi disse: come è terribile, 
Saffo, questa nostra sorte 
perché è contro la mia volontà che ti abbandono».  

Busto di Saffo, copia romana da originale greco dell’età classica, Roma, Musei Capitolini 
 

Ma ha anche una acuta crisi di gelosia se vede una sua pupilla in amabile conversazione con un uomo, e più arde dal desiderio di volerla tutta e solo per lei: 

«Pari agli dèi mi appare lui, quell’uomo 
che ti siede davanti e da vicino 
ti ascolta: dolce suona la tua voce 
e il tuo sorriso 
accende il desiderio. E questo il cuore 
mi fa scoppiare in petto: se ti guardo 
per un istante, non mi esce un solo 
filo di voce, 
ma la lingua è spezzata, scorre esile 
sotto la pelle subito una fiamma, 
non vedo più con gli occhi, mi rimbombano 
forte le orecchie, 
e mi inonda un sudore freddo, un tremito 
mi scuote tutta, e sono anche più pallida 
dell’erba, e sento che non è lontana 
per me la morte». (trad. di G. Nuzzo) 

Nell’Inno ad Afrodite, una delle liriche più toccanti della letteratura universale concepita come un’accorata preghiera, ricca di passione e di delicata forza emotiva, che il grande Ippolito Pindemonte restituisce con la sua fedele traduzione del testo greco, Saffo chiede aiuto alla dea dell’amore per far sua la donna che ama. In particolare, nella sesta strofa Afrodite assicura che con la sua intercessione i voti della poeta affranta saranno esauditi e la ragazza verrà da lei a braccia aperte. 

Afrodite (Ladolina), Atene, Museo Archeologico Nazionale di Atene, II sec. d.C.

«Afrodite eterna, in variopinto soglio, 
Di Zeus fìglia, artefice d’inganni, 
O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio, 
Di noie e affanni. 
E traggi or qua, se mai pietosa un giorno, 
Tutto a’ miei prieghi il favor tuo donato, 
Dal paterno venisti almo soggiorno, 
Al cocchio aurato
Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli 
Te guidavano intorno al fosco suolo 
Battendo i vanni spesseggianti, snelli 
Tra l’aria e il polo, 
Ma giunser ratti: tu di riso ornata 
Poi la faccia immortal, qual soffra assalto 
Di guai mi chiedi, e perché te, beata, 
Chiami io dall’alto. 
Qual cosa io voglio più che fatta sia 
Al forsennato mio core, qual caggìa 
Novello amor ne’ miei lacci: chi, o mia 
Saffo, ti oltraggia? 
Se lei fugge, ben ti seguirà tra poco, 
Doni farà, s’ella or ricusa i tuoi, 
E s’ella non t’ama, la vedrai tosto in foco, 
Se ancor nol vuoi. 
Vienne pur ora, e sciogli a me la vita 
D’ogni aspra cura, e quanto io ti domando 
Che a me compiuto sia compi, e m’aita 
meco pugnando». 

Una sola lirica in tutta la poesia di Saffo, il frammento 94, allude chiaramente a un rapporto intimo. 

«Sinceramente vorrei essere morta. 
Lei mi lasciava piangendo a lungo, 
e così mi disse: “Ah! Che pene spaventose 
soffriamo, o Saffo. Davvero contro il mio volere ti lascio.” 
Ed io così le rispondevo: “Va’ e sii felice e di me serba 
memoria: tu sai quanto ci volevamo bene;
ma se non ricordi, allora io voglio farti ricordare 
… tutti i momenti… e belli che abbiamo vissuto insieme: 
(ché) accanto a me tu ponesti (sul tuo capo molte 
corone) di viole e di rose e di crochi (?) 
e intorno al collo delicato molte collane conserte 
fatte di fiori (incantevoli) 
e con unguento floreale… e regale ti profumasti 
e su morbidi giacigli… delicatamente… placavi il desiderio… 
e non c’era (festa?) né sacrificio da cui non fossimo assenti, 
non bosco, non danza… fragore (dei crotali)». 

Saffo, Raffaello Sanzio, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura, 1508-1511

Il tiaso di Saffo non è un caso unico. Da un frammento sappiamo che in un altro, sempre a Lesbo, Pleistodice e Gongila sono entrambe mogli di Gorgo, la direttrice del tiaso, che si trova così a far coppia con due ragazze. Altre associazioni di fanciulle e donne adulte sono conosciute nell’intera Grecia, e in tutte sono ampiamente documentate relazioni omoerotiche. Ma non si ha notizia di nessuna vera e propria cerimonia nuziale fra donne che si possa assimilare in un certo senso al rito ufficiale quale lo intendiamo oggi. 
Nella Grecia classica la concezione della sessualità è lontana anni luce dalla visione che poi si affermerà con la civiltà cristiana. Le testimonianze di amore e relazioni sessuali tra donne rimangono, comunque, molto esigue.  

Plutarco, storico vissuto tra I e II secolo d. C., ricorda che nel VII secolo a.C. a Sparta le ragazze, addestratissime nelle pratiche ginniche e sportive, gareggiano nude insieme agli uomini e che donne mature hanno relazioni con fanciulle simili a quelle che intercorrono nel resto della Grecia tra uomini più anziani e ragazzi. Tuttavia anche a Sparta i rapporti tra donne hanno un valore iniziatico, servono a preparare le fanciulle all’amore eterosessuale. Non si va impreparate al matrimonio, e perciò le future spose devono necessariamente istruirsi facendo sesso con adulte esperte. Ci sono anche cori femminili, detti agelai, e frequenti sono le relazioni omosessuali sia tra le coreute, sia tra le coriste e la corega, la direttrice. Non sappiamo però se queste relazioni sono solo temporanee e si esauriscono nel momento in cui le ragazze diventano maggiorenni e prendono marito oppure se sono destinate a durare nel tempo. 

Erinna e Saffo nel giardino di Mitilene, Simeon Solomon, 1864

Del poeta greco Alcmane, vissuto a Sparta nella seconda metà del VII secolo a.C. abbiamo un carme recitato da un coro di fanciulle, accompagnato a volte da musica e danza. Nel partenio del Louvre ― celebrazione di una sorta di matrimonio tra ragazze ― il coro loda due fanciulle: Agidò, paragonata al sole, e Agesicora, la corifea (colei che guida il coro), dal viso d’argento e dalla chioma d’oro, paragonata al cigno per l’armonia del canto. 

«Ora io canto, 
la luce di Agido. La scorgo come 
un sole, e così a noi Agido rivela 
il suo splendore. Essa spicca 
come, in mezzo all’armento 
che pascola, un cavallo 
dal piede sonante, uso a vincere, 
veloce più dei sogni, nelle gare. 
Non la vedi? È come cavallo 
veneto. Ma anche la chioma sciolta 
della compagna Agesìcora 
ha riflessi d’oro limpido. 
E il suo volto è d’argento. 
Ma che dirò più chiaramente? 
Lei è Agesìcora: 
più bella dopo Agido, 
correrà con Ibeno quale cavallo Colasseo: 
così insieme le Pleiadi, quando 
avanti l’alba portiamo il velo, 
come fa l’astro di Sirio, nella notte 
dolcissima lottano sollevandosi in alto… 
Ma mi conforta Agesìcora. 
Non è forse con noi Agesìcora 
dalla bella caviglia, 
che accanto ad Agido, 
allieta la festa dell’offerta?… 
vuole piacere moltissimo all’Aurora 
perché ha reso lievi i nostri affanni, 
come ora le fanciulle 
per grazia di Agesìcora 
avranno dolce quiete… 
Quando canta Agesìcora 
non uguaglia le sirene, 
che sono dee; ma in gara 
con undici fanciulle ne vale dieci. 
La sua voce è del cigno 
che s’ode lungo 
le correnti dello Xanto. 
E la sua chioma desiderata…». 

In un altro partenio Astimelusa con il solo sguardo ammaliatore suscita nelle compagne «un desiderio che scioglie le membra, più struggente del sonno e della morte, né vana è la sua dolcezza». Ma lei non si cura di loro «come un astro che attraversa veloce lo splendore del cielo o come un ramo d’oro o lieve piuma». Da questi frammenti è evidente che le ragazze, riunite in comunità simili al tiaso di Lesbo, hanno rapporti intimi fra loro. 

Platone nel Simposio cita «donne che non ci pensano proprio agli uomini, ma più volentieri sono propense ad amoreggiare con donne». Le chiama hetairistriai, “seguaci delle etère”, probabilmente intrattenitrici e prostitute con una propria clientela lesbica.  

In una sezione del Simposio, il cosiddetto Discorso di Aristofane, c’è una chiara allusione alle donne lesbiche in riferimento alla divisione dei sessi quando fu creato il genere umano. 

La società greca spiega così l’omosessualità. In principio c’erano tre sessi: maschio, femmina e neutro, o per meglio dire “androgino” o ermafrodito, metà maschio e metà femmina. Si diceva che i maschi discendessero dal sole, le femmine dalla terra e le coppie androgine dalla luna. Queste creature cercarono di scalare le vette dell’Olimpo e progettarono di assaltare gli dei. Zeus decise allora di tagliarli a metà, separando di fatto i due corpi. 

Da allora le donne che sono state separate dalle donne corrono dietro alla loro altra metà: ed ecco le lesbiche. Allo stesso modo, gli uomini separati dagli altri uomini vanno cercando i loro simili e amano altri uomini. Aristofane afferma poi che quando due persone che erano separate si ritrovano, vogliono restare per sempre congiunte. La sua osservazione giustifica, almeno in parte, l’attrazione tra persone dello stesso sesso. 

Le Tre Grazie, Antonio Canova, Londra, Victoria and Albert Museum, 1814-1817 

Asclepiade di Samo (nato intorno al 320 a.C.) in un epigramma descrive due donne che rifiutano le “regole” di Afrodite ma invece fanno «altre cose che non sembrano giuste». Esempi di donne che penetrano con un fallo finto un’altra donna non sono rari nella pittura dei vasi greci. 

Nel II secolo d.C. Luciano di Samosata presenta le “donne mascoline”, le tribadi (dal greco trìbein, “sfregare”), «donne, come quelle di Lesbo, di aspetto maschile che si prendono come mogli altre donne, proprio come se fossero uomini». Nel suo famoso Dialogo delle cortigiane, parte quinta, due etère, Clonetta e Lena, si scambiano confidenze in tutta franchezza. Raccontano di una certa Megilla che si fa chiamare Megillo e candidamente confessa: «Sono nata uguale a voi, ma il pensiero, il desiderio e tutto il resto sono da uomo». Poiché viene da Lesbo, Lena commenta: «Dicono che ci sono donne così a Lesbo, con facce da maschi, che rifiutano categoricamente di sposarsi con gli uomini, ma solo con le donne, come se esse fossero uomini». Megillo prova un rapporto con la stessa Lena, che accetta a malincuore ed è nauseata per un’esperienza che non le piace. Megillo sposa poi una certa Demonassa di Corinto. 

«Clonetta 
Odo una novità sul conto tuo, o Lena, che Megilla, quella ricca di Lesbo, è innamorata di te come un uomo, e che state insieme, e non so che fate tra voi. Che è? ti sei fatta rossa? Dimmi, è vero questo? 
Lena 
È vero, Clonetta; ma mi vergogno, che è una cosa sconcia. 
Clonetta 
Per Cerere, che faccenda è questa, e che vuole quella donna? Che fate quando state insieme? Vedi? Non mi vuoi bene; se no, me lo diresti. 
Lena 
Ti voglio bene tanto! Quella donna è fieramente mascolina. 
Clonetta 
Non intendo bene che vuoi dire: forse è una tribade? Perché a Lesbo, corre voce che vi sono certe donne che non vogliono l’uomo, ma si accoppiano con le donne a guisa d’uomini. 
Lena 
Una cosa simile! 
Clonetta 
Dunque, Lena, raccontami tutto, come prima ti tentò, come ti persuase, e in seguito ogni cosa. 
Lena 
Avendo apparecchiato un banchetto lei e Demonassa, quella di Corinto che è ricca e fa la stessa arte di Megilla, mi chiamarono per farle divertire con la cetra. Dopo che finii di suonare, era notte e già ora di andare a letto, e loro due erano ubriache, mi disse Megilla: Su, Lena, è ora di dormire, coricati qui con noi, in mezzo a tutte e due. 
Clonetta 
Ti coricasti con loro due: e poi che avvenne? 
Lena 
Mi cominciarono a baciare come fanno gli uomini, non solo attaccando le labbra, ma aprendo un poco la bocca, e mi abbracciavano, e mi pizzicavano i capezzoli, e Demonassa mi mordeva mentre mi dava baci. Io non riuscivo a capire dove volevano arrivare. Ecco che Megilla dopo che si è ben bene riscaldata, si toglie la parrucca e resta con la testa rapata a zero, liscia e pelata come l’hanno i più robusti atleti. Io mi sconvolsi a vederla calva, e lei: Lena, hai visto mai un giovanotto così bello? – Io non vedo, dissi, qui nessun giovanotto, o Megilla. – E lei: Non mi considerare femmina, perché io mi chiamo Megillo, e già sposai questa Demonassa, e lei è mia moglie. – A questo, o Clonetta, io scoppiai a ridere, e risposi: Tu dunque, o Megillo, eri uomo, e noi non lo sapevamo, e come dicono di Achille, ti nascondevi sotto una gonna di ragazza. E hai quello dell’uomo? e fai a Demonassa quello che fanno gli uomini? – Proprio quello, o Lena, non ce l’ho, rispose; ma non ne ho bisogno, e vedrai che faccio in un modo particolare, e molto più dolce. –   E io: Sei tu forse un ermafrodito, di cui si dice che ne sono tanti, che hanno l’uno e l’altro? – Perché io, Clonetta mia, non sapevo ancora che faccenda fosse quella. – No, disse lei, io sono uomo schietto. – Mi ricordo, soggiunsi io, che Ismenodora di Beozia, la sonatrice di flauto, nel raccontarmi le cose del suo paese, mi diceva che a Tebe c’era un tale che da femmina diventò maschio, ed era un grande indovino, e se non erro si chiama Tiresia. Forse è accaduto così anche a te? – No, Lena mia, rispose; io sono nata come tutte voi, ma l’inclinazione, il desiderio, e tutto il resto in me è d’uomo. – E io: E ti basta il desiderio? Mi rispose: Resta, Lena, se non mi credi, e vedrai che non sono per niente da meno degli uomini: ho un altro strumento che fa lo stesso gioco: resta e vedrai. – Tanto mi pregò e mi supplicò che rimasi lì, o Clonetta, e mi regalò pure una bella collana e un paio di belle camicie. Io l’abbracciai come se fosse un uomo, e lei mi baciava, e ansimava e gemeva tutta, e mi pareva che stesse veramente al settimo cielo. 
Clonetta 
Che faceva, Lena, e in che modo? questo proprio mi dei dire. 
Lena 
Non mi fare tante domande: è una vergogna: e io, per la Venere Celeste, non dirò niente più». 

In copertina: Saffo e Alceo, Lawrence Alma-Tadema, Baltimora,  Walters Art Museum, Baltimora, 1881, olio su tela.

***

Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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